Irma Panova Maino e La sua Postazione

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Irma Panova Maino e La sua Postazione

Ogni autore possiede una propria postazione in cui le idee prendono forma e le parole scorrono velocemente sul monitor. Per i più conservatori esistono ancora gli scrittoi, carta, penna, talvolta calamaio. Tuttavia, a prescindere dal mezzo con cui si esprimono i pensieri, la magia che scaturisce è quella insita in ogni forma d’arte e noi vogliamo farvi vedere come se la cavano i nostri autori.

Le radici

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La mia postazione è situata in un luogo completamente nuovo e non è sempre stata quella che vedete ora. Anzi, per molto tempo la mia postazione è stata un netbook molto piccolo che mi sono portata dietro in tutti gli innumerevoli viaggi.

Con il net ho scritto molti dei miei romanzi e racconti nelle sale d’aspetto degli aeroporti, nelle hall degli alberghi, in taxi e nel corso di qualche transfert da un luogo all’altro. Forse qualche personaggio è addirittura scaturito da qualcuno che ha attratto la mia attenzione e il cui comportamento ha fatto scattare l’ispirazione.

Il piccolo net ha fatto davvero un lavoro egregio perché, per quanto piccolo fosse e per quanto le sue prestazioni non fossero eccezionali, è riuscito a dare corpo a ogni mia fantasia e a mettere insieme le trame che hanno poi fatto nascere i miei libri.

Nella sua memoria sono state contenute centinaia di cartelle, milioni di parole, centinaia di personaggi… anche tanti file che sono rimasti lì, in attesa di essere sviluppati, che forse non vedranno mai la luce.

Da qualche tempo, però, la mia vita ha preso una piega un po’ meno vagabonda e questo mi ha permesso di ampliare la mia postazione, rendendola più comoda e molto più prestante. Un computer fisso, diversamente da un portatile, offre la possibilità di installare hardware e software migliori e più potenti.

Tuttavia, come potete vedere nella foto, oltre al pc c’è anche il mio fidato tablet, quello che mi permette di portare con me i libri a cui tengo e che leggo appena riesco. Intorno alla tastiera ci sono alcuni oggetti che mi sono cari e che mi aiutano a concentrarmi, oltre a uno dei miei “draghi”, simbolo dello zodiaco cinese a cui appartengo.

Non solo, proprio da questo pc, di solito, svolgo le mie mansioni come responsabile per l’ufficio stampa EEE e preparo le iniziative, nonché le promozioni per il Mondo dello Scrittore.

Dunque, non solo un luogo in cui creare ma anche un posto in cui una passione diventa un lavoro, nel senso più positivo del termine.

A proposito, le foto qui sotto sono le mie 😀

Intervista a Gaetano Manna

Intervista a Gaetano Manna

Il libro di Gaetano Manna, L’aria non può parlare, affronta un percorso interiore attraverso una serie di vicissitudini che accompagnano il lettore a comprendere anche sé stesso. La narrazione diventa il mezzo per dipingere un’epoca e una società di cui conosciamo molto, grazie alla cronaca, ma estremamente poco della sua vera essenza.

  • Come nasce l’idea che ti ha spinto a scrivere il tuo libro?

Nasce su una serie di circostanze che avvengono quasi in simultanea, in modo del tutto inaspettato e particolare.

Nel 2011, mentre approfondivo la conoscenza della nascita e sviluppo dei manicomi criminali (seconda metà del secolo diciannovesimo) mi imbattei nelle notizie che venivano diffuse dai media inerenti la denuncia della Commissione di inchiesta del servizio sanitario nazionale del Senato della Repubblica (https://www.youtube.com/watch?v=-J5-wGkx0iM) all’interno dei cosiddetti OPG (Ospedali psichiatrici Giudiziari). Il video che spopolò in internet, oggetto di approfondimenti giornalistici (ad esempio RAI tre, “Presa diretta” del giornalista Iacona) era sbalorditivamente simile agli scenari che io iniziavo a descrivere e raccontare nel mio romanzo. Questo elemento mi incoraggiò e mi spinse a proseguire nell’intento di scrivere quella che poi è diventata la storia del libro.

  • La Sicilia ha un ruolo fondamentale nella tua vita, non solo come Terra, ma anche come costumi e tradizioni. A parte le tue origini, cosa ti ha convinto ad ambientarvi la storia?

Per una serie di motivi. Innanzitutto perché sono di origini siciliane e poi perché ho vissuto in una famiglia cosiddetta “allargata”, dove erano presenti, oltre ai miei genitori, anche la nonna e la zia. Il tempo passato da piccolo con mia nonna, e con i suoi fantastici racconti, mi ha permesso di vivere la cultura siciliana come se fossi realmente in Sicilia. Abile raccontatrice, passavo ore ad ascoltare le mirabolanti avventure di Giufà, personaggio letterario della tradizione orale popolare della Sicilia, privo di qualsiasi malizia e furberia, credulone, facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere. Oltre a questi due fattori, indispensabili per avviare la storia scritta ne aggiungerei un terzo, ovvero il fatto che in provincia di Messina (Barcellona pozzo di Gotto) c’è un vecchio manicomio criminale, inaugurato nel 1925 e dismesso per quelle funzioni originarie solo nel 2015 (meglio tardi che mai!).

  • Qual è la Sicilia che emerge dalle pagine del romanzo?

È la Sicilia del Gattopardo, del forte contrasto tra classi ricche, rappresentate da persone agiate e spregiudicate e tutto il resto: poveri uomini costretti a vivere nella miseria più totale, soprattutto a Messina a seguito del devastante terremoto che la colpì nel 1908. E’ la sfrontatezza degli uomini perbene a non mollare neanche un centesimo delle loro ricchezze a favore di persone che morivano letteralmente di fame. Cambiare tutto per non cambiare niente: la cultura siciliana mafiosa è fatta di questa essenza, che affonda le sue radici nei secoli passati. Sicilia, terra di conquista di tanti eserciti e tante culture, di popoli che l’hanno (apparentemente) dominata ma, in realtà, il popolo siciliano è come il bambù: si piega ma non si spezza. Il siciliano assiste e aspetta che il vento cambi direzione per tornare ad essere quello di sempre. C’è un vecchio detto siciliano che dice:

“Calati juncu, chi’ passa la china”, ovvero: calati giunco, finché passa la piena. (è un invito a saper sopportare, anche umiliandosi, aspettando tempi migliori).

  • Chi è Antonio Anastasi?

E’ il personaggio principale della storia. Di famiglia benestante (la sua è una storica famiglia di Notai siciliani) ha però una forte intolleranza alle disuguaglianze, di ogni tipo! Sin da piccolo non sopporta i suoi genitori per il loro modo di vivere e approcciarsi con il mondo esterno. Per loro il mondo iniziava e finiva con la loro stretta cerchia di amici, ovviamente tutti benestanti e distanti dal mondo reale. Questa intolleranza scatenerà i successivi conflitti con il padre e la madre e lo costringeranno ad essere portato dal padre a Palermo, nel collegio dei Gesuiti.

  • Si dice che in ogni scritto un autore doni una parte di sé, ti senti più vicino ad Antonio o a Roberto? Oppure sei tu la storia?

Bella domanda! Direi che in ognuno di loro c’è una parte di me: di Roberto la bontà d’animo e la curiosità, di Antonio l’intolleranza alle ingiustizie e la testardaggine a portare avanti le cose fregandosene delle conseguenze.

  • Tenendo conto che spesso gli autori (soprattutto i meno esperti), traggono spunto dalle serie tv, che sono per la maggior parte americane, quale errore consiglieresti di non fare, soprattutto nell’ambito lavorativo che conosci?

Parli con uno che di serie televisive americane non ne vede una dai tempi della mitica “Happy days” – ricordi il grande Fonzie? Scherzi a parte, la cultura americana, con la produzione e diffusione martellante di film, serie TV e quant’altro, rischia di produrre l’idea che quel mondo (americano) sia quello reale. In realtà di reale c’è ben poco. La storia, la nostra storia, rischia di essere dimenticata, sotto tutti gli aspetti. Questo purtroppo è il vero dramma: senza la conoscenza della nostra storia rischiamo di non avere più quelle radici del passato che ci ha fatto essere così come siamo, oggi. La storia mi ha permesso di comprendere tante cose che ho riportato, fedelmente,  nel romanzo. Pertanto l’invito a tutti è quello di conoscere le proprie radici, attraverso la storia.

  • Avendo lavorato in campo psichiatrico, quanto hai trovato alienante questa esperienza?

L’uomo è l’animale in grado di compiere azioni tra le più estreme in natura: dalle straordinarie bellezze di un’opera d’arte a forme di crudeltà verso altri simili inimmaginabili. Sotto quest’ultimo aspetto non riesco ancora a capacitarmi di come alcuni uomini possano concepire una serie di azioni finalizzate a provocare dolore in un altro essere umano. L’unica risposta che mi sono dato, visto la professione che svolgo, è che certi uomini hanno dentro di se solo esperienze negative che predominano rispetto a quelle positive. Se hai conosciuto solo il male non puoi dare che male.

  • Si dice che gli italiani non leggono e che, sostanzialmente, preferiscano il cellulare a un buon libro. Dato che hai avuto modo di presentare il tuo romanzo al pubblico, cosa ne pensi della precedente affermazione?

L’affermazione che gli italiani non leggano, purtroppo, è data dai numeri. Oggi con internet gli italiani leggono forse di più, ma in modo superficiale. Un romanzo come il mio incute paura per il solo fatto che si compone di 650 pagine. Molti miei amici mi hanno confermato la fatica nel mettersi a leggere tutte queste pagine ma c’è una speranza: mia suocera. Ebbene si, mia suocera, che non aveva mai letto in vita sua che libercoli di qualche pagina sta leggendo il mio romanzo per la seconda volta! Se c’è riuscita mia suocera le speranze che lo possano leggere tanti altri c’è.

  • Quando Gaetano non scrive, come occupa il proprio tempo?

Lo dedico a organizzare e programmare servizi sanitari, dedicati soprattutto alla cura delle dipendenze patologiche. Faccio anche formazione per gli operatori. E’ un lavoro gratificante ma impegnativo.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

L’idea di scrivere un altro romanzo mi affascina ma, purtroppo, devo fare i conti con un lavoro altrettanto impegnativo che lascia poco spazio alla fantasia. Ma le idee ci sono e io sono una persona che sa aspettare il momento opportuno, un po come il nostro Antonio che, nonostante i decenni di reclusione forzata, non ha perso la lucidità del pensiero e nemmeno la voglia di andare avanti.

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Intervista a Ludovico Alia

Intervista a Ludovico Alia

Affrontare un romanzo erotico, senza cadere nella mercificazione e nel pornografico non è così semplice, soprattutto non è facile stabilire un confine che possa far comprendere i meccanismi psicologici, morali e sociali che possono portare a determinate scelte. Il gusto dell’amarena selvatica porta il lettore ad assaporare sì l’asprezza ma anche la dolcezza insita che esiste nel frutto. E il frutto, in questo caso, è proprio il rapporto che esiste fra i protagonisti.

  • Può un romanzo erotico parlare di amore, inteso come sentimento e non come atto fisico?

Certamente. E questo può essere evidenziato descrivendo l’una e l’altra cosa e/o entrambe. Mi spiego: è possibile descrivere un momento in cui i personaggi vivano un rapporto del tutto fisico e magari mercenario, un’altra situazione in cui si illustri sentimento del tutto scevro di fisicità, oppure momenti in cui l’atto fisico sia accompagnato da un forte coinvolgimento sentimentale. Il lettore se ne accorge, senza ombra di dubbio. Penso che nell’”Amarena” ci siano tutti. Accidenti, mi sono accorto proprio ora che sono tre descrizioni e che l’amarena, intesa come frutto, possiede proprio tre gusti. E’ forse un segno del destino?

  • Histoire d’O affronta una tematica molto simile a quella presentata nel tuo libro, il cuckoldismo. Si può concedere solo ciò che ci appartiene e ci appartiene solo ciò che ci viene concesso. Tuttavia, in Histoire d’O non è l’amore il fattore scatenante, bensì il concetto di “possesso”. Quanto è sottile il confine fra amore e possesso, a tuo parere?

Non sono d’accordo. Histoire d’O è un romanzo impostato su un altro terreno. Tra i protagonisti non vi è amore, sentimento vero. Solo desiderio di possesso. La protagonista “crede” di essere innamorata. In realtà alla fine si renderà conto di non esserlo mai stata. Luca nell’Amarena non “possiede” Elena e viceversa lei non possiede lui. La loro unione è pura, cementata dal desiderio di compiacere i desideri del proprio compagno e nel contempo anche i propri; questo non solo in fatto di sesso ma anche per altri argomenti. Si adoperano entrambe per il proprio partner nel momento in cui ne abbia necessità. Histoire d’O è un romanzo asettico ambientato in un mondo distaccato, senza sentimento e lontano da una possibile vera realtà. Nell’amarena, ambientata nel mondo reale e in una situazione altrettanto vera e purtroppo attuale, l’amore è palpabile ed è questo sentimento la causa scatenante di tutta la narrazione. In definitiva secondo me c’è un abisso, tra amore e possesso.

  • In realtà, il menage a trois diventa una costante stabilizzata da un unico elemento, l’altro. Come hai scelto questa seconda figura maschile e cosa rappresenta per te?

Se intendiamo la figura di Sergio, direi che è un menage a trois molto particolare. In realtà il cuckold ‘concede’ la propria partner a chiunque lei desideri. Quindi la costante è Lui, lei e gli altri. Nel caso specifico Sergio è una figura da un lato paterna e dall’altro una persona che mendica la compagnia e la presenza della coppia. Rappresenta un po’ un esempio per tutti noi: cercare di dare prima di chiedere e ricevere aiuto da altri. Cercare di capire gli altrui desideri prima di soddisfare i nostri. Ma la cosa più importante di Sergio è guarda caso un esempio di devozione e amore assoluto e totale verso chi gli ha regalato gli anni più belli della sua esistenza: Aisha. Per lui Elena è solo una rappresentazione fisica della sua compagna, null’altro che un modo di illudersi che ella sia ancora in vita, completamente pazzo d’amore.

  • Dal tuo punto di vista, quanto realmente sono in grado di comprendere i lettori (se non hanno sperimentato di persona) il tuo romanzo?

Reputo che molti di coloro che leggono siano persone preparate e aperte. In una recensione un lettore ha scritto “ben scritto e ha di carino che non parla solo di sesso ma anche un minimo di altre cose”. Attendo una critica che dica “parla di molte cose ma anche di sesso”, anche se ahimè è stato relegato tra i libri ‘a luce rossa’ e probabilmente questo ne frena parecchio la visibilità. Ad ogni buon conto ho ricevuto riscontri molto positivi. alcuni sfioravano l’entusiasmo, probabilmente perché i vari contenuti erano stati perfettamente intesi.

  • Quali sono state le reazioni più comuni?

Le critiche che ho ricevuto sono state per la stragrande maggioranza positive. Ho provato a buttare lì un paragone con altri romanzi (50 sfumature) e mi è stato detto che l’Amarena è moooolto meglio e meriterebbe ben di più di quello scritto. Un sacerdote ha avuto il coraggio e la pazienza di leggerlo e per questo lo ringrazio a prescindere. E’ stato cortese e mi ha detto che non era molto d’accordo sul mio modo di intendere l’amore. D’altronde, non tutti i gusti sono all’Amarena.

  • La pornografia spiccia dilaga in rete in modo del tutto incontrollato, ponendo i più giovani a contatto con una realtà che ha davvero ben poco a che vedere con un “normale” rapporto di coppia. Secondo te, quanti danni sta facendo?

In verità fa meno danni di tante altre cose. La pornografia c’è sempre stata. Vero è che oggi sul web ci sono una miriade di siti, filmati, chat a cui tutti possono accedere. Ma è anche vero è che al giorno d’oggi alcune cose sono cambiate e molti tabù e totem negli anni 70 e 80 sono crollati. Vedo molte persone frequentare club, o iscriversi a siti di annunci on-line. Forse la coppia del domani sarà più libera e slegata da certe idee. Per quanto mi riguarda deve essere sempre la famiglia a dover intervenire per spiegare questi fenomeni in modo intelligente alla propria prole.

  • A proposito, che cosa è “normale” in un rapporto di coppia?

Amarsi: rispettarsi sempre, confidarsi l’un l’altro i crucci e i dubbi, aiutarsi quando ve ne è necessità, gioire delle soddisfazioni del proprio partner e avere sempre un progetto per il futuro. Se invece la domanda era cosa è normale dal punto di vista “sesso” in una coppia rispondo che tutto ciò che i due componenti della stessa coppia concordano di poter mettere in pratica è normale.

  • Fra gli autori che propongono l’eros come genere tematico, hai delle preferenze?

Anais Nin e Alberto Moravia. Anais Nin perché racconta cose vere, solide assolutamente inconfutabili. Moravia per la fantasia, alle volte un pochino spicciola, ma insomma, scrive anche lui tra le righe e questo tipo di scrittura è sempre da valutare in modo molto positivo. Anche se lo hanno aspramente criticato per questo tipo di scritti. Gli autori contemporanei non mi convincono perché sfruttano in modo smodato temi e storie trite e ritrite e riproponendole fino allo sfinimento. In ciò che scrivo cerco sempre di descrivere un qualche argomento originale. Una piccola annotazione: in realtà la stragrande della maggioranza degli scrittori sono erotici: prendete ad esempio Follet e contate quante scene ‘erotiche ed esplicite’ si possono trovare nei suoi romanzi: ne sarete stupiti.

  • Quando Ludovico non scrive, come occupa il proprio tempo?

Facendo molte cose. In primis il papà e il marito, poi anche altre attività a livello hobbistico, che mi impegnano anche molto dal punto di vista squisitamente fisico.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Molto dipenderà dalla Casa Editrice. L’Amarena è una trilogia, poi ho scritto un altro romanzo e vorrei in seguito anche dedicarmi ad altri generi, ad esempio l’horror. Ma questo dipenderà dal tempo a disposizione e dal giudizio insindacabile dell’Editora.

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Presentazione del romanzo Le foto di Tiffany

Presentazione del romanzo Le foto di Tiffany

Per il ciclo Fuori dall’ombra di Cristian PalmieriRoberta Andres presenterà il suo romanzo “Le foto di Tiffany“, edito da Edizioni Esordienti Ebook, martedì 18 aprile 2017, ore 17,30 presso le Scuderie ducali di Atri (TE) e Lorena Marcelli (anch’essa scrittrice di alcuni libri pubblicati con EEE) avrà l’onore di conversare con l’autrice per farvi conoscere la sua storia di donna e di scrittrice.

“Fuori dall‘ombra” è un progetto fotografico tutto al femminile che nasce dalla volontà di Cristian Palmieri  di rendere la donna protagonista, tramite l‘arte fotografica, di una società che non sa riconoscerla ancora come tale. Il proposito qui descritto è insito in un‘attitudine tutta personale dell‘artista, figlio d‘arte, che già in precedenza ha trattato da vicino questo tema in occasione del progetto fotografico dedicato all‘emancipazione femminile dal titolo “Una porta, una finestra, due mura”- la storia di quattro donne contemporanee e legate l‘una all‘altra dal fil rouge dell‘arte, traendo spunto dallo spirito avanguardistico e senza tempo contenuto nella celebre poesia “The Spleen” della Contessa di Winchilsea, poetessa britannica vissuta nella seconda metà del Seicento, periodo in cui alle donne era vietato l‘accesso alla formazione scolastica.

Proprio in questo contesto il libro di Roberta Andres prende forma e diventa il veicolo più adatto per trattare alcuni argomenti cari alla scrittrice. Non mancate, quindi, a questo appuntamento.

Dettagli del Libro

  • Formato: Formato ebook
  • Dimensioni file: 895 KB
  • Lunghezza stampa: 89
  • Editore: Edizioni Esordienti E-book (12 settembre 2015)
  • Venduto da: Amazon – Kobo
  • Lingua: Italiano
  • ISBN: 9788866902584

 

Giorgio Bianco e La sua Postazione

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Giorgio Bianco e La sua Postazione

Ogni autore possiede una propria postazione in cui le idee prendono forma e le parole scorrono velocemente sul monitor. Per i più conservatori esistono ancora gli scrittoi, carta, penna, talvolta calamaio. Tuttavia, a prescindere dal mezzo con cui si esprimono i pensieri, la magia che scaturisce è quella insita in ogni forma d’arte e noi vogliamo farvi vedere come se la cavano i nostri autori.

Birra, focaccia e rock!

Mi scuso in anticipo con gli astemi, ma la birra (preferibilmente di tipo weiss) è un elemento essenziale della mia postazione di scrittura…
Fra l’altro, la stessa definizione “postazione” mi sembra un po’ forzata. Infatti detesto scrivere e leggere a tavolino. I miei libri nascono su un divano stropicciato, fra cuscini e un mappamondo: l’ideale per alimentare i sogni… a occhi aperti!
Il computer è un portatile, lo tengo appoggiato sulle ginocchia o sulle gambe incrociate e scrivo per qualche ora. Di sera o di notte, sono un tipo crepuscolare…

P.S. Quello nella foto sul desktop del pc sono io all’età di 25 anni (oggi ne ho 52): dicono che il passato faccia male, a me fa benissimo!

La musica mi accompagna quasi sempre quando scrivo. Non la classica, a quella mi dedicherò in un’altra vita. Sono un ascoltatore di cosiddetta musica “rock”, definizione che significa tutto e niente.
Il mio ultimo romanzo, “Dammi un motivo” è nato sulla scia di un album del grande Steven Wilson. Titolo del disco: “Insurgentes“. Una musica di tipo “progressive”, ma quanto detesto le etichette! È un album profondo, a tratti molto triste, fa riflettere, è onirico e mi strappa sempre qualche lacrima.

Il mio cibo preferito, considerato che sono un vegetariano felice, è senza dubbio la focaccia genovese. Amo in generale primi piatti, pizze e cibi salati, ma la focaccia occupa una posizione di grande prestigio nella mia classifica del palato: soffice, intrisa di olio extravergine, salata e semplice, immediata, puoi soltanto amarla e divorarla!
I cibi liguri, oltretutto, ben si sposano con “Dammi un motivo”, romanzo interamente ambientato in Liguria, in una città indefinita che è un po’ Oneglia e un po’ Diano Marina, un po’ Noli e un po’ Genova…

Il Pescatore presentato in Barlassina

Il Pescatore presentato in Barlassina

Venerdì 10 febbraio, presso la Sala Riunioni “E Longoni” di Barlassina, via Milano 49, Pietro Ludovico Prever ha presentato il suo libro, Il Pescatore, in occasione della ricorrenza della Giornata del Ricordo istituita il 30 marzo 2004 con legge dello Stato per ricordare che tra il 1943 e il 1947, circa 400.000 abitanti della Venezia Giulia, dell’Istria, delle isole e di Zara, dovettero abbandonare le loro case per sfuggire alla guerra e alle foibe.

Ecco, dunque, il testo della sua presentazione

Da Zara a Barlassina, storia di Marcella

di Pietro Ludovico Prever

Buona sera amici, voglio ringraziarvi di essere qua, e ringraziare il sig. Galli sindaco di Barlassina che mi ha dato la possibilità di presentare il mio lavoro e la sig.ra Visconti che mi ha dato un aiuto  prezioso.

Siamo qui per tre motivi:

perché oggi è la  Giornata del Ricordo, istituita il 30 marzo 2004 con legge dello Stato per ricordare che tra il 1943 e il 1947, circa 400.000 abitanti della Venezia Giulia, dell’Istria, delle isole e di Zara, dovettero abbandonare le loro case per sfuggire alla guerra e alle foibe;

perché Marcella era una profuga di Zara;

e  perché Il Pescatore  è la sua storia, che si apre con questa domanda: “Io non so perché sono nato a Barlassina”.

Una domanda che  potrà sembrare strana a colui che  vive nel territorio dove  è  nato e dove condivide con altri  dialetto,  cibo, case,  giorni di festa e abitudini, dove ha le sue radici e per questo non ne sente il bisogno; una domanda che invece  troverà  meno strana chi  essendo obbligato a vivere “altrove” per ragioni di lavoro o di studio, è più sensibile al richiamo della  terra di origine, mentre  sarà del tutto normale  per chi,  persa la terra e la casa, ha perso anche ogni traccia del percorso che lo ha portato dove vive,  che per lui   è un semplice dato anagrafico.

Domanda che è sorta  nella mia mente  quando mi sono trovato tra le mani la  lettera con cui nonno Martino nel descrivere la sua condizione di rifugiato, racconta delle vicende che nel lontano 1923 lo avevano  obbligato ad abbandonare  casa,  lavoro, parenti ed  amici per riparare con  moglie e  figli a Mola di Bari, sua città di origine.

È stato così, per trovare una risposta, che ho incominciato a scrivere, ma quello che vorrei trasmettervi in questa breve premessa, è il vuoto davanti al quale  mi sono trovato quando mi sono posto quella domanda, perché in quello stesso momento scoprivo che  in realtà non sapevo nulla, né del luogo dal quale nonno Martino era partito, né di quello dove era arrivato, né dove, come e quando fosse finito; sapevo solo che la nonna era incinta di Marcella (che infatti nascerà a Bari), mentre l’intestazione della lettera che avevo in mano,  “Sebenico 1923”,  invece di aiutarmi faceva nascere  un dubbio, perché  in contrasto con il poco che credevo di sapere, cioè che avevano abitato non a Sebenico, ma a Spalato dove sono nati i fratelli e le sorelle di Marcella, mentre dal testo è evidente che  la lettera fu scritta a Bari.

Un senso di vuoto e di buio che credo solo una guerra possa creare, ingoiando  persone, ricordi, case e affetti.

Se parlare di una guerra conclusa 70 anni fa vi sembra roba vecchia, permettete che vi apra una breve parentesi:

Srebrenica è una cittadina della Bosnia Erzegovina  a circa tre ore di volo da Milano.

A Srebrenica durante la guerra Serbo – Bosniaca, tra il 6 e il 25  luglio del 1995, soldati serbo – bosniaci  raccolsero tra 8 e 10 mila maschi musulmani di età  compresa tra i 14 e i 78 anni e li uccisero  uno ad uno  buttandoli in fosse comuni.

Sembra incredibile, ma quei civili erano confluiti a Srebrenica perché dichiarato luogo  protetto. E in effetti c’erano 600 Caschi Blu dell’ONU e tre Compagnie Olandesi, che per non vedere, però,  girarono la testa dall’altra parte.

Chissà quando verrà istituita una Giornata del Ricordo per quei sopravvissuti che oggi si chiedono “Io non so perché hanno trucidato mio fratello, mio padre, mio marito, mio figlio, il mio amico”?

Ho accennato  a questo fatto non per far colpo su di voi, ma  perché tutti credevamo che dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, episodi del genere non sarebbero mai più accaduti, almeno in Europa.

E invece è accaduto di nuovo  dietro l’angolo, a circa tre ore di volo da Milano.

Tornando a noi, credo che sia stata l’ansia di  mettere qualcosa nel vuoto aperto da quella domanda che mi ha dato la spinta a scrivere, un’ansia che, però, via via che scrivevo seguendo la traccia dei ricordi e dei pochi documenti ritrovati, invece di diminuire cresceva con la consapevolezza che la tragedia che ha sconvolto la vita di Marcella  era stata, allora come oggi, comune a  migliaia di persone.

La storia di Marcella si svolge tra due luoghi e due date, Sebenico, 24 marzo 1923, data della lettera di nonno Martino, e Zara 1981, quando un vecchio pescatore davanti ai miei occhi, lanciava nella notte una lenza nel mare nero come la pece, riaprendo una finestra nella storia che credevo  chiusa.

In mezzo a queste due date si apre e si chiude la storia di Marcella, costretta da una guerra folle, quando erano passati appena poco più di vent’anni dalla precedente partenza di nonno Martino, a una nuova partenza, a un nuovo viaggio pieno di incognite e di pericoli.

Ho detto partenza, ma in realtà, quella che descrivo fu una fuga, perché Marcella e Tommaso partirono da Cattaro di notte, travestiti da contadini croati portando con sé solo quello che avevano  addosso per un viaggio attraverso l’interno della Jugoslavia in mezzo a gente che aveva tutto il diritto di considerarli nemici, perché non dobbiamo mai dimenticarlo, siamo stati noi italiani a dichiarare la guerra, e perché lo stesso Tommaso era un soldato di quell’esercito che aveva occupato il loro paese portandogli  morte e distruzione.

Un cammino  verso l’ignoto, più di mille chilometri fino alla frontiera del Tarvisio, che però non finirà  con il loro arrivo in Italia, perché il Bel Paese era  occupato dall’esercito tedesco che si ritirava verso nord spinto dalla pressione dell’esercito Alleato che sotto guida  americana, dalla Sicilia risaliva la penisola.

Un cammino che sarebbe  incredibile  se non fosse documentato da appunti, biglietti, e poi come vedremo tra poco, da un altro libro, compiuto da uomini che fuggivano da altri uomini, come tante volte è avvenuto nel passato, e come purtroppo  accade ancora oggi sotto ai nostri occhi.

Ricostruendo questo percorso troverò una risposta alla mia domanda iniziale, “io non so perché sono nato a Barlassina”, risposta che sarà per me una sorpresa, tuttavia la storia  continua perché non finisce  il dramma dei  dalmati e degli istriani rimasti nelle loro case   che saranno costretti ad abbandonare per rientrare nei confini della neonata Repubblica, dove realizzeranno il paradosso di essere considerati croati dagli italiani e italiani dai croati, un dramma sepolto per decenni e che solo da poco è emerso dalla nebbia dell’indifferenza.

Pochissimi sanno, per esempio,  che per ospitare i circa 400.000 profughi  che fuggirono  dall’Istria, dalla Dalmazia e da  Zara, furono allestiti nella penisola 109 campi profughi.

Il Pescatore non è né un saggio storico, né un romanzo: è una storia vera, un viaggio nella memoria, la testimonianza della vita di una donna obbligata a lottare con tutte le sue forze per conquistare la sua  libertà, salvare la figlia che le era rimasta, e legittimare il suo diritto di esistere come Italiana e  come Dalmata.

Narra eventi drammatici come quando Marcella  da poco sfollata a Calci, sull’Appennino Pisano, fu costretta dalla guerra a ripartire di nuovo portando con sé Donatella, la figlia morta alla ricerca di una sepoltura,  come a noi racconterà con queste semplici parole:

 “(1944) partimmo da Calci con Ottavia viva e Donatella chiusa in una cassettina, così stette con  noi ancora un po’ e a chi mi chiedeva cosa avessi lì dentro, rispondevo, mia figlia…”

Credo non vi siano dubbi che in queste poche parole c’è  tutto il dramma che può causare la guerra a una madre ferita in ciò che ha di più prezioso, parole testimoniate  da  monsignor Lino Lombardi, Preposto e Vicario Foraneo di Barga, che da quanto ho accertato, sarebbe il nostro Arciprete, il quale nel suo libro, trovato  quasi per caso e che conservo come una reliquia, dal titolo “Barga sulla Linea Gotica”, racconta del suo incontro con Marcella e Tommaso:

“Il giorno 21 agosto fui invitato a recarmi presso il dottor Prever addetto all’Ospedale della Croce Rossa con il domicilio presso il signor Giuseppe Castelvecchi. Mentre lo ritenevo tedesco era invece italiano. Mi mise al corrente di una storia dolorosa. Sfollato a Calci nei Monti Pisani, il 1 agosto la sua signora dava alla luce due gemelle. Il giorno 3  egli veniva rastrellato, ma essendo medico fu tenuto a disposizione e trasferito con la moglie in quelle condizioni a Nozzano.

 Non valsero le premure a far desistere i tedeschi dal trasferirlo. Il giorno 20 agosto ebbe l’ordine di raggiungere Barga essendo assegnato all’ospedale della Croce Rossa. Il giorno stabilito era l’indomani, 21.

Contemporaneamente all’ordine gli moriva una gemellina, Donatella. Fu chiesta una  dilazione per seppellire la piccola: niente!

 E il dott. Prever con la sua signora, venne a Barga e con i bagagli portò la cassina con la creaturina morta”

Ma Il Pescatore non è solo la storia di Marcella, è l’incontro con Stefano, profugo della rivoluzione ungherese del 1956 che gli portò via madre e padre, è  il ricordo di un Papa che agli occhi di chi viveva al di là della Cortina di Ferro che divideva in due l’Europa, apparve eletto come un Liberatore e infatti contribuì a liberarli, è il ricordo  dei  ragazzi morti nel tentativo di oltrepassare il Muro di Berlino alla ricerca di una libertà che oggi troppe volte viene data per scontata, è contro tutte le frontiere, è, infine e soprattutto,  l’incontro con Il  Pescatore in carne ed ossa, uno che parlava  il croato come  Marcella  e  l’italiano come me, incontrato  quando,  in una sera qualsiasi dopo 35 anni  dal 1945,  capito per caso sul molo di Zara.

Non credo nel destino e nel fato, ma credo che fatti ed eventi siano sempre la conseguenza di qualcosa.

Per questo penso che un simile incontro sia avvenuto perché evidentemente, dopo 35 anni, a Zara  c’erano ancora vittime della guerra.

Non potrò mai dimenticare  le ultime parole di quell’uomo, quando con un gesto  che lì per lì mi sembrò retorico perché pur essendo lì  non avevo  capito niente, prese nelle sue le mani di Marcella e disse:

“Buona sera mia signora, non ne vedaremo mai più, ma la se ricorda de mi per favore”.

Mi strinse la mano, si voltò e scomparve nel buio.

Mi aveva  stretto la mano una vittima in carne ed ossa dell’altra parte della  guerra.

Ancora oggi faccio fatica a credere di essere stato davvero lì in quell’incontro incredibile, davanti a  un testimone croato bilingue della tragedia scatenata dalla follia della guerra. E dico croato bilingue non a caso, perché è la prova che le due comunità esistevano e convivevano.

Per il timore di perdere il ricordo di quell’incontro, ne scrissi in un appunto che è rimasto lì per anni ad aspettare la storia di Marcella, dove finalmente ha  trovato il suo posto così importante da dare  il nome a tutto il lavoro.

Ecco, se lo leggerete  mi piacerebbe sapere se siete d’accordo sul titolo, perché a me è sembrato l’unico modo per rendere omaggio a un uomo  al quale,  prima la guerra, e poi un regime, negandogli di essere ciò che era, gli hanno negato il diritto di essere un uomo.

Perché se Marcella ce l’ha fatta, anche se è rimasta segnata per tutta la vita dalla sua storia, il Pescatore no, con il suo abito grigio era un’ombra che cammina.

Credo che sia stato l’incontro con il Pescatore a cambiare molte cose, tra cui il mio modo di vedere e di pensare la storia.

Questo vorrebbe essere il senso del Pescatore: come è accaduto a me, provocare riflessioni e confronti su quei fatti, andando oltre questa ricorrenza, contro tutte le dittature vecchie e nuove, contro tutte le violenze, contro tutte le foibe, contro l’uso delle armi, perché le guerre non sono mai una soluzione, perché sono solo morte e disperazione.

Perché anche se tutti siamo d’accordo che le guerre le violenze e le persecuzioni sono cose brutte, esse ci circondano così tanto nella vita quotidiana, che non ci stupiamo molto quando poi accadono, come abbiamo dimenticato Srebrenica, e come nessuno parla dell’Ucraina altra guerra attuale, vicina e dimenticata.

Perché mi ha fatto riscoprire Barlassina che ci  ha accolti in uno dei momenti più difficili della vita senza fare domande, quando  sarebbe stato fin troppo facile farne, e mi ha accolto anche oggi, qui  a raccontarvi questa storia.

Grazie.

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Breve racconto a puntate scritto da Manuela Leonessa.

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Di Manuela Leonessa

Anni fa ero un venditore di enciclopedie, ma mi hanno licenziato. Dicevano che non lo sapevo fare, che non avevo il piglio del venditore. Dicevano che avevo l’aria di vergognarmi di quello che facevo perché non credevo nella bontà del prodotto.
Era tutto vero.
Affrontavo i clienti col tono di chi chiede scusa per il disturbo, e se acquistavano l’ enciclopedia il mio sollievo era così evidente da farli dubitare di avere acquistato una fregatura. E avevano ragione, per me era una fregatura davvero, ma ai vertici questo contava poco.
Il capo della mia agenzia, il cav. Gerla era il classico uomo grasso, dall’aria porcina, Quando vedeva una bella donna grufolava con gli occhi. Così dicevano, almeno, io non lo so perché belle donne in agenzia non ne ho viste mai. Per il resto era un ottimo uomo d’affari, sazio nell’aspetto e con il borsellino pieno, poco interessato, peraltro, alla qualità delle proprie enciclopedie.
Perché la bontà del prodotto, secondo il cav. Gerla non era un problema del venditore.
L’unico problema del venditore era vendere, non importa cosa, non importa come e non importa a chi. Il mio supervisore è diventato un mito (e un supervisore) dopo aver venduto l’enciclopedia a un non vedente, convincendolo a farlo per ingraziarsi il nipotino. Tutti i nonni del mondo sanno che i nipotini non si conquistano con le enciclopedie ma con le tartarughine e l’ultimo dvd di Peppa Pig. Tutti tranne questo qui. Il mio supervisore non è stato mitico, ha avuto solo culo.
Comunque io non venderei mai un’enciclopedia a un non vedente, neanche se fosse pieno di nipotini. Probabilmente è questo che mi rende un cattivo venditore, convinto che esserlo ottimo sia moralmente insano.
Ho lavorato nell’agenzia di Gerla per sei mesi. Ho sofferto ogni singolo giorno di quell’esperienza, e per un sacco di buoni motivi, se vendevo mi sentivo in colpa e se non vendevo era un guaio perché lo stipendio a fine mese era calcolato in provvigioni. Insomma non se ne veniva fuori. La mia angoscia era palpabile, il mio biasimo nei confronti dei colleghi, pure.
Non è bello sentirsi disapprovati, me ne rendo conto, e se nel giro di poco tempo mi hanno isolato, oggi posso comprenderlo. All’epoca, però, per me erano tutti dei nemici, degli esseri privi di scrupoli, impegnati in un lavoro che aborrivo. Cosa più inspiegabile, li ritenevo responsabili del fatto che quel lavoro dovessi farlo pure io. Complici, gaudenti e sfrontati mi irridevano considerandomi un essere incapace, perciò inferiore.
Probabilmente la mia percezione della realtà era un po’ alterata dal senso di angoscia in cui versavo, ma si sa, quando uno è sott’acqua senza bombola, non contempla il fondale, affoga. E io stavo affogando nei miei rancori ingiustificati e nel mio personale incubo di fine mese.
Con questi presupposti, il fattaccio diventava inevitabile.
Una mattina sono arrivato in sede con la mia solita aria sconfitta, i colleghi stavano definendo il programma della giornata, loro erano pieni di appuntamenti. Eccitati e gasati, gonfi come palloncini all’elio, si agitavano per la sala comune, con i loro maglioncini colorati e le agendine cariche di appuntamenti in mano, ridendo e dandosi grosse paccate sulle spalle.
Non c’entravo nulla con loro. Mogio mogio mi sono avviato alla mia postazione, sembravo l’uomo più infelice della terra e a qualcuno la cosa non è andata giù.
Improvvisamente mi si è parato di fronte un collega. Alberto qualcosa. Il suo nome era in cima alla lista dei venditori del mese. Quella lista che Gerla aveva appeso in bacheca, e che aggiornava ogni trenta giorni per segnalare i collaboratori più produttivi. Una di quelle strategie all’incentivazione degne di un corso per corrispondenza. Non so, a me non è mai sembrata un granché come strategia, eppure i miei colleghi sostavano ogni mese davanti a quella lista, la scorrevano con gli occhi e con devozione, dandole il potere di determinare il loro stato d’animo in una scala cromatica che andava dal grigio smorto al rosso più radioso.
Dunque il collega mi si è parato davanti, mi ha guardato con disprezzo e mi ha assalito con un «Ma lo vedi che faccia che hai? Ma che credi, di essere l’unico a doverti alzare al mattino per venire a lavorare? Sei deprimente!»
Per un attimo non ho capito. Cosa voleva da me, gli avevo mai fatto qualcosa?
Si è intromesso un altro collega. Sandro. Il suo nome era in cima il mese precedente.
«Ma lascialo perdere. Non vedi che non sa neanche in che giorno siamo?»
A quel punto mi sono reso conto che erano tutti intorno a noi. Tutti avevano lasciato quello che stavano facendo, abbandonato la propria preziosa agendina sulla scrivania per venire ad assistere alla scena. Tutti mi guardavano e ridevano.
Ho dato una spallata a Sandro, o forse era Alberto, e sono andato a sedermi alla mia postazione. Avrei voluto dire qualcosa ma non mi è venuto in mente niente. Ho sperato che la mia faccia fosse terribile, ho sperato che mostrasse tutta la mia rabbia, ho sperato che sembrasse l’espressione di un uomo forte, di uno che avesse molte cose da dire ma che tace come a un essere superiore conviene. Ho sperato ma non mi sono illuso. E avevo tanta voglia di scappare.
Piano piano se ne sono andati tutti. Tutti avevano un appuntamento, almeno uno, nella giornata. Perciò mi sono ritrovato solo in ufficio con il mio inutile elenco di clienti da contattare telefonicamente. La sala rimbombava tanto era vuota e io odiavo telefonare.
Mi spaventava l’interlocutore dall’altro capo del filo. Non sapevo chi fosse e lo immaginavo sempre maldisposto. Le risposte sgarbate erano una conferma delle mie aspettative, ma questa consapevolezza non mi proteggeva. Lo sgarbo mi annientava, e comporre il numero successivo risultava sempre più difficile. Il telefono era mio nemico, e faceva paura.
Insomma, non c’era niente in quel posto che mi trattenesse, e allora che ci facevo ancora lì?
Ci facevo che non avevo un altro lavoro.
Poi l’ho trovato. Un lavoro vero, con lo stipendio a fine mese.
Sono più o meno tre anni che faccio il cassiere in un supermercato, un lavoro che mi ricorda la catena di montaggio e che mi espone alla maleducazione della gente. Sono sempre di più le persone maleducate, ma non perché sia aumentata la maleducazione nel mondo, a questo proposito ho una mia teoria, ve la espongo.
L’aumento dei maleducati alle casse è causato dall’invenzione di quelle automatiche. Quelle casse dove vai e fai il cassiere con la tua merce, come quando da bambino giocavi a vendere.
Ma queste casse danneggiano noi del settore per tutta una serie di motivi. Il primo, il più ovvio, è che tolgono posti di lavoro, il secondo è che aumentano il numero dei maleducati alle casse tradizionali. Infatti, sempre secondo la mia teoria, le persone maleducate non si servono delle casse automatiche perché vogliono un cassiere da maltrattare. Ai loro occhi il cassiere, esposto ed inerme, è come un bersaglio su cui sfogare le proprie frustrazioni, più efficace di un ansiolitico, più attraente del tre per due. Da ciò consegue la frantumazione del flusso dei clienti in due ordini contrapposti, quello dei gentili, quasi tutti alle casse senza cassiere, e quello degli altri.
Ma, e arriviamo al punto, questi dettagli mi riguardano poco, perché il mio dramma e la mia tensione, risalgono a tre anni fa.
Dal giorno dello scontro con i colleghi di agenzia io grido vendetta. Da tre anni penso a quell’episodio con rabbia e con vergogna. È come un prodotto a lunga conservazione, non sbiadisce mai.
Da tre anni auguro ad Alberto e Sandro i mali più turpi che la mia mente offesa riesca ad immaginare. E ieri, finalmente, mi si è offerta un’opportunità, perché ieri Alberto, o era Sandro? è venuto a fare la spesa da noi. Non è venuto a pagare alla mia cassa, è andato a una automatica, così ora dovrò rivedere la mia teoria, ma è stata un’emozione così grande che non m’importa.
Non mi ha visto, a me invece lui è apparso come un sogno. Ero dietro al mio registratore di cassa e non mi potevo spostare, peccato perché in quel momento mi sono sentito come il Corvo tornato dall’aldilà per vendicarsi. Non ero invulnerabile come lui ma non importava, non avevo neppure una pistola, però avevo un registratore di cassa in mano e nessuna paura di usarlo.
La collega della cassa davanti a me si è voltata per chiedermi della moneta e ha notato il luccichio dei miei denti. Mi ha chiesto se andasse tutto bene.
È una donnona di cinquant’anni dall’aria materna e dal cuore buono. Si chiama Anna ma noi la chiamiamo Manna perché tale è per tutto il supermercato. Andiamo da lei quando abbiamo bisogno di un consiglio, di un incoraggiamento o di semplice consolazione. Lei ha una parola buona per tutti, e non l’ho mai sentita chiedere nulla per sé.
Le ho fatto segno che le avrei spiegato poi, durante la pausa caffè, nel mentre meditavo la mia vendetta e questo bastava a rendere la mia giornata più tollerabile, illuminata dalla presenza di una gratificante creatività, ma quando ho raccontato a Manna cosa mi avessero fatto Alberto e Sandro e che cosa meditavo da quando avevo visto uno dei due, lei mi ha guardato con la pena negli occhi.
«Ma, tesoro, è successo tre anni fa…»
Lo so anch’io, e infatti da tre anni sto male di brutto.
Il giorno dopo il nemico è tornato alla cassa automatica. Ho allungato il collo per curiosare nel suo carrello e ho visto una pagnotta nel cellophan. Imbecille, non lo sa che la panetteria di fronte vende pane molto più buono del nostro? Poi ho notato un pacco di merendine al cioccolato, Razza di microcefalo dai gusti regrediti di un bambino. L’ipotesi che le merendine fossero dei figli era da escludere categoricamente, anche perché lui non può avere figli, Chi mai lo sposerebbe a quello là?
Poi c’era dell’insalata e un pacco di carote. Ma allora è davvero cretino, non lo sa che al mercato la verdura costa meno ed è più fresca? Infine due cartoni di latte biologico. È stato difficile non scoppiare a ridere, lo scimunito crede ancora nel biologico!
È arrivata una delle clienti più simpatiche del supermercato, una delle poche gentili che continuano a venire alla mia cassa. Mi ha sorriso allegra «Buongiorno Renato. Come va oggi?»
«Bene signora»
Mi sono dimenticato di chiederle E lei? e ci è rimasta male. Ma non posso farci niente, la rabbia mi divora, invadendo tutto il mio spazio mentale, sono in stand by bloccato sull’opzione vendetta e da lì non riesco a muovermi. Tutto ciò che mi procurava gioia o che comunque rendeva gradevole la mia giornata è stato spazzato via dal bisogno di fare del male ad Alberto, o è Sandro? Li ammazzo entrambi e la chiudiamo lì.
Ho l’impressione che se gli avessi spaccato la faccia allora, oggi non starei così, ma i miei conti sono rimasti in sospeso e quello dei torti subiti, scopro ora, è uno di quei crediti che non cade in prescrizione.
Di quell’episodio ho un ricordo fresco come latte appena munto. La cosa che mi fa più male è che Alberto/Sandro lo ha dimenticato subito. Se la cosa avesse avuto per lui una qualche importanza, se fosse tornato dai suoi giri seccato, infastidito dall’episodio, se qualcosa nel suo atteggiamento, insomma, avesse suggerito che mi collocava in una posizione dignitosa nella scala evolutiva allora, forse, avrei potuto perdonare. Ma no, per lui non ero niente, ancor meno di nessuno. Allegro, e fiducioso si è recato ai suoi appuntamenti, senza neppure relegarmi da qualche parte, tanto mi aveva già dimenticato, mentre io umiliato e sofferente speravo che non riuscisse a vendere neppure un volume. Invece ha pure venduto. E anche oggi lui spinge il suo carrello ignaro e beato. Provo una rabbia dolorosa, neanche il fatto di essere il principe dei cretini lo rende un po’ infelice. La sua ignoranza abissale è asintomatica, il fatto che non lo faccia soffrire, fa soffrire me.
Manna mi osserva, nota il mio livore e se ne preoccupa, fa cambio con una collega per avere la pausa caffè insieme a me e a quel punto mi affronta.
«Renato…» mi dice, e il suo sguardo è nuovamente un poema alla pietà. E ha ragione, la vita va avanti, e si volta pagina. Dovrebbe essere così ma non ci riesco.
Qualcuno ha detto che il disprezzo è la forma più sottile di vendetta1, e io lo disprezzo costui, eccome. Ma lui nemmeno se ne accorge! E allora devo trovare qualcos’altro, qualcosa che lo faccia soffrire tanto. Ne ho bisogno per guardare avanti.
«Ma qui quello che soffre sei solo tu.» mi fa notare Manna.
Secoli di letteratura sulla vendetta ci hanno fatto credere quanto sia dolce il suo sapore. E quanto sia giusta e necessaria. Dalla biblica citazione “occhio per occhio” in poi, abbiamo imparato ad assimilare la vendetta alla giustizia. È lo stesso senso di giustizia che reclama il pareggiamento di conti, non sono contemplate altre opzioni. Ma è la prima volta che mi propongono questa riflessione, Il bisogno di vendetta fa soffrire solo me.
Mi impedisce di sotterrare l’ascia di guerra e calpestare il suolo che la nasconde. E farlo fiorire di nuovo.
Così vivo male, secondo Manna non vivo proprio. Da quando il decerebrato è ricomparso nella mia vita non faccio che pensare a lui, come a un fidanzato all’incontrario. Quando ami daresti la vita per la felicità altrui. Io mi approprierei volentieri della sua per riprendermi la mia.
Sono uno che porta rancore e non è bello. Ma non ne posso fare a meno. Solo ora mi rendo conto che non è bello soprattutto per me. C’è qualcosa che posso fare per far cessare questa rabbia tossica? Esiste davvero una soluzione diversa dalla vendetta per dimenticare?

Lo scoprirete nella prossima puntata

1 Baltasar Graciàn (gesuita, scrittore e filosofo spagnolo. 1601-1658)

Le librerie indipendenti sono le piccole La La Land di noi lettori?

Le librerie indipendenti sono le piccole La La Land di noi lettori?

Su ilLibraio.it la riflessione di Roberta Marasco, che collega la “resistenza” delle librerie indipendenti al fascino di un film come “La La Land”

di Roberta Marasco

Che cosa ci fanno il Nokia 3310 e il vinile nell’epoca del digitale e dei social, degli smartphone e di Spotify? Nell’epoca dell’intangibile, del reversibile, dell’accessibile, dove nello spazio di pochi clic si correggono i refusi di un ebook già in vendita, si comprano mobili fatti su misura in Thailandia per il nostro soggiorno e si mostrano i primi passi del pargolo in diretta ai nonni orgogliosi e lontani. Eppure la nostalgia fa capolino dietro ogni angolo, sempre più presente e impossibile da ignorare, perfino nel mondo delle possibilità nascoste dietro uno schermo, della sperimentazione, della personalizzazione.

Un mondo fatto su misura per tutti, che ci accompagna, ci assiste e al tempo stesso ci definisce nelle nostre scelte, ogni volta che compriamo un libro online e ci viene gentilmente indicato ciò che ci potrebbe e dovrebbe piacere subito dopo. Un mondo in cui il messaggio perde a poco a poco di senso a vantaggio della sua eco, in cui il significato lo scrivono i commenti, i giudizi, i like e gli hater, mentre le parole originarie si perdono in un caos di rimandi sempre più imprecisi.

Forse c’era da aspettarsi che uscissimo un po’ scossi dalla frammentazione e dall’ironia post moderna e che avessimo bisogno di riprendere contatto con le ultime certezze rimaste. Un po’ come fanno i bambini, quando scoprono che Babbo Natale non esiste e sentono improvvisamente il bisogno di circondarsi di peluche e tornare a leggere i Barbapapà. Non credo che nessuno rimpiangesse l’odore del vinile tanto quanto si rimpiange un po’ ovunque il riscoperto odore della carta, ma è comunque di conforto tornare al tangibile, o a una batteria inestinguibile come quella del Nokia d’altri tempi.

Non è un caso forse, che La La Land, il film che ha messo sotto i riflettori il rapporto fra passato e presente, sia stato vittima, per un curioso e beffardo gioco del destino, dell’errore più clamoroso della storia degli Oscar. State ancora qui a dare premi e a contare statuette, sembra aver voluto dire quel tweet di troppo all’origine della distrazione e dello scambio di buste? Il presente è inaffidabile, inafferrabile, imprevedibile, distratto, è terra di errori un tempo inammissibili, che si dimenticano in un battito di ciglia. E con loro anche il passato, quel passato che cerchiamo di stringere in un pugno ma senza aver il coraggio di aprire le dita e controllare quanto è rimasto sul palmo.

Sorgente: Le librerie indipendenti sono le piccole La La Land di noi lettori? – Il Libraio

Scrivere è un tirocinio

Scrivere è un tirocinio

L’oggetto di questo articolo è la risposta a tante persone che mi contattano per chiedermi “la ricetta” per scrivere un romanzo d’azione, una spy story oppure un rosa di successo. Avercela!
Nel video, cerco di spiegare come, secondo me, si possa arrivare a sviluppare uno stile originale e personale.
Vi segnalo, inoltre, un romanzo appena pubblicato, che si colloca nella collana “L’amore ai tempi del web”: NON si tratta di romanzi rosa nel senso classico del termine, ma sono romanzi che parlano di sentimenti nel mondo contemporaneo, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni.
Una volta ancora di Paolo Galimberti
A volte basta un momento di debolezza, di fragilità, per rischiare di distruggere la propria famiglia: è quello che accade a Paolo, quando tradisce la moglie Hellen con una collega di lavoro, la bellissima Lin, che si rivela ben presto una donna molto pericolosa e dal passato inquietante. Hellen, pur amareggiata, lascia aperto uno spiraglio alla riconciliazione, ma la perfidia di Lin farà precipitare la situazione e Paolo si ritroverà immerso in un incubo. Una volta ancora è un romanzo in cui la vita offre al suo protagonista una straordinaria seconda occasione, che dovrà però pagare a caro prezzo, per riconquistare l’unica donna che abbia mai amato, sua moglie, e la stima e l’affetto dei suoi figli.
In promozione mensile abbiamo tre bestseller del nostro catalogo e-book: Dammi un motivo di Giorgio Bianco, La pavoncella di Emanuele Gagliardi e Il piede sopra il cuore di Mario Nejrotti (sono disponibili anche in cartaceo, su Amazon e sul sito EEE, senza spese di spedizione).
Buon fine settimana e buona lettura a tutti.
Piera Rossotti Pogliano
Direttore Editoriale di Edizioni Esordienti E-book

GRAZIA MARIA FRANCESE VINCE IL PREMIO LETTERARIO “VERBANIA FOR WOMEN”

GRAZIA MARIA FRANCESE VINCE IL PREMIO LETTERARIO “VERBANIA FOR WOMEN”

SCRITTO DA

Grazia Maria Francese con il racconto “Le male madri”  ha vinto la seconda edizione del premio letterario “Verbania for Women”; al secondo posto Lorenza Negri con “Anja”, al terzo Luisa Lafi con “Una luce tra le bande nere”. 

La cerimonia di premiazione del Premio  organizzato da Comune, Associazione 77 e Associazione Giovan Pietro Vanni si è  svolta oggi al Centro eventi Il Maggiore con la partecipazione della scrittrice Annarita Briganti,  del sindaco Silvia Marchionini e dell’assessore alla cultura Monica Abbiati, della presidente di Verbania 77, Liana Righi, e della presidente della giuria, Mariangela Camocardi.  Il Premio Legalità in memoria della giornalista Patrizia Guglielmi è stato attribuito a Emiliano Pedroni con “Il Movente Perfetto”.

Riconoscimenti anche a Fiorella Borin (La ragazza del Capitano),  Paolo Borsoni (Una primavera interiore),  Valeria Groppelli (Guardia Ostetrica), Luisella Sala (Due donne).  Nella Sezione Studenti è risultato vincitore Rodolfo Dal Canto (Frammenti quotidiani),  mentre la Sezione fotografica ha fatto registrare il successo di Fausto Mirandoli la cui immagine sarà sulla copertina del libro con le opere del Premio.  Premio speciale della Unione Industriale del Vco a  Carmela Nardella  (Sulle orme di Shahrazad).

Sorgente: GRAZIA MARIA FRANCESE VINCE IL PREMIO LETTERARIO “VERBANIA FOR WOMEN”. GLI ALTRI PREMIATI – RASSEGNA FOTOGRAFICA | Verbania Milleventi