Le parole inventate, bizzarre e assurde, del latino moderno del Vaticano

Le parole inventate, bizzarre e assurde, del latino moderno del Vaticano

Cambiare lingua o adeguarla ai tempi che cambiano? Per la Chiesa cattolica non c’è dubbio: la seconda. E allora fior di studiosi e specialisti si cimentano nell’invenzione in latino di parole moderne, con risultati stranissimi

“Apericena” non c’è ancora, ma ci arriveranno presto. Basta dare loro un po’ di tempo (tanto non hanno fretta: contano sull’eternità) e i lessicografi del Vaticano traducono o inventano in latino tutte le nuove parole in circolazione, per aggiornare la lingua – e, di conseguenza, la portata della religione cristiana – ai concetti della modernità.

Non è un lavoro facile ma è grazie a loro che la “colf” diventa ministra domestica, il “flirt” un amor levis e il “gol” una retis violatio. Si tratta di scegliere una parola, individuare il principale concetto sottostante e poi tentare una ridefinizione in latino, giusto per rendere l’idea. Parole nuove per concetti stranieri, più o meno come faceva Cicerone, che adorava creare e ricreare e odiava riprendere parole straniere, magari con una tinta di latino. Per cui “overdose” (che l’italiano ha ripreso paro paro dall’inglese) il latino la trasforma in immodica medicamenti stupefactivi iniectio.

Ma non è l’unica stranezza. Una parola semplice come “treno” diventa hamaxostichus, il “tè” è theāna pótio, il “caffè” cafaeum o potio cafaearia, “elettricità” diventa electrica vis, mentre il “pomodoro”, sconosciuto agli antichi, si trasforma (chissà perché) in lycopersicum. Non finisce qui: il latino moderno traduce “raccordo anulare” con orbitalis via viarum coniunctrix, il “panettone” in una impressionante Mediolanensis placenta, (il pandoro è solo panis aureus) la minigonna in una simpatica tunicula minima, il nylon è materia plastica nailonensis.

Certe cose di attualità, poi, dette in latino hanno tutta un’altra espressività. Il “neofascismo”, tanto evocato (anche troppo) nei mesi della passata campagna elettorale, per il Vaticano è renovātus fascalium motus. Appunto, motus, cioè movimento, o rivolta, rinnovati. Suona più inquietante, eh? Mentre la “’ndrangheta” è Bruttianorum praedōnum grex, cioè un gregge di predoni, pecoroni, pecoracce. Il latino, anche quando è moderno, è sempre preciso.

(Per scoprire altre parole, qui c’è tutto)

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La mappa della caccia alle streghe d’Europa

La mappa della caccia alle streghe d’Europa

Fu un fenomeno violento e repressivo che ebbe il suo picco nel XVII secolo. In particolare nella zona della Germania meridionale. Ma anche Danimarca e Inghilterra non scherzarono. I Paese cattolici, invece, furono molto più tolleranti

È una delle tante rimozioni storiche. Spesso i ricordi sfociano nella nebbia della leggenda, il grosso di dimentica, si finisce che se ne parla, ma senza dire molto. Eppure l’Europa del XVII secolo, in particolare la zona caratterizzata dalla Riforma protestante, si distinse per una guerra sanguinaria, continua e senza sosta: quella alle streghe.

Sia chiaro. La stregoneria ha ispirato diffidenza fin dall’antichità. Donne fattucchiere, capaci di utilizzare erbe e pozioni per curare e uccidere non sono mai piaciute. Ma mai si registrò un periodo di repressione più violento. Le stime degli storici si aggirano tra le 40mila e le 60mila streghe uccise nel corso di 50 anni. E, come mostra questa cartina che circola su Imgur, il centro della repressione fu la Germania meridionale.

La caccia alle streghe qui cominciò più tardi rispetto ad altre aree d’Europa. In Svizzera e in Francia, per fare un esempio, i processi alle fattucchiere erano cominciati già nel 1400, ma andarono avanti per diversi secoli. In Germania però la lotta fu molto più dura. L’apice fu raggiunto tra il 1561 e il 1670 e il più truce episodio avvenne nel 1563, a Wiesensteig, dove in una volta sola furono catturate, processate, condannate e bruciate 63 streghe.

Anche la Danimarca non scherzò: dopo la conversione al protestantesimo del 1536, e in particolare su impulso del re danese Cristiano IV, centinaia di persone vennero catturate e condannate per stregoneria. In Inghilterra, addirittura, si conosce il nome di uno dei più importanti cacciatori di streghe: Matthew Hopkins, che tra il 1644 e il 1647 riuscì a scovare e condannare ben 300 streghe. Hopkins, fiero del suo lavoro, lasciò anche un libro di memorie, in cui spiega i suoi metodi per riconoscere le streghe, tra cui il classico test dell’annegamento.

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Le streghe erano un problema: avevano facoltà soprannaturali sospette. Presto, per facilitare la persecuzione, si pensò che fossero emanazioni del demonio. Colpirle e condannarle divenne più semplice. In realtà i nuovi governanti avevano la necessità di sradicare le precedenti convinzioni nella popolazione. Oltre alla fede cattolica, andava eliminato anche il bagaglio culturale pagano che era sopravvissuto fino a quel periodo e che, con la Chiesa, era riuscito a tenersi in vita. Nei Paesi conroriformati, del resto, in cui l’autorità centrale religiosa non ebbe bisogno di riaffermare la propria forza, non ci fu nessuna caccia alle streghe.

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La storia del gatto che firmava progetti di ricerca di fisica

La storia del gatto che firmava progetti di ricerca di fisica

Non era uno scherzo: F. D. C. Willard, il gatto, risultò co-autore di almeno due studi. Il motivo? Aggirare alcune regole editoriali molto restrittive e assurde

Nel mondo dei fisici, il nome di F. D. C. Willard ispira rispetto e, al tempo stesso, risate. La ragione è semplice: il soggetto in questione, nel 1975, ha co-firmato un importante paper di ricerca sulla fisica a basse temperature, pubblicato sulla prestigiosa rivista Physical Review Letters. Questo spiega il rispetto. Il problema, però, è che F. D. C. Willard era un gatto. E questo spiega le risate.

Come è possibile? In tanti sono convinti che i felini siano più intelligenti degli esseri umani. E a volte è vero. Non sono ancora riusciti, però, a scrivere un paper accademico. E se F. D. C. Willard lo ha fatto è stato solo per una questione semi-burocratica. Lo racconta bene, in un libro, Jack H. Hetherington, l’altro autore dello studio.

“Prima che inviassi l’articolo, chiesi a un collega di dargli un’occhiata. “È un buon articolo, ma lo rifiuteranno”. La rivista aveva regole editoriali molto severe, tra cui quella della parola “noi”, che non poteva essere utilizzata per un articolo scritto da una persona sola”.

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A quel punto però riscrivere l’articolo, cambiando ogni volta il soggetto, avrebbe richiesto troppo tempo (e la scadenza era vicina). Lo scienziato ebbe allora una trovata geniale: inventarsi un co-autore, nella persona del suo gatto Chester. Un siamese pacioso, figlio di un certo Willard, del Colorado. Era fatta: Hetherington aggiunse F. D. (Felix Domesticus) all’iniziale del nome, C. e poi Willard come cognome. Inviò l’articolo e se lo trovò pubblicato.

Il gioco durò per un po’. Poi un giorno Hetherington ricevette una visita proprio in un giorno in cui era assente. Lo sfortunato visitatore, allora, non potendo incontrare lo studioso, chiese di conoscere Willard. E quando gli fu mostrato il gatto, capì tutto.

Willard divenne una piccola celebrità nel dipartimento. Partecipò a diverse riunioni e dibattiti e si guadagnò la simpatia di tutti. Fu giudicato molto “utile”, anche solo con la sua presenza. Addirittura, riuscì a firmare (stavolta da solo) un altro studio. Quando morì, a 14 anni, fu un lutto per tutta l’università. E in un certo senso, per tutto il mondo della ricerca.

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