rancore

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Breve racconto a puntate scritto da Manuela Leonessa.

Sono uno che porta rancore (prima parte)

Di Manuela Leonessa

Anni fa ero un venditore di enciclopedie, ma mi hanno licenziato. Dicevano che non lo sapevo fare, che non avevo il piglio del venditore. Dicevano che avevo l’aria di vergognarmi di quello che facevo perché non credevo nella bontà del prodotto.
Era tutto vero.
Affrontavo i clienti col tono di chi chiede scusa per il disturbo, e se acquistavano l’ enciclopedia il mio sollievo era così evidente da farli dubitare di avere acquistato una fregatura. E avevano ragione, per me era una fregatura davvero, ma ai vertici questo contava poco.
Il capo della mia agenzia, il cav. Gerla era il classico uomo grasso, dall’aria porcina, Quando vedeva una bella donna grufolava con gli occhi. Così dicevano, almeno, io non lo so perché belle donne in agenzia non ne ho viste mai. Per il resto era un ottimo uomo d’affari, sazio nell’aspetto e con il borsellino pieno, poco interessato, peraltro, alla qualità delle proprie enciclopedie.
Perché la bontà del prodotto, secondo il cav. Gerla non era un problema del venditore.
L’unico problema del venditore era vendere, non importa cosa, non importa come e non importa a chi. Il mio supervisore è diventato un mito (e un supervisore) dopo aver venduto l’enciclopedia a un non vedente, convincendolo a farlo per ingraziarsi il nipotino. Tutti i nonni del mondo sanno che i nipotini non si conquistano con le enciclopedie ma con le tartarughine e l’ultimo dvd di Peppa Pig. Tutti tranne questo qui. Il mio supervisore non è stato mitico, ha avuto solo culo.
Comunque io non venderei mai un’enciclopedia a un non vedente, neanche se fosse pieno di nipotini. Probabilmente è questo che mi rende un cattivo venditore, convinto che esserlo ottimo sia moralmente insano.
Ho lavorato nell’agenzia di Gerla per sei mesi. Ho sofferto ogni singolo giorno di quell’esperienza, e per un sacco di buoni motivi, se vendevo mi sentivo in colpa e se non vendevo era un guaio perché lo stipendio a fine mese era calcolato in provvigioni. Insomma non se ne veniva fuori. La mia angoscia era palpabile, il mio biasimo nei confronti dei colleghi, pure.
Non è bello sentirsi disapprovati, me ne rendo conto, e se nel giro di poco tempo mi hanno isolato, oggi posso comprenderlo. All’epoca, però, per me erano tutti dei nemici, degli esseri privi di scrupoli, impegnati in un lavoro che aborrivo. Cosa più inspiegabile, li ritenevo responsabili del fatto che quel lavoro dovessi farlo pure io. Complici, gaudenti e sfrontati mi irridevano considerandomi un essere incapace, perciò inferiore.
Probabilmente la mia percezione della realtà era un po’ alterata dal senso di angoscia in cui versavo, ma si sa, quando uno è sott’acqua senza bombola, non contempla il fondale, affoga. E io stavo affogando nei miei rancori ingiustificati e nel mio personale incubo di fine mese.
Con questi presupposti, il fattaccio diventava inevitabile.
Una mattina sono arrivato in sede con la mia solita aria sconfitta, i colleghi stavano definendo il programma della giornata, loro erano pieni di appuntamenti. Eccitati e gasati, gonfi come palloncini all’elio, si agitavano per la sala comune, con i loro maglioncini colorati e le agendine cariche di appuntamenti in mano, ridendo e dandosi grosse paccate sulle spalle.
Non c’entravo nulla con loro. Mogio mogio mi sono avviato alla mia postazione, sembravo l’uomo più infelice della terra e a qualcuno la cosa non è andata giù.
Improvvisamente mi si è parato di fronte un collega. Alberto qualcosa. Il suo nome era in cima alla lista dei venditori del mese. Quella lista che Gerla aveva appeso in bacheca, e che aggiornava ogni trenta giorni per segnalare i collaboratori più produttivi. Una di quelle strategie all’incentivazione degne di un corso per corrispondenza. Non so, a me non è mai sembrata un granché come strategia, eppure i miei colleghi sostavano ogni mese davanti a quella lista, la scorrevano con gli occhi e con devozione, dandole il potere di determinare il loro stato d’animo in una scala cromatica che andava dal grigio smorto al rosso più radioso.
Dunque il collega mi si è parato davanti, mi ha guardato con disprezzo e mi ha assalito con un «Ma lo vedi che faccia che hai? Ma che credi, di essere l’unico a doverti alzare al mattino per venire a lavorare? Sei deprimente!»
Per un attimo non ho capito. Cosa voleva da me, gli avevo mai fatto qualcosa?
Si è intromesso un altro collega. Sandro. Il suo nome era in cima il mese precedente.
«Ma lascialo perdere. Non vedi che non sa neanche in che giorno siamo?»
A quel punto mi sono reso conto che erano tutti intorno a noi. Tutti avevano lasciato quello che stavano facendo, abbandonato la propria preziosa agendina sulla scrivania per venire ad assistere alla scena. Tutti mi guardavano e ridevano.
Ho dato una spallata a Sandro, o forse era Alberto, e sono andato a sedermi alla mia postazione. Avrei voluto dire qualcosa ma non mi è venuto in mente niente. Ho sperato che la mia faccia fosse terribile, ho sperato che mostrasse tutta la mia rabbia, ho sperato che sembrasse l’espressione di un uomo forte, di uno che avesse molte cose da dire ma che tace come a un essere superiore conviene. Ho sperato ma non mi sono illuso. E avevo tanta voglia di scappare.
Piano piano se ne sono andati tutti. Tutti avevano un appuntamento, almeno uno, nella giornata. Perciò mi sono ritrovato solo in ufficio con il mio inutile elenco di clienti da contattare telefonicamente. La sala rimbombava tanto era vuota e io odiavo telefonare.
Mi spaventava l’interlocutore dall’altro capo del filo. Non sapevo chi fosse e lo immaginavo sempre maldisposto. Le risposte sgarbate erano una conferma delle mie aspettative, ma questa consapevolezza non mi proteggeva. Lo sgarbo mi annientava, e comporre il numero successivo risultava sempre più difficile. Il telefono era mio nemico, e faceva paura.
Insomma, non c’era niente in quel posto che mi trattenesse, e allora che ci facevo ancora lì?
Ci facevo che non avevo un altro lavoro.
Poi l’ho trovato. Un lavoro vero, con lo stipendio a fine mese.
Sono più o meno tre anni che faccio il cassiere in un supermercato, un lavoro che mi ricorda la catena di montaggio e che mi espone alla maleducazione della gente. Sono sempre di più le persone maleducate, ma non perché sia aumentata la maleducazione nel mondo, a questo proposito ho una mia teoria, ve la espongo.
L’aumento dei maleducati alle casse è causato dall’invenzione di quelle automatiche. Quelle casse dove vai e fai il cassiere con la tua merce, come quando da bambino giocavi a vendere.
Ma queste casse danneggiano noi del settore per tutta una serie di motivi. Il primo, il più ovvio, è che tolgono posti di lavoro, il secondo è che aumentano il numero dei maleducati alle casse tradizionali. Infatti, sempre secondo la mia teoria, le persone maleducate non si servono delle casse automatiche perché vogliono un cassiere da maltrattare. Ai loro occhi il cassiere, esposto ed inerme, è come un bersaglio su cui sfogare le proprie frustrazioni, più efficace di un ansiolitico, più attraente del tre per due. Da ciò consegue la frantumazione del flusso dei clienti in due ordini contrapposti, quello dei gentili, quasi tutti alle casse senza cassiere, e quello degli altri.
Ma, e arriviamo al punto, questi dettagli mi riguardano poco, perché il mio dramma e la mia tensione, risalgono a tre anni fa.
Dal giorno dello scontro con i colleghi di agenzia io grido vendetta. Da tre anni penso a quell’episodio con rabbia e con vergogna. È come un prodotto a lunga conservazione, non sbiadisce mai.
Da tre anni auguro ad Alberto e Sandro i mali più turpi che la mia mente offesa riesca ad immaginare. E ieri, finalmente, mi si è offerta un’opportunità, perché ieri Alberto, o era Sandro? è venuto a fare la spesa da noi. Non è venuto a pagare alla mia cassa, è andato a una automatica, così ora dovrò rivedere la mia teoria, ma è stata un’emozione così grande che non m’importa.
Non mi ha visto, a me invece lui è apparso come un sogno. Ero dietro al mio registratore di cassa e non mi potevo spostare, peccato perché in quel momento mi sono sentito come il Corvo tornato dall’aldilà per vendicarsi. Non ero invulnerabile come lui ma non importava, non avevo neppure una pistola, però avevo un registratore di cassa in mano e nessuna paura di usarlo.
La collega della cassa davanti a me si è voltata per chiedermi della moneta e ha notato il luccichio dei miei denti. Mi ha chiesto se andasse tutto bene.
È una donnona di cinquant’anni dall’aria materna e dal cuore buono. Si chiama Anna ma noi la chiamiamo Manna perché tale è per tutto il supermercato. Andiamo da lei quando abbiamo bisogno di un consiglio, di un incoraggiamento o di semplice consolazione. Lei ha una parola buona per tutti, e non l’ho mai sentita chiedere nulla per sé.
Le ho fatto segno che le avrei spiegato poi, durante la pausa caffè, nel mentre meditavo la mia vendetta e questo bastava a rendere la mia giornata più tollerabile, illuminata dalla presenza di una gratificante creatività, ma quando ho raccontato a Manna cosa mi avessero fatto Alberto e Sandro e che cosa meditavo da quando avevo visto uno dei due, lei mi ha guardato con la pena negli occhi.
«Ma, tesoro, è successo tre anni fa…»
Lo so anch’io, e infatti da tre anni sto male di brutto.
Il giorno dopo il nemico è tornato alla cassa automatica. Ho allungato il collo per curiosare nel suo carrello e ho visto una pagnotta nel cellophan. Imbecille, non lo sa che la panetteria di fronte vende pane molto più buono del nostro? Poi ho notato un pacco di merendine al cioccolato, Razza di microcefalo dai gusti regrediti di un bambino. L’ipotesi che le merendine fossero dei figli era da escludere categoricamente, anche perché lui non può avere figli, Chi mai lo sposerebbe a quello là?
Poi c’era dell’insalata e un pacco di carote. Ma allora è davvero cretino, non lo sa che al mercato la verdura costa meno ed è più fresca? Infine due cartoni di latte biologico. È stato difficile non scoppiare a ridere, lo scimunito crede ancora nel biologico!
È arrivata una delle clienti più simpatiche del supermercato, una delle poche gentili che continuano a venire alla mia cassa. Mi ha sorriso allegra «Buongiorno Renato. Come va oggi?»
«Bene signora»
Mi sono dimenticato di chiederle E lei? e ci è rimasta male. Ma non posso farci niente, la rabbia mi divora, invadendo tutto il mio spazio mentale, sono in stand by bloccato sull’opzione vendetta e da lì non riesco a muovermi. Tutto ciò che mi procurava gioia o che comunque rendeva gradevole la mia giornata è stato spazzato via dal bisogno di fare del male ad Alberto, o è Sandro? Li ammazzo entrambi e la chiudiamo lì.
Ho l’impressione che se gli avessi spaccato la faccia allora, oggi non starei così, ma i miei conti sono rimasti in sospeso e quello dei torti subiti, scopro ora, è uno di quei crediti che non cade in prescrizione.
Di quell’episodio ho un ricordo fresco come latte appena munto. La cosa che mi fa più male è che Alberto/Sandro lo ha dimenticato subito. Se la cosa avesse avuto per lui una qualche importanza, se fosse tornato dai suoi giri seccato, infastidito dall’episodio, se qualcosa nel suo atteggiamento, insomma, avesse suggerito che mi collocava in una posizione dignitosa nella scala evolutiva allora, forse, avrei potuto perdonare. Ma no, per lui non ero niente, ancor meno di nessuno. Allegro, e fiducioso si è recato ai suoi appuntamenti, senza neppure relegarmi da qualche parte, tanto mi aveva già dimenticato, mentre io umiliato e sofferente speravo che non riuscisse a vendere neppure un volume. Invece ha pure venduto. E anche oggi lui spinge il suo carrello ignaro e beato. Provo una rabbia dolorosa, neanche il fatto di essere il principe dei cretini lo rende un po’ infelice. La sua ignoranza abissale è asintomatica, il fatto che non lo faccia soffrire, fa soffrire me.
Manna mi osserva, nota il mio livore e se ne preoccupa, fa cambio con una collega per avere la pausa caffè insieme a me e a quel punto mi affronta.
«Renato…» mi dice, e il suo sguardo è nuovamente un poema alla pietà. E ha ragione, la vita va avanti, e si volta pagina. Dovrebbe essere così ma non ci riesco.
Qualcuno ha detto che il disprezzo è la forma più sottile di vendetta1, e io lo disprezzo costui, eccome. Ma lui nemmeno se ne accorge! E allora devo trovare qualcos’altro, qualcosa che lo faccia soffrire tanto. Ne ho bisogno per guardare avanti.
«Ma qui quello che soffre sei solo tu.» mi fa notare Manna.
Secoli di letteratura sulla vendetta ci hanno fatto credere quanto sia dolce il suo sapore. E quanto sia giusta e necessaria. Dalla biblica citazione “occhio per occhio” in poi, abbiamo imparato ad assimilare la vendetta alla giustizia. È lo stesso senso di giustizia che reclama il pareggiamento di conti, non sono contemplate altre opzioni. Ma è la prima volta che mi propongono questa riflessione, Il bisogno di vendetta fa soffrire solo me.
Mi impedisce di sotterrare l’ascia di guerra e calpestare il suolo che la nasconde. E farlo fiorire di nuovo.
Così vivo male, secondo Manna non vivo proprio. Da quando il decerebrato è ricomparso nella mia vita non faccio che pensare a lui, come a un fidanzato all’incontrario. Quando ami daresti la vita per la felicità altrui. Io mi approprierei volentieri della sua per riprendermi la mia.
Sono uno che porta rancore e non è bello. Ma non ne posso fare a meno. Solo ora mi rendo conto che non è bello soprattutto per me. C’è qualcosa che posso fare per far cessare questa rabbia tossica? Esiste davvero una soluzione diversa dalla vendetta per dimenticare?

Lo scoprirete nella prossima puntata

1 Baltasar Graciàn (gesuita, scrittore e filosofo spagnolo. 1601-1658)

One Response

Lascia un tuo commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.