Restare a Torino con il Salone del Libro

Restare a Torino con il Salone del Libro

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Chi avrebbe mai pensato che un libro potesse dividere l’opinione delle masse e creare una situazione così incresciosa?

Beh, a pensarci bene, le riforme intellettuali hanno sempre diviso le masse e la storia è costellata da episodi che partono dalla parola per trasformarsi poi nella rivoluzione culturale e sociale del secolo. Tuttavia, in questo caso, non vi sono rivoluzioni culturali in movimento né, tanto meno, ideologie sociali da difendere o da sbandierare, c’è solo un ristretto manipolo di interessati che cercano di sovvertire le tradizioni a proprio vantaggio.

Ed è proprio per questa motivazione che siamo ancora più dispiaciuti nel vedere come l’intero mondo editoriale italiano va spaccandosi rincorrendo un’ideologia fittizia e quanto mai contraddittoria. Ed è sempre per questo motivo che riteniamo doveroso dover prendere una posizione netta, chiara, persino ovvia, per chi ci conosce. EEE non poteva che rimanere fedele a Torino e i motivi di tale scelta sono diversi.

Il primo fra tutti è il più logico: EEE ha sede a Moncalieri, in provincia di Torino. Per un piccolo editore una trasferta potrebbe diventare proibitiva e i costi per partecipare a un tale evento sono già elevati e significativi anche senza dover aggiungere vitto e alloggio fra le spese.

Altra motivazione è il fattore tradizione. Da decenni il Salone del Libro rappresenta quella patina culturale di cui ancora ci vantiamo e che raggiunge le vetrine mondiali anche grazie alla propria fama. Un corridoio sul mondo mantenuto aperto soprattutto da quel fattore tradizionale che vuole Torino come una delle capitali europee della cultura… Torino, non Milano o Roma o Firenze… senza nulla togliere, ovviamente, alle altre città. Tuttavia, proprio grazie a quel Salone che pare essere diventato scomodo per alcuni, l’Italia ha mantenuto una sua facciata, seppur simbolica, su quanto viene espresso a livello editoriale e rappresenta, ancora oggi, un punto di riferimento per tutta l’editoria nostrana.

Vogliamo poi analizzare cosa porta l’AIE a voler trasferire il Salone da Torino a Milano? Ve lo dico già da ora, no. No, non vogliamo analizzare l’opportunismo che nasce dietro questa mossa, ma è evidente che con la cultura non ha nulla a che vedere e che il fulcro gira solo intorno a potere, denaro e politica. E ve lo diciamo perché se gli intenti fossero stati un po’ più nobili, un po’ più proiettati verso i reali interessi di editori, autori e lettori, forse avremmo accolto questa possibilità con più benevolenza. Tuttavia, avendo compreso i fatti, non possiamo né vogliamo sostenere delle idee che porteranno solo all’ennesima figura barbina che il nostro Paese è in grado di fare.

Dunque, a conti fatti, preferiamo restare a Torino, con tutte le problematiche che il Salone del Libro ha presentato fino ad ora, con i suoi costi elevati, con la sua burocrazia e gli intoppi. Restiamo perché crediamo che le tradizioni non debbano essere gettate al vento e che a nulla serve distruggere per migliorare, basta tirarsi su le maniche e rimettersi a lavorare seriamente. E restiamo perché abbiamo fiducia nell’evoluzione che abbiamo visto nascere in questi ultimi anni, un progredire dei nostri autori e dei libri pubblicati da buoni editori.

Perché i buoni editori esistono davvero e gli autori capaci ci sono. Oltre al fatto che anche i lettori hanno compreso certe dinamiche e sono ora in grado di trovare, fra le nostre fila, scrittori che sappiano costruire una trama originale, prodotta in un italiano corretto.

Dunque perché svilire un simile evento? Perché ridurlo a una semplice kermesse basata su fattori politici ed economici? Il Salone è molto più di questo, è la storia di un Paese che resiste alle polemiche e alle stupidaggini; è il simbolo di molti sogni chiusi in un cassetto e rappresenta le fondamenta di un concetto di speranza che ha appena iniziato a rifiorire.

Detto questo, se vivessimo in un Paese davvero democratico, prima di prendere qualsivoglia decisione, non sarebbe forse il caso di chiedere il parere a tutti i diretti interessati?

Perché scrivere

Scrivere è vivere, per chi ha la sfortuna ed il massimo privilegio di volerlo fare

di Bruno Bruni

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Secondo il “Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2014” presentato all’Aie in occasione della Buchmesse di Francoforte, nel 2013 in Italia sono stati pubblicati 30.382 ebook che hanno inciso il 3% del mercato editoriale, con una disponibilità di ebook in commercio che ha superato i 100mila titoli (100.524 per la precisione).

Non sono un fanatico delle statistiche, ma questi dati mi hanno colpito. Escludendo manuali e testi scolastici, rimangono comunque sul mercato diverse migliaia di romanzi. Non entro nel merito di quanti facciano parte del self-publishing, fenomeno in crescita negli ultimi anni. Sono comunque tanti, tantissimi se consideriamo che in Italia si legge poco. Ancora il rapporto sullo stato dell’editoria 2014 di AIE ha rivelato che il bacino dei lettori nel 2013 si è ristretto del 6,1% (leggono almeno un libro in un anno solo 43 italiani su 100) Allora, in questo oceano di titoli, quante sono le possibilità di essere conosciuto per un autore esordiente? Meglio, un autore che potremmo definire Indie, con un termine rubato alla musica, può sperare di emergere, in qualche modo?

Il pensiero è vagamente disperante. Al meglio, il nostro scrittore Indie può aspirare ad un pubblico di nicchia. No, no, non sto facendo il disfattista a tutti i costi. Il punto che mi interessa è un altro. Escludendo i megalomani e gli illusi, che saranno comunque convinti di essere geni incompresi, la grande maggioranza di autori è composta da persone intelligenti e ragionevoli, consapevoli che da queste parti diventare scrittori noti è molto difficile, quasi come vincere un terno al Lotto. È un’attività faticosa mentalmente ma anche fisicamente e dagli esiti per nulla scontati. Allora, perché scrivere? Anzi, visto che nel mucchio c’è anche il sottoscritto, perché scriviamo?

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Sergio Endrigo

Tenterò di rispondere a titolo personale, sperando di interpretare, in qualche modo, un pensiero condiviso almeno in parte dalla categoria dei raccontatori di storie. Voglio aiutarmi citando frammenti di testi che per me sono stati in qualche modo illuminanti, magari non subito, letti e archiviati sul momento in quel grande deposito che è in fondo alla nostra mente e poi riemersi, in tempi diversi, ma improvvisamente chiari come risposta a vecchie domande. Inizio con una vecchia canzone di Sergio Endrigo. Cantautore oggi un poco dimenticato, autore di testi in apparenza semplici, quasi scarni ma essenziali e profondi.

“C’è gente che ha avuto mille cose
Tutto il bene, tutto il male del mondo
Io ho avuto solo te
E non ti perderò, non ti lascerò
Per cercare nuove avventure”

Endrigo parla dell’unico amore, quello capace di riempire anche la vita più povera e solitaria. Può essere amore per una persona, nel caso di questa canzone, ma in fondo anche per una religione, per una ideologia, perché no, per un animale domestico, comunque amore che dà, che trascende il quotidiano. E chi scrive ama. Ama la storia, i personaggi. Si cala in un altro mondo e dimentica, per un momento, l’attimo presente. A me succede esattamente così e credo di non essere l’unico a provare una sensazione simile. Certo, si può scrivere per puro mestiere, per denaro… e allora non sarà la stessa cosa. Forse noi autori Indie non siamo avvezzi alla scrittura professionale, forse Stephen King scrive pensando agli incassi. Ma io non penso sia così neppure per lui.

Sarò un romantico, ma sono convinto che scrivere sia quasi sempre un atto d’amore. E forse anche qualcosa di più complesso, secondo Borges. Scrittore che mi colpì molto fin dalla prima lettura, così cerebrale e logico, ma anche appassionato e mistico. Borges in “Altre Inquisizioni“, in uno dei suoi tipici salti mortali fatti di parole, cita Shelley il quale:

“Venti anni prima aveva opinato che tutti i poemi del passato, del presente e dell’avvenire, sono episodi o frammenti d’un solo poema infinito, composto da tutti i poeti del mondo.”

Jorges Luis Borges nel 1951, foto di Grete Stern

Jorges Luis Borges nel 1951, foto di Grete Stern

L’idea del libro Universale è assai intrigante, almeno per me. Un pensiero quasi vertiginoso. Anche il più dimenticato degli autori (anche io allora…) non avrà scritto invano se la sua fatica andrà a confluire nell’oceano di tutti i libri e sarà compagno e fratello di quanti scrissero e scriveranno da sempre, per sempre. Difficile trovare una motivazione più potente, direi. Difficile, ma non impossibile. Ancora Borges, sempre in “Altre Inquisizioni” scrive una frase che mi parve da subito memorabile:

“La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico”

Questo è davvero il motivo decisivo, per me. Scrivere inseguendo l’attimo della rivelazione. Una chimera, chi lo nega. Un sogno, una illusione, ma che meravigliosa illusione, che scopo sublime è questo. Non vale forse la pena di impegnarvi tempo, ed energie, finché avremo fiato?

Qui mi fermo. Per quanto mi riguarda ho detto tutto quello che potevo. Concludo con un Haiku del poeta Italiano Mario Chini:

“In tre versetti
tutto un poema, e, forse,
tutta una vita”

Che in fondo riassume, con la meravigliosa essenzialità dell’Haiku, tutto quanto ho faticosamente tentato di spiegare. Scrivere è vivere, per chi ha la sfortuna ed il massimo privilegio di volerlo fare.