Le radici nel folclore

Folclore, identità, memoria.

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Le tradizioni popolari appartengono al bagaglio culturale che ognuno di noi porta appresso nella vita. Radici che influenzano il nostro modo di essere e di concepire l’esistenza. Paolo Ferruccio Cuniberti, autore di diversi libri editi con EEE (Body and soul, Indagine su Anna e Un’altra estate), studia da tempo le culture popolari, soprattutto in ambito piemontese, e questo suo interesse antropologico si è tradotto proprio nei suoi romanzi. All’autore abbiamo chiesto in che modo si sono evoluti gli usi e i costumi dal recente passato a oggi.

Paolo Ferruccio Cuniberti ha pubblicato con EEE: Body and Soul, Indagine su Anna, Un’altra estate

Folclore, identità, memoria

di Paolo Ferruccio Cuniberti 

L’etnologo Franco Castelli di Alessandria un giorno mi ha scritto che della cultura popolare “noi oggi riusciamo a individuare solo i frammenti, come relitti di un grande naufragio”. Perché di questo si tratta, quando osserviamo le sopravvivenze di un mondo arcaico che si è da tempo estinto, e ciò è avvenuto nel giro di pochi decenni. Il “grande naufragio” altro non è che la fine della civiltà contadina avvenuta a partire dal dopoguerra, con l’industrializzazione dell’Italia e l’inurbamento di ingenti masse di contadini in fuga da una miseria atavica; miseria che non era rappresentata solo dalla fame, ma anche da una esigenza più diffusa, “psicologica” di nuovo benessere. Quei lavoratori, con le loro famiglie, che costituivano la metà della popolazione attiva fino agli anni 50 e che oggi è stimata appena intorno al 4-5 per cento. Per la mia storia familiare e personale, per le mie radici tra Langhe e Roero in Piemonte, ho avuto la fortuna di conoscere gli ultimi palpiti di quel mondo che è definitivamente collassato negli anni 60-70. 10974264_645406882231278_9114958146421260781_oForse per questa ragione ho sempre sentito sulla pelle la curiosità, se non l’obbligo, di saperne di più e di fare in modo anch’io che la memoria di tutta quella storia non andasse perduta. Ci sono stati altri che ne hanno fatto letteratura: da Pavese (La luna e i falò, Paesi tuoi), a Fenoglio (La malora, I racconti) e fino a un intellettuale come Nuto Revelli che, girando tutta la provincia di Cuneo con il magnetofono negli anni 70, ha dato la parola a quello che ha chiamato Il mondo dei vinti. E tanti altri – impossibile nominarli tutti – hanno fatto studi e ricerche salvando musiche, canti, balli, leggende, fiabe, dall’oblio di usanze e storie che avevano perso la loro necessità sociale. Qualcosa ho prodotto anch’io, raccogliendo le mie ricerche nel libro Orsi, spose e carnevali e poi lavorando anche nei romanzi sul tema della memoria: chi siamo e da dove arriviamo. Da un anno, con altri autori delle Langhe stiamo girando per il Piemonte con il Langhe di carta tour per parlare di questi temi. Ciò che resta, sono appunto quei frammenti che dicevo all’inizio: abbiamo raccolto le tessere di un grande puzzle. Ma qua e là, più o meno miracolosamente, c’è qualcosa che è sopravvissuto e quando capita di incontrarlo è sorprendente. 10959789_645407322231234_7975137409162581771_nCosì succede di incontrare uomini mascherati da orsi a carnevale in Valle di Susa che rimandano addirittura, forse, ad antichi rituali pagani e che hanno corrispettivi perfino tra certe popolazioni siberiane; oppure che per assistere ad alcune feste con la partecipazione corale di una comunità e ricche di colore come la Baìo di Sampeyre, occorra attendere la loro cadenza quinquennale; e che per vivere certi momenti più celati al grande pubblico, ci si debba inerpicare per disagevoli strade alpine d’inverno, fino a incontrare maschere demoniache che vi fanno mille dispetti. Alcuni di questi esempi non hanno mai cessato di esistere (sono i “relitti del naufragio”), altri invece sono tornati prepotentemente alla ribalta per iniziativa di intellettuali locali o di associazioni culturali, in un intento di riappropriazione e riaffermazione della propria identità. Ed è quest’ultimo un tema spinoso, di questi tempi, spesso sbandierato a sproposito. Identità non significa chiusura sociale, ma solo consapevolezza di chi siamo, contro l’omologazione culturale già denunciata tanti anni fa da Pasolini (e da Flaiano: “Fra 30 anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione”). 1622515_645407092231257_333186323824426787_oSolo su queste basi, al di fuori di improbabili e infondati rigurgiti “celtici”, “padani” o “romani” si può, come ho scritto nella Prefazione al mio libro citato: “osservare la realtà con lucidità, senza filtri e senza pregiudizi, […] un impegno intellettuale stimolante che va colto senza timore o impossibili nostalgie, ma senza dimenticare.”