In viaggio

In viaggio

Chi viaggia in aereo prova sempre in qualche modo a trascorrere il tempo. E gli scrittori cosa fanno?

di Sara Meloni

Chi viaggia in aereo prova sempre in qualche modo a trascorrere il tempo. C’è chi legge, chi dorme, chi fa i cruciverba. C’è chi ascolta musica e chi chiacchiera col proprio vicino di posto. C’è chi usa lo smartphone, chi il tablet, chi il pc… o chi semplicemente resta assorto nei propri pensieri…

Questa volta ho un libro da leggere. È lì davanti a me, in attesa di essere aperto. Leggo qualche riga ma non riesco a concentrarmi. È strano. I miei pensieri corrono veloci, la mia testa lavora in modo forsennato.
Mi decido a prendere in mano un quadernetto e una penna, e finalmente inizio a scrivere. Scrivo i miei pensieri, li fermo, fissandoli sulla carta, e li riordino. Metto punti e virgole, argino il fiume in piena. E così quei pensieri, da affannati quali erano, riprendono a respirare con più calma. Scorrono fluidi, senza accavallarsi gli uni sugli altri…

Un’ala bianca e metallica si staglia sullo sfondo del cielo azzurro. La scorgo con la coda dell’occhio, fuori dal finestrino ovale. Attorno a me è pieno di nuvole. Sopra, sotto, ed anche accanto a me. Sono dense e candide, e avvolgono lo sguardo come una morbida coperta.

Sono in viaggio. Sono in viaggio verso qualcosa di nuovo. Sono in viaggio lontano dalla mia terra, dalla mia casa, dalla mia vita. Quella di tutti i giorni. Quel quotidiano che in qualche modo ci dà sicurezza, ci offre un riparo.

È vero, nel mio caso non si tratta di un addio, ma solo di un arrivederci, di un “a presto”. Quindici giorni passano veloci, mi dico. Volano. Volano proprio come questo aereo.
Ma intanto qualcosa resta alle mie spalle, così come qualcosa mi aspetta là, al mio arrivo. Potrebbe essere come una porta che si apre su una lunga strada sconosciuta, da percorrere. Anche se, mi viene subito da pensare, ogni strada, qualsiasi strada, non ancora percorsa, è sempre sconosciuta.

Non so se questo sarà solo il preludio, di un arrivederci più lungo, o se invece tornerà tutto come prima. Tutto uguale o tutto diverso. Non lo so. So soltanto che sono in viaggio. In volo su un aereo dalle ali bianche. Questo è un aereo diverso da tutti gli altri che ho preso fin’ora. Lo dimostra il fatto che è il primo aereo che prendo da sola. Mi guardo intorno e vedo volti nuovi e sconosciuti. Non sono spaventata, sono solo curiosa…

All’inizio i miei pensieri erano come le rapide di un fiume, poi finalmente arrivano a tuffarsi nel mare. Un mare piatto e liscio come l’olio. Anche io mi tuffo nel mare. È un mare di pensieri che nuotano sott’acqua come i banchi di pesci. Mi ritrovo a seguirne uno, e lo riconosco subito: è la mia storia, e la ripesco proprio là dove si era interrotta. I miei personaggi erano in viaggio. Sono in viaggio.

Proprio come me.

Leggere con mamma e papà fa bene all’intelligenza dei bambini

Leggere con mamma e papà fa bene all’intelligenza dei bambini

Un vantaggio di ben otto mesi nelle capacità cognitive dei bambini, sotto i cinque anni, che hanno esperienze di lettura con persone che si prendono cura di loro.

di Mario Nejrotti

In Italia non si legge abbastanza. Meglio guardare lo smartphone o giocare con i videogiochi. I più anziani ricorderanno, invece, come era bello farsi leggere le favole dalla nonna. Sognatori, romantici e un po’ patetici, ma forse più intelligenti di chi quest’esperienza non ha potuto o voluto farla.

I risultati della ricerca

Una ricerca dell’Università di Newcastle, School of Education, coordinata da James Law, docente di Scienze del Linguaggio, ha scoperto che i bambini in età prescolare che avevano avuto esperienze di lettura insieme ai genitori, avevano un vantaggio di ben otto mesi nelle loro capacità linguistico-recettive, cioè nell’abilità di comprendere le informazioni, rispetto ai loro coetanei, che se ne stavano passivamente seduti davanti al televisore.

Sono stati esaminati retrospettivamente tutti i lavori degli ultimi 40 anni che prevedevano un’esperienza di lettura, sia con libri che sugli e-readers, dei piccoli insieme a persone care o che comunque si prendevano cura di loro.

La ricerca si è svolta contemporaneamente in cinque nazioni: Stati Uniti, Sud Africa, Canada, Israele e Cina. È intuitivo che una partecipazione attiva al racconto di una storia, come può avvenire nella lettura ad alta voce fatta e commentata da un adulto, che si può interrompere e con cui si può comunicare, non può che essere positiva.

Ma, sostiene il professor Law, un divario di sviluppo di otto mesi in bambini che avevano in media, all’epoca dell’osservazione, 39 mesi, è enorme. Inoltre, queste esperienze sembrano ridurre anche le differenze sociali, perché nei bambini più socialmente svantaggiati il divario è stato anche maggiore.

I ricercatori alla luce di questo dato eclatante insistono perché le autorità sanitarie pubbliche promuovano la lettura da parte dei genitori ai loro bambini più piccoli. Ora che questo dato è assodato, quale mamma e quale papà italiano non leggerà le favole ai propri figli e gli precluderà, quindi, la possibilità di diventare più intelligente?
Forse attraverso la lettura ai bambini si svilupperà anche nei grandi più amore per le storie scritte.

Leggete, leggete, leggete.

Photo by Ben White and Photo by Alexander Dummer on Unsplash

Scritto nelle ossa di Simon Beckett

Scritto nelle ossa di Simon Beckett

Gli scrittori leggono? Decisamente dovrebbero. Giancarlo Ibba ci racconta le sue impressioni in merito al libro Scritto nelle ossa di Simon Beckett

di Giancarlo Ibba

Il romanzo di Simon Beckett, “Scritto nelle ossa” (2009), è la seconda storia della saga del dottor David Hunter (personaggio che ha esordito, brillantemente, nel libro “La chimica della morte”, del 2007), antropologo forense inglese, alle prese con complicati casi di omicidio.

Se vi piacciono le storie d’investigazione corredate da parecchi dettagli tecnici e ambientazioni particolareggiate, Simon Beckett è lo scrittore che fa per voi. Pur trattando argomenti simili e avendo due protagonisti di diverso genere sessuale, ma con uguale mestiere, ritengo la prosa di Beckett migliore di quella di Kathy Reichs. Quest’ultima mi piace molto per come struttura la trama, ma ha uno stile più asciutto e basilare, mentre Beckett è un romanziere maggiormente dotato dal punto di vista letterario.

Un po’ di trama

Un cadavere incenerito, del quale restano però misteriosamente intatti una mano e i piedi. Questo l’enigma che si trova davanti il dottor David Hunter quando raggiunge un cottage isolato su una sperduta isola delle Ebridi Esterne. Sembra un caso da manuale dell’inspiegabile fenomeno di autocombustione spontanea, ma Hunter è deciso a non cedere alle tentazioni del paranormale. La sua caparbia volontà di non chiudere il caso scatena una spirale di delitti che sconvolge la vita sonnolenta della comunità di pescatori, mentre una tempesta di violenza inaudita la isola dal resto del mondo per una lunga, fatidica settimana. Con l’aiuto di un ispettore in pensione e di un sergente di polizia alcolizzato, David Hunter dovrà portare alla luce gli oscuri segreti dei personaggi più in vista dell’isola, mettendo insieme le tessere insanguinate di un puzzle intricato e perverso, nel quale nessuno è quello che sembra. Un agghiacciante intreccio di ricatti a sfondo sessuale, efferate vendette e scienza forense. (Tratto da Amazon)

Torniamo a noi

In questo romanzo, ambientato appunto su una piccola isola delle Ebridi esterne (Scozia), spazzata dalle tempeste del mare del Nord, l’autore ha modo di sfoggiare il suo talento narrativo, costruendo una vicenda torbida, piena di svolte e azione. L’isolamento, il clima e la claustrofobia dei luoghi, contribuiscono a creare, in modo significativo, l’atmosfera cupa di questo giallo.

Anzi, direi che è la cosa che mi è piaciuta di più. Stimolando la mia curiosità e costringendomi quasi a documentarmi su queste località poco conosciute, seppur affascinanti dal punto di vista antropologico e naturalistico. Interessante, in modo particolare, la tragica vicenda dell’isola abbandonata di Saint Kilda (in realtà trattasi di un minuscolo arcipelago), alla quale l’autore si è ispirato abbondantemente per costruire la suggestiva location fittizia di questo romanzo, l’isola di Runa, disseminata di antiche vestigia, dolmen e tumuli.

Qualche immagine tratta dal web

Ma la storia non ha nulla di mistico, tutt’altro, mantenendosi invece cruda e realistica fino alla fine. In questo scenario, oltre al dottor Hunter (uomo tormentato e dal tragico passato, come vuole la tradizione di questo genere letterario), si muovono numerosi personaggi, tutti ben caratterizzati e dalle motivazioni credibili. È stato divertente leggere questo libro cercando di associare i vari personaggi alle facce di attori anglosassoni famosi. In particolare, io mi sono immaginato l’ex ispettore in pensione Brody con le fattezze di uno Sean Connery alla fine degli anni ’80. Detto ciò, si tratta di un buon giallo, ricco di colpi di scena, sequenze macabre e senza momenti calanti. Uno di quelli che si fa fatica a mettere giù la sera, anche se si è molto stanchi. Lo consiglio.

 

 

Il Futuro corre con gli Stivali delle Sette Leghe

Il Futuro corre con gli Stivali delle Sette Leghe

Fantascienza, genere letterario, estesosi poi al cinema, in cui l’elemento narrativo si fonda su ipotesi o intuizioni di carattere più o meno plausibilmente scientifico e si sviluppa in una mescolanza di fantasia e scienza (cit. Treccani). Ebbene, la fantascienza di ieri quanto ha indovinato del nostro mondo odierno?

di Bruno Bruni

Quando ero bambino, (Mille anni fa, al tempo delle fiabe dei fratelli Grimm) i grandi intorno a me amavano dire frasi tipo: “Nel Duemila mangeremo solo pillole”. Lo dicevano scuotendo la testa, come mio nonno e mia madre, di solito mentre eravamo tutti a tavola, magari a Natale, mangiando gli agnolotti fatti in casa in porzioni industriali da mia nonna.

A me l’idea delle pillole non sembrava molto soddisfacente e, per consolarmi, prendevo sempre una seconda (o terza) porzione di agnolotti alla Piemontese. Mi piaceva di più quando, nei giornali per ragazzi, come Topolino o L’intrepido, che io divoravo avidamente, comparivano ogni tanto storie di fantascienza dove le città del futuro erano raffigurate con enormi torri di vetro, le automobili volavano e la gente indossava strani vestiti aderenti e all’apparenza poco comodi. Un poco più grande, poi, ho cominciato a vedere i film di fantascienza, quelli con effetti speciali da parrocchia, con mostri spaziali di cartone e Robot di un goffo da far ridere anche i sassi.

La vera Fantascienza

Ma il meglio, ovviamente, è venuto al tempo dell’adolescenza con “Urania” e “Galassia” (Gli anzianotti se le ricordano, i più giovani magari le hanno viste sulle bancarelle dell’usato). Lì ho cominciato a leggere vera Fantascienza, le Space Opera con le Guerre Spaziali (quelle che hanno ispirato Lucas) e le storie a sfondo sociologico, dove il Futuro era sempre un presente distopico e lugubre, con dittature feroci ed eroi problematici in ribellione contro l’Ordine Costituito. Il meglio, per me, erano però le Saghe Spaziali, alla Asimov, alla Simak. In queste il futuro era lontanissimo, i continenti della vecchia Terra erano sostituiti dai sistemi solari di galassie lontane e la navi solcavano, a velocità superiore a quella della luce, distanze immense. Col senno del poi, anche quelle storie spesso rifacevano, in chiave futuristica, la vecchia Storia terrestre, con Regni, e Imperi, e rivolte  (Sempre Lucas e il suo Impero…).

Si dice spesso che gli scrittori di SF (Sci-Fi ovvero science fiction) a volte anticipano i tempi, come una sorta di veggenti che scrutano nelle ombre del domani e, a volte, ci azzeccano. A volte ci hanno azzeccato davvero e, spesso… purtroppo non tanto. Il Futuro si è dimostrato molto più infido, molto più traditore.

La fantascienza di ieri quanto ha indovinato del nostro mondo odierno?

Il Duemila è arrivato, è passato. Le auto non volano e sono sempre più intasate negli ingorghi, anche se ultimamente tentano di guidarsi da sole; non mangiamo pillole, per fortuna, ma nel cibo troviamo molti pesticidi e additivi chimici. Non ci sono per adesso Imperi, tipo quello Romano trasferito nello spazio, anche se i Sicari del Terrore somigliano molto ai mostri ottusi e feroci venuti dallo Spazio Profondo (questi purtroppo sono nati qui, tra noi, sono roba fatta in casa…). Sopratutto non voliamo alla velocità della luce ed il viaggetto più lungo è stato in realtà misero, solo fino alla vicinissima Luna.

Però, le Sonde Spaziali sono arrivate oltre Plutone, e non è poco, e gli Astrofisici scrutano lontano, in cose davvero oscure e inquietanti, come i Buchi neri e le Pulsar…

Eppure, le sorprese sono arrivate, e grosse, enormi. Mi avessero detto, mille anni fa, quando ero ragazzo, che un giorno saremmo entrati in un non-luogo chiamato Internet, una sorta di Altrove che unisce tutti gli Umani di questo vecchio pianeta, che avrei usato macchine che mi avrebbero collegato alla mia Banca e, in pochi secondi, a persone che vivono in altri continenti; che avrei perfino pagato le tasse senza uscire di casa (cosa di cui nessuno sentiva la mancanza…); che avrei trovato riuniti nello stesso luogo virtuale (ma allora lo avrebbero definito ”Irreale”) foto di teneri gattini e di cagnolini allegri, di auto di lusso e di ragazze di lusso, di tette nude e di culi nudi (maschili e femminili), gossip sui divi e notizie di cronaca nera, brani di poesie e invettive politiche, tramonti e mari in tempesta, dive Pop per adolescenti e adolescenti zampillanti tristezze (maschi e femmine), aspiranti poeti, aspiranti scrittori, aspiranti fotografi…

Mi avessero detto tutto questo avrei riso, riso fino alle lacrime. E non ci avrei creduto neppure per un secondo. Invece… E domani? Cosa avverrà, domani? Non siete curiosi, e magari anche un poco preoccupati, come me?

L’emozione ha un sapore nuovo

L’emozione ha un sapore nuovo

Dopo aver scritto nel marzo 2015 uno degli articoli più letti del blog, L’inferno dentro: la rianimazione, per il quale ha ricevuto diversi commenti di consenso (tra cui anche diverse richieste di informazione sulla data di uscita del libro), Andrea Leonelli è riuscito a giungere alla fine di questa avventura, per lui alquanto significativa e sofferta.

Dall’inferno a volte si può uscire. Non è facile ma è possibile farcela.

di Andrea Leonelli

Devo ammetterlo. Questa volta è stata proprio ansia. E non è solo la trepidazione in attesa della risposta, perché ero già in ansia nel momento in cui ho ricevuto l’ultimo brano da inserire come contributo esterno al mio libro. È un’ansia globale, passata, presente e futura.

Non è il primo libro che presento a un editore, è il quinto. Stavolta però sono fuori dalla mia “comfort zone”. Molto fuori da essa… Infatti non è un’altra silloge poetica ma è un romanzo autobiografico. Un romanzo in cui mi sono messo a nudo (ma nudo nudo) con le mie fragilità, le mie debolezze, i miei errori e le mie contraddizioni.

La mia vita dopo quell’infarto che invece di uccidermi mi ha fatto rinascere. Cambiamenti, decisioni, bivi e strade da scegliere, giuste o sbagliate ma a senso unico. Un po’ come il tempo. Non si torna indietro.

Come dopo aver premuto il tasto “Invio” e si è inviata una email.

E le ansie si succedono ad altre ansie di tipo diverso: da “Riuscirò a finire definitivamente questo libro (ci ho messo anni a scriverlo, ma non per la lunghezza, per la mia difficoltà ad affrontarne i contenuti)?” a “Piacerà all’editore? Lo pubblicherà?” fino a “Piacerà al pubblico?

Ok, so che non si può piacere a tutti, ma spero che il messaggio veicolato da questo libro possa raggiungere le persone. Possa far capire che dall’inferno a volte si può uscire. Non è facile ma è possibile farcela.

Non importa a che punto critico si arrivi ma non ci si può arrendere. Si può lottare e le forme di “combattimento”, di ribellione, possono essere varie e diverse per ognuno di noi. Ognuno di noi “è un numero unico”, ognuno di noi ha la sua ricetta personale, la propria strada per uscire dall’abisso. A volte si può anche decidere di rimanere sul fondo, ma è talmente opprimente che, poi, ci si ritrova morti senza aver realmente vissuto. Si diventa comparse sullo sfondo delle vite di altri. Non voglio affermare che tutti dobbiamo essere dei protagonisti, ma possiamo ritagliarci, con un po’ di improvvisazione a volte, la nostra parte sul grande palcoscenico della vita.

La strada è ancora lunga, spero, e “Domani ci sarà tempo“.

Buon viaggio a tutti.

Andrea

La ricerca della verità

La ricerca della verità

In un mondo in cui imperversano falsi profeti, bufale online e volponi della pseudoscienza, la razionalità è la nostra arma di difesa dalla miriade di informazioni da cui siamo bombardati.

di Silvana Zanon

Sono un medico, è vero. O per lo meno, ne ho la formazione.
Ho il poster di Galileo attaccato in ufficio, mi diverto a svelare i trucchi di maghi che, nelle catene di Whatsapp, dicono di essere in grado di leggere nella mente, e stimo chi, onestamente (e soprattutto in maniera disinteressata), va alla ricerca della verità.

In un interessante convegno a cui ho partecipato lo scorso mese si è parlato di come smascherare le truffe pseudoscientifiche e le ciarlatanerie nel web: in quell’occasione, un relatore ci ha ricordato che noi scienziati dobbiamo essere come San Tommaso nel quadro di Caravaggio, che deve mettere il dito nella piaga del costato di Cristo prima di  credere a ciò che gli viene raccontato. Deve verificare.

Sacrosanto.

In un mondo in cui imperversano falsi profeti, bufale online e volponi della pseudoscienza (rigorosamente a fini di lucro), la razionalità è la nostra arma di difesa dalla miriade di informazioni da cui siamo bombardati.
Ma la domanda è: oltre a tutto ciò che si può vedere e toccare… C’è altro?
Continuo ancora a chiedermi quale sia il confine tra mente e anima.

E soprattutto, se esiste.
Se non siamo semplicemente una combinazione di processi biochimici a livello cerebrale e di neurotrasmettitori, che si traducono in quelle che noi chiamiamo emozioni, sentimenti, pulsioni. O se c’è davvero qualcos’altro. Qualcosa che sopravvivrà alla carne, alle ossa, alla cenere e alla polvere. E al resto del mondo visibile.

Un paio d’anni fa, un’infermiera mi prestò un libro di Padre Gabriele Amorth, il noto esorcista venuto a mancare nel settembre dello scorso anno. Poi ne ho letto un secondo, un terzo e un quarto.

E mi si è aperto un mondo. Lo ammetto, sono rimasta affascinata dai racconti del prete modenese: magia nera, magia bianca. Sensitivi. Maghi in grado di nuocere a distanza alle persone, in genere su commissione. Sette sataniche. Persone che hanno venduto l’anima al demonio in cambio di successo e beni nella vita terrene. Il Nemico che, subdolamente e sotto sintomi fisici o psichici, è in grado di nuocere alle persone. E gli esorcisti che, in virtù del loro investimento, possono liberarli.

Assurdo, mi grida la mente razionale.

Però… c’è un però: quella parte atavica e istintiva di noi che crede alle favole, il bambino di un tempo rimasto avvinghiato al nostro inconscio, quello che restava per ore, con gli occhi sgranati ad ascoltare le fiabe di streghe, principesse e cavalieri oscuri sussurrati da chi ce le leggeva quando ancora non conoscevamo l’alfabeto.

Quel bambino ha preso brandelli di racconti dell’esorcista come se fossero pezzi di Lego, e li ha mescolati con la realtà: col mio amore incondizionato per i gatti, con i ricordi che ho dell’Ecuador, terra delle mie origini. E anche con ciò che non esiste, che è solo frutto della mia mente. È venuto fuori l’abbozzo di una trama. Con quell’immenso dono che è la nostra fantasia, che ci dà la capacità di creare.

Detto ciò, lasciando da parte i giochi del bambino, e rivolgendomi alla mia parte adulta… Credo che sia possibile ciò che ho letto in quelle pagine?

Mah. Non lo so.

Ci vorrebbe il paziente lavoro dello scienziato, gli studi in triplo cieco: prendo tre gruppi di persone con possibili sintomi da possessione. A un gruppo somministro il farmaco che il medico ritiene appropriato, sul secondo gruppo agisco con l’esorcismo, mentre col terzo gruppo non faccio nulla.

E alla fine conto: quanti guariti nel gruppo A? Quanti nel B? Quanti nel C?
Qual è il gruppo in cui i pazienti hanno avuto maggior beneficio?
Poi, con strumenti statistici, valuto se la differenza tra i gruppi può essere dovuta al caso o no. Se l’esorcismo ha avuto efficacia nulla, oppure semplicemente paragonabile all’effetto placebo.

Però devo riconoscere una cosa, anzi due: innanzitutto, Padre Amorth, prima di ricevere una persona e prenderla in carico, la invitava a sottoporsi a visite mediche e psichiatriche. E riteneva che nella maggior parte dei casi, la risposta si trovasse in quell’ambito.

Seconda cosa, e forse ancora più importante: la gratuità dei suoi interventi.
Chi lo aveva intervistato nella sua casa, parlava di una dimora umile e spartana. Dubito che il sacerdote si sia arricchito con un lavoro che, a detta sua, lo teneva occupato per tante, troppe ore al giorno per uno della sua età. La sua fonte di guadagno potevano essere i diritti d’autore sulla vendita dei suoi libri, d’accordo. Ma il suo tenore di vita, stando a quanto ho letto in alcune testimonianze, non lo rifletteva.

E una cosa di cui ho rispetto, personalmente, è l’onestà intellettuale. E la buona fede.
Cosa che il sacerdote modenese aveva.
Poi è vero: “La scienza vede, e quindi crede. La religione crede, e quindi vede”. Ma la fede, in fondo, è proprio questo.

Indovina e il dramma dei cuccioli orfani

Indovina e il dramma dei cuccioli orfani

Il deplorevole periodo dell’abbandono sistematico si avvicina, lasciando per strada diverse vittime inconsapevoli, ree soltanto di aver amato e di essere state fiduciose. Per fortuna, non per tutti la sorte riserva lo stesso trattamento.

di Cinzia Morea

Il dieci gennaio 2004 tre cuccioli appena nati furono avvolti in un sacchetto di plastica e buttati in un cassonetto a Como.

Potevano sparire per sempre in mezzo al resto della spazzatura, e non ci sarebbe stata nessuna storia da raccontare, invece a breve distanza del loro abbandono – dev’essere stata breve per forza perché le temperature erano rigide e i cuccioli, anche stringendosi a sé, non avrebbero potuto resistere a lungo lì dentro – dopo poco, dunque, furono riportati alla luce da un’amica di una delle mie veterinarie di allora.

Dieci giorni più tardi tornavo a casa con uno di questi cuccioli, adagiato dentro una piccola borsa rigida foderata di lana, che per lui aveva le dimensioni di un port enfant. L’autoradio emetteva nell’abitacolo freddo la voce di Baglioni che cantava Tienimi con te. E quel cucciolo non lo abbiamo abbandonato mai più.

È una femmina che finimmo per chiamare Indovina (ma questa è un’altra storia, che dovrà essere raccontata un’altra volta, come diceva uno dei miei scrittori preferiti).

Pesava cento grammi e si poteva tenere sul palmo di una mano.

Dormiva su una boule dell’acqua calda ricoperta di pelo sintetico (quando la vede le fa ancora le feste), che ci svegliavamo a cambiare almeno una volta a notte. La nutrivamo più volte al giorno con latte in polvere disciolto in un minuscolo biberon, e dopo dovevamo stimolarla con una pezzuola umida a livello perineale, per farle emettere feci e urine.

Sono tutte incombenze svolte di solito dalla madre cui ovviammo abbastanza bene.

Altri compiti materni non li svolgemmo con altrettanta efficacia, perché non era possibile o perché li ignoravamo. Il ruolo della madre nei primi mesi di vita è prezioso e insostituibile e i cuccioli non dovrebbero essere staccati da lei prima dei due mesi e mezzo circa.

Indovina, per esempio, non ha il controllo del morso, quando usa i denti non ammonisce. Mai. Buca la pelle.

Non ha la padronanza di sé che ha Sansone, il quale una volta scattò per prendere tra i denti la mano di un bambino di tre anni – lui gli stava tirando i baffi – senza lasciargli il minimo segno (fu una carezza d’avorio).

È troppo possessiva, capace di ringhiare a chiunque manifesti l’intenzione di avvicinarsi, se sta custodendo un oggetto cui lei in quel momento tiene.

Ringhia anche per esprimere piacere e affetto. E soprattutto fa fatica a socializzare con gli altri cani.

Noi le vogliamo molto bene lo stesso, ma a volte mi chiedo che cagnolina eccezionale sarebbe stata se avesse potuto crescere in una normale cucciolata.

E ora cercate di non farvi intenerire da questi sguardi…

Immagini tratte da Pixabay

Le promozioni su Facebook… ma anche no, grazie

Le promozioni su Facebook… ma anche no, grazie

di Giorgio Bianco

“Promuovi il tuo post per raggiungere fino a 8.000 persone al costo di 18 euro!”. Una frase del genere apparve poco più di un anno fa sul mio account di Facebook. Avevo pubblicato da pochi mesi il mio ultimo romanzo “Dammi un motivo” con l’editore EEE.

Ero orgoglioso poiché, sebbene per pochi giorni, il libro scalò le classifiche Amazon fino alla prima posizione.

Per cui non esitai a esibire il risultato su Facebook, ottenendo consensi e sorrisi da decine di amici.

A quel punto il social forum si fece avanti proponendomi l’inserzione a pagamento. Ecco come funziona (o non funziona) il meccanismo. Si pagano 18 euro tramite carta di credito (volendo si può spendere anche di più, ma io scelsi la promozione base) e Facebook inizia a proporre al pubblico il post con il link per l’acquisto del libro. L’autore può selezionare fascia d’età e scolarizzazione dei potenziali acquirenti. Io scelsi 18-65 anni e diploma di scuola superiore.

Ogni volta che l’inserzione raggiunge un certo numero di persone, il credito di 18 euro diminuisce. Fino a zero, quando la promozione termina, dopo due o tre giorni, non ricordo con precisione.

Successivamente l’autore riceve le statistiche, cioè i risultati ottenuti. E qui andiamo a ridere. Nel mio caso il post venne visualizzato da circa 8.800 persone. Quindi Facebook mantenne la parola. Di questi 8.800, tuttavia, soltanto una dozzina mise il “mi piace” e appena quattro aprirono il link. Disinteresse generale e fallimento totale. Il regno della superficialità. Più o meno come succede con i video o le immagini dei gattini: la gente sfoglia distrattamente il social, regala qualche “like” e tanti saluti.

Anche se non ho gli strumenti per verificarlo, sono pronto a scommettere che nessuno di quei quattro volonterosi che aprirono il link acquistò il libro. E se pure lo avessero fatto, il risultato sarebbe stato penoso: 4 su 8.800 per un libro che costa meno di 5 euro, ma ci pensate? Oltretutto basta scaricarlo, non c’è nemmeno la fatica di andare in libreria. Eppure, niente.

Che cosa ci insegna questa esperienza? Prima di tutto che 18 euro sono spesi meglio per pizza, birra e panna cotta.

Ma non solo. Il deludente risultato accende anche un faro sulla differenza fra quantità e qualità. Infatti è pur vero che “8.800 persone raggiunte” sono molte. Ma a che cosa serve raggiungerle, se poi non ci degnano neppure di uno sguardo? A nulla, evidentemente.

Facebook usato in modo “generalista”, se mi passate il termine, solleva una gran polverone privo di sostanza. Come le chiacchiere da bar. Tuttavia può rivelarsi molto utile. Come? Seguendo la filosofia promossa dalla EEE edizioni: sostegno reciproco fra autori, nonché promozioni mirate (e gratuite) in ambienti già selezionati. Mi riferisco, per esempio, ai gruppi di appassionati di letteratura. Perché oggi, bisogna ammetterlo, leggere è una attività di nicchia, come il modellismo ferroviario. Se non vai a cercare gli amatori, continuerai a segnare il passo credendo di correre.

Noi non vendiamo contratti di luce e gas o custodie per smartphone. Il nostro prodotto (che orrore chiamarlo così) interessa fasce molto specifiche di popolazione. Bisogna cercarle, anche attraverso Facebook, ma non gettando il seme a piene mani: cerchiamo i gruppi. E non dimentichiamo che recensire colleghi ed esserne recensiti e promossi sulle rispettive bacheche è ancora un metodo produttivo per divulgare le nostre opere.

Chiediamo a chi ha apprezzato il nostro libro di recensirlo su Amazon. Spingiamo il passaparola. Pubblichiamo sulla nostra bacheca le recensioni di opere scritte da altri autori, guardiamo oltre il nostro giardinetto e facciamo fronte comune con chi condivide la nostra grande passione. Uniti siamo più forti. Per cui facciamo circolare la cultura del leggere anche aiutando gli altri. Usciamo da noi stessi e saremo ricambiati con sostegni piccoli ma di qualità.

E soprattutto: non diamo soldi a chi promette grandi numeri: piuttosto mangiamoci una buona pizza!

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Breve racconto a puntate scritto da Manuela Leonessa.

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Di Manuela Leonessa

Anni fa ero un venditore di enciclopedie, ma mi hanno licenziato. Dicevano che non lo sapevo fare, che non avevo il piglio del venditore. Dicevano che avevo l’aria di vergognarmi di quello che facevo perché non credevo nella bontà del prodotto.
Era tutto vero.
Affrontavo i clienti col tono di chi chiede scusa per il disturbo, e se acquistavano l’ enciclopedia il mio sollievo era così evidente da farli dubitare di avere acquistato una fregatura. E avevano ragione, per me era una fregatura davvero, ma ai vertici questo contava poco.
Il capo della mia agenzia, il cav. Gerla era il classico uomo grasso, dall’aria porcina, Quando vedeva una bella donna grufolava con gli occhi. Così dicevano, almeno, io non lo so perché belle donne in agenzia non ne ho viste mai. Per il resto era un ottimo uomo d’affari, sazio nell’aspetto e con il borsellino pieno, poco interessato, peraltro, alla qualità delle proprie enciclopedie.
Perché la bontà del prodotto, secondo il cav. Gerla non era un problema del venditore.
L’unico problema del venditore era vendere, non importa cosa, non importa come e non importa a chi. Il mio supervisore è diventato un mito (e un supervisore) dopo aver venduto l’enciclopedia a un non vedente, convincendolo a farlo per ingraziarsi il nipotino. Tutti i nonni del mondo sanno che i nipotini non si conquistano con le enciclopedie ma con le tartarughine e l’ultimo dvd di Peppa Pig. Tutti tranne questo qui. Il mio supervisore non è stato mitico, ha avuto solo culo.
Comunque io non venderei mai un’enciclopedia a un non vedente, neanche se fosse pieno di nipotini. Probabilmente è questo che mi rende un cattivo venditore, convinto che esserlo ottimo sia moralmente insano.
Ho lavorato nell’agenzia di Gerla per sei mesi. Ho sofferto ogni singolo giorno di quell’esperienza, e per un sacco di buoni motivi, se vendevo mi sentivo in colpa e se non vendevo era un guaio perché lo stipendio a fine mese era calcolato in provvigioni. Insomma non se ne veniva fuori. La mia angoscia era palpabile, il mio biasimo nei confronti dei colleghi, pure.
Non è bello sentirsi disapprovati, me ne rendo conto, e se nel giro di poco tempo mi hanno isolato, oggi posso comprenderlo. All’epoca, però, per me erano tutti dei nemici, degli esseri privi di scrupoli, impegnati in un lavoro che aborrivo. Cosa più inspiegabile, li ritenevo responsabili del fatto che quel lavoro dovessi farlo pure io. Complici, gaudenti e sfrontati mi irridevano considerandomi un essere incapace, perciò inferiore.
Probabilmente la mia percezione della realtà era un po’ alterata dal senso di angoscia in cui versavo, ma si sa, quando uno è sott’acqua senza bombola, non contempla il fondale, affoga. E io stavo affogando nei miei rancori ingiustificati e nel mio personale incubo di fine mese.
Con questi presupposti, il fattaccio diventava inevitabile.
Una mattina sono arrivato in sede con la mia solita aria sconfitta, i colleghi stavano definendo il programma della giornata, loro erano pieni di appuntamenti. Eccitati e gasati, gonfi come palloncini all’elio, si agitavano per la sala comune, con i loro maglioncini colorati e le agendine cariche di appuntamenti in mano, ridendo e dandosi grosse paccate sulle spalle.
Non c’entravo nulla con loro. Mogio mogio mi sono avviato alla mia postazione, sembravo l’uomo più infelice della terra e a qualcuno la cosa non è andata giù.
Improvvisamente mi si è parato di fronte un collega. Alberto qualcosa. Il suo nome era in cima alla lista dei venditori del mese. Quella lista che Gerla aveva appeso in bacheca, e che aggiornava ogni trenta giorni per segnalare i collaboratori più produttivi. Una di quelle strategie all’incentivazione degne di un corso per corrispondenza. Non so, a me non è mai sembrata un granché come strategia, eppure i miei colleghi sostavano ogni mese davanti a quella lista, la scorrevano con gli occhi e con devozione, dandole il potere di determinare il loro stato d’animo in una scala cromatica che andava dal grigio smorto al rosso più radioso.
Dunque il collega mi si è parato davanti, mi ha guardato con disprezzo e mi ha assalito con un «Ma lo vedi che faccia che hai? Ma che credi, di essere l’unico a doverti alzare al mattino per venire a lavorare? Sei deprimente!»
Per un attimo non ho capito. Cosa voleva da me, gli avevo mai fatto qualcosa?
Si è intromesso un altro collega. Sandro. Il suo nome era in cima il mese precedente.
«Ma lascialo perdere. Non vedi che non sa neanche in che giorno siamo?»
A quel punto mi sono reso conto che erano tutti intorno a noi. Tutti avevano lasciato quello che stavano facendo, abbandonato la propria preziosa agendina sulla scrivania per venire ad assistere alla scena. Tutti mi guardavano e ridevano.
Ho dato una spallata a Sandro, o forse era Alberto, e sono andato a sedermi alla mia postazione. Avrei voluto dire qualcosa ma non mi è venuto in mente niente. Ho sperato che la mia faccia fosse terribile, ho sperato che mostrasse tutta la mia rabbia, ho sperato che sembrasse l’espressione di un uomo forte, di uno che avesse molte cose da dire ma che tace come a un essere superiore conviene. Ho sperato ma non mi sono illuso. E avevo tanta voglia di scappare.
Piano piano se ne sono andati tutti. Tutti avevano un appuntamento, almeno uno, nella giornata. Perciò mi sono ritrovato solo in ufficio con il mio inutile elenco di clienti da contattare telefonicamente. La sala rimbombava tanto era vuota e io odiavo telefonare.
Mi spaventava l’interlocutore dall’altro capo del filo. Non sapevo chi fosse e lo immaginavo sempre maldisposto. Le risposte sgarbate erano una conferma delle mie aspettative, ma questa consapevolezza non mi proteggeva. Lo sgarbo mi annientava, e comporre il numero successivo risultava sempre più difficile. Il telefono era mio nemico, e faceva paura.
Insomma, non c’era niente in quel posto che mi trattenesse, e allora che ci facevo ancora lì?
Ci facevo che non avevo un altro lavoro.
Poi l’ho trovato. Un lavoro vero, con lo stipendio a fine mese.
Sono più o meno tre anni che faccio il cassiere in un supermercato, un lavoro che mi ricorda la catena di montaggio e che mi espone alla maleducazione della gente. Sono sempre di più le persone maleducate, ma non perché sia aumentata la maleducazione nel mondo, a questo proposito ho una mia teoria, ve la espongo.
L’aumento dei maleducati alle casse è causato dall’invenzione di quelle automatiche. Quelle casse dove vai e fai il cassiere con la tua merce, come quando da bambino giocavi a vendere.
Ma queste casse danneggiano noi del settore per tutta una serie di motivi. Il primo, il più ovvio, è che tolgono posti di lavoro, il secondo è che aumentano il numero dei maleducati alle casse tradizionali. Infatti, sempre secondo la mia teoria, le persone maleducate non si servono delle casse automatiche perché vogliono un cassiere da maltrattare. Ai loro occhi il cassiere, esposto ed inerme, è come un bersaglio su cui sfogare le proprie frustrazioni, più efficace di un ansiolitico, più attraente del tre per due. Da ciò consegue la frantumazione del flusso dei clienti in due ordini contrapposti, quello dei gentili, quasi tutti alle casse senza cassiere, e quello degli altri.
Ma, e arriviamo al punto, questi dettagli mi riguardano poco, perché il mio dramma e la mia tensione, risalgono a tre anni fa.
Dal giorno dello scontro con i colleghi di agenzia io grido vendetta. Da tre anni penso a quell’episodio con rabbia e con vergogna. È come un prodotto a lunga conservazione, non sbiadisce mai.
Da tre anni auguro ad Alberto e Sandro i mali più turpi che la mia mente offesa riesca ad immaginare. E ieri, finalmente, mi si è offerta un’opportunità, perché ieri Alberto, o era Sandro? è venuto a fare la spesa da noi. Non è venuto a pagare alla mia cassa, è andato a una automatica, così ora dovrò rivedere la mia teoria, ma è stata un’emozione così grande che non m’importa.
Non mi ha visto, a me invece lui è apparso come un sogno. Ero dietro al mio registratore di cassa e non mi potevo spostare, peccato perché in quel momento mi sono sentito come il Corvo tornato dall’aldilà per vendicarsi. Non ero invulnerabile come lui ma non importava, non avevo neppure una pistola, però avevo un registratore di cassa in mano e nessuna paura di usarlo.
La collega della cassa davanti a me si è voltata per chiedermi della moneta e ha notato il luccichio dei miei denti. Mi ha chiesto se andasse tutto bene.
È una donnona di cinquant’anni dall’aria materna e dal cuore buono. Si chiama Anna ma noi la chiamiamo Manna perché tale è per tutto il supermercato. Andiamo da lei quando abbiamo bisogno di un consiglio, di un incoraggiamento o di semplice consolazione. Lei ha una parola buona per tutti, e non l’ho mai sentita chiedere nulla per sé.
Le ho fatto segno che le avrei spiegato poi, durante la pausa caffè, nel mentre meditavo la mia vendetta e questo bastava a rendere la mia giornata più tollerabile, illuminata dalla presenza di una gratificante creatività, ma quando ho raccontato a Manna cosa mi avessero fatto Alberto e Sandro e che cosa meditavo da quando avevo visto uno dei due, lei mi ha guardato con la pena negli occhi.
«Ma, tesoro, è successo tre anni fa…»
Lo so anch’io, e infatti da tre anni sto male di brutto.
Il giorno dopo il nemico è tornato alla cassa automatica. Ho allungato il collo per curiosare nel suo carrello e ho visto una pagnotta nel cellophan. Imbecille, non lo sa che la panetteria di fronte vende pane molto più buono del nostro? Poi ho notato un pacco di merendine al cioccolato, Razza di microcefalo dai gusti regrediti di un bambino. L’ipotesi che le merendine fossero dei figli era da escludere categoricamente, anche perché lui non può avere figli, Chi mai lo sposerebbe a quello là?
Poi c’era dell’insalata e un pacco di carote. Ma allora è davvero cretino, non lo sa che al mercato la verdura costa meno ed è più fresca? Infine due cartoni di latte biologico. È stato difficile non scoppiare a ridere, lo scimunito crede ancora nel biologico!
È arrivata una delle clienti più simpatiche del supermercato, una delle poche gentili che continuano a venire alla mia cassa. Mi ha sorriso allegra «Buongiorno Renato. Come va oggi?»
«Bene signora»
Mi sono dimenticato di chiederle E lei? e ci è rimasta male. Ma non posso farci niente, la rabbia mi divora, invadendo tutto il mio spazio mentale, sono in stand by bloccato sull’opzione vendetta e da lì non riesco a muovermi. Tutto ciò che mi procurava gioia o che comunque rendeva gradevole la mia giornata è stato spazzato via dal bisogno di fare del male ad Alberto, o è Sandro? Li ammazzo entrambi e la chiudiamo lì.
Ho l’impressione che se gli avessi spaccato la faccia allora, oggi non starei così, ma i miei conti sono rimasti in sospeso e quello dei torti subiti, scopro ora, è uno di quei crediti che non cade in prescrizione.
Di quell’episodio ho un ricordo fresco come latte appena munto. La cosa che mi fa più male è che Alberto/Sandro lo ha dimenticato subito. Se la cosa avesse avuto per lui una qualche importanza, se fosse tornato dai suoi giri seccato, infastidito dall’episodio, se qualcosa nel suo atteggiamento, insomma, avesse suggerito che mi collocava in una posizione dignitosa nella scala evolutiva allora, forse, avrei potuto perdonare. Ma no, per lui non ero niente, ancor meno di nessuno. Allegro, e fiducioso si è recato ai suoi appuntamenti, senza neppure relegarmi da qualche parte, tanto mi aveva già dimenticato, mentre io umiliato e sofferente speravo che non riuscisse a vendere neppure un volume. Invece ha pure venduto. E anche oggi lui spinge il suo carrello ignaro e beato. Provo una rabbia dolorosa, neanche il fatto di essere il principe dei cretini lo rende un po’ infelice. La sua ignoranza abissale è asintomatica, il fatto che non lo faccia soffrire, fa soffrire me.
Manna mi osserva, nota il mio livore e se ne preoccupa, fa cambio con una collega per avere la pausa caffè insieme a me e a quel punto mi affronta.
«Renato…» mi dice, e il suo sguardo è nuovamente un poema alla pietà. E ha ragione, la vita va avanti, e si volta pagina. Dovrebbe essere così ma non ci riesco.
Qualcuno ha detto che il disprezzo è la forma più sottile di vendetta1, e io lo disprezzo costui, eccome. Ma lui nemmeno se ne accorge! E allora devo trovare qualcos’altro, qualcosa che lo faccia soffrire tanto. Ne ho bisogno per guardare avanti.
«Ma qui quello che soffre sei solo tu.» mi fa notare Manna.
Secoli di letteratura sulla vendetta ci hanno fatto credere quanto sia dolce il suo sapore. E quanto sia giusta e necessaria. Dalla biblica citazione “occhio per occhio” in poi, abbiamo imparato ad assimilare la vendetta alla giustizia. È lo stesso senso di giustizia che reclama il pareggiamento di conti, non sono contemplate altre opzioni. Ma è la prima volta che mi propongono questa riflessione, Il bisogno di vendetta fa soffrire solo me.
Mi impedisce di sotterrare l’ascia di guerra e calpestare il suolo che la nasconde. E farlo fiorire di nuovo.
Così vivo male, secondo Manna non vivo proprio. Da quando il decerebrato è ricomparso nella mia vita non faccio che pensare a lui, come a un fidanzato all’incontrario. Quando ami daresti la vita per la felicità altrui. Io mi approprierei volentieri della sua per riprendermi la mia.
Sono uno che porta rancore e non è bello. Ma non ne posso fare a meno. Solo ora mi rendo conto che non è bello soprattutto per me. C’è qualcosa che posso fare per far cessare questa rabbia tossica? Esiste davvero una soluzione diversa dalla vendetta per dimenticare?

Lo scoprirete nella prossima puntata

1 Baltasar Graciàn (gesuita, scrittore e filosofo spagnolo. 1601-1658)

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