Irma Panova Maino e il valore terapeutico della scrittura

Irma Panova Maino e il valore terapeutico della scrittura

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di Irma Panova Maino

Scrivere crea un senso di liberazione, di sollievo e diventa una vera “palestra” in cui sfogare tutte le energie, le frustrazioni e persino le delusioni.

Altrimenti perché mai si dovrebbe scrivere? A scuola impariamo l’arte della scrittura puramente a livello “tecnico”, prima a mettere insieme le lettere, scritte con bella mano, e poi a mettere insieme le parole, stando attenti a tutte le regole grammaticali che distinguono un testo comprensibile da uno poco leggibile. Tuttavia, nessuno insegna come esternare ciò che si ha dentro. Non esiste alcuna legge, suggerimento, elenco che possa fornire istruzioni adeguate sul valore dell’esternazione e su come questa possa essere effettuata. Soprattutto non sono segnalate le controindicazioni, anche se queste poi esistono con l’andare del tempo.

Spesso basterebbe mettere nero su bianco i propri pensieri per cogliere le soluzioni, per sciogliere i nodi e arrivare al nocciolo effettivo di una questione. Forse tanti dubbi e malintesi, soprattutto discussioni, non ci sarebbero nemmeno se solo si fosse perso un po’ di tempo nell’analizzare, per iscritto, i pensieri e le ipotesi. Forse, molta violenza verbale si esaurirebbe sopra un foglio di carta, anche se virtuale, lasciando lì la propria impronta e non sopra altri volti o altra carne.

Il forse, purtroppo, è d’obbligo, ma tant’è che molti autori (e loro lo sanno), utilizzano proprio la scrittura per eviscerare dall’anima tutta la negatività che li circonda, offrendo buoni spunti alla positività e alla speranza. Sono sogni, è vero, mere chimere che a volte possono produrre un effetto risonante piuttosto spiacevole, ma è il carattere dello scrittore che alla fine predomina e il suo stile, il suo bisogno di esprimersi, talvolta, resta tristemente legato al proprio scritto. Quindi, se da una parte è vero che nella maggior parte dei casi lo scrivere può calmare l’anima, dall’altra è anche vero che può diventare la fonte di altre paranoie, fornendo spunti ulteriori per estraniarsi dai rapporti sociali. Forse, per questo molti scrittori diventano esseri solitari, chiusi nei propri mondi immaginari, intrappolati fra trame e personaggi.

Provate a immaginare cosa accadrebbe se doveste svegliarvi e scoprire che siete stati catapultati in uno dei vostri libri…

Gli autori horror potrebbero iniziare a provare serie apprensioni, ma anche per altri generi non sarebbe così semplice uscire indenni dall’immaginario. Dunque, nei nostri scritti riversiamo ciò che il nostro subconscio elabora, creando altre realtà parallele e se questo da una parte ci libera dalla pesantezza dei pensieri, dall’altra frustra le aspettative, diventando, talvolta, un circolo vizioso, pronto per essere sfogato nel libro successivo.

Grazia Maria Francese e il valore terapeutico della scrittura

Grazia Maria Francese e il valore terapeutico della scrittura

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di Grazia Maria Francese

Miti, saghe, racconti

Quando un corpo di spedizione alieno atterrò sul nostro pianeta, svariate centinaia di migliaia di anni fa, per effettuare interventi di ingegneria genetica su alcune specie di scimmie, una delle principali modificazioni introdotte fu quella riguardante la conformazione della gola. Benché per sopravvivere bastasse comunicare con una gamma limitata di grugniti o squittii, gli Dei in carne e ossa che crearono l’Homo Sapiens lo resero capace di parlare.

Il linguaggio, inutile lusso dal punto evoluzionistico, per questo strano essere chiamato uomo è una vera necessità. Gli permette di effondere sentimenti, ricordi, aspirazioni, timori: tutte le complessità di una mente dotata di circonvoluzioni infinitamente più contorte rispetto a quella di un australopiteco. Se non potesse in alcun modo esprimere tutto questo, diventerebbe pazzo.

Per un’immensità di tempo gli antenati dell’uomo comunicarono a parole. Raccolti attorno al fuoco acceso in una grotta, si raccontavano la storia degli strani esseri discesi dal cielo su carri fiammeggianti: le loro imprese, le loro guerre, i loro amori e inimicizie. Quella fu l’origine del mito. Si raccontavano le vicende degli Dei che, poco a poco, coinvolgevano anche gli esseri da loro modificati a propria immagine: quella fu l’origine del racconto epico o della saga.

Ci vollero millenni perché le storie, anziché essere tramandate a voce, venissero trascritte. Questo passaggio da tradizione orale a parola scritta, che è proprio il tema del mio libro L’uomo dei corvi, fu una grande acquisizione e nello stesso tempo una perdita. Acquisizione perché lasciava spazio alla creatività dell’individuo, perdita perché lo svincolava dalla fedeltà a un modello portatore di memorie ancestrali della nostra razza. Trascrivere una storia può sembrare un modo di renderla meno soggettiva, perché la fissa in una forma stabile: in realtà però questa forma è filtrata attraverso il punto di vista di un solo individuo, che è necessariamente soggettivo e parziale.

Noi non possiamo più tornare indietro. Esistiamo in un mondo dove la parola scritta predomina, modella la comunicazione verbale, crea mondi. Possiamo solo cercare di accostarci alla scrittura con un senso di grande responsabilità: lasciare che prenda forma non da esigenze di mercato o da ambizioni di successo, ma dalla necessità di comunicare un contenuto. Possiamo solo usare questa fortuna, ammesso che sia una fortuna… se non c’è più nessuno raccolto ad ascoltare attorno al fuoco, che qualcuno (magari fra chissà quanto tempo) ci possa leggere!

Giancarlo Cobino e il valore terapeutico della scrittura

Giancarlo Cobino e il valore terapeutico della scrittura

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di Giancarlo Cobino

Non so perché i ricordi debbano sempre essere così ingombranti. Provo a spostarli ma non sfuggono, non arretrano. Talvolta deviano il corso dell’azione e li scorgo mentre, come un elastico, vanno e vengono. Non sono ricordi piacevoli e ciascuno di loro, ciascuno a modo proprio, scava un piccolo solco, dove lascia cadere dolore e tormento oppure soltanto angoscia. È un pezzo di vita. E non vuole abbandonarmi, non senza lasciare un piccolo graffio. Così lo guardo, quasi incredulo, e provo un certo rispetto. E vergogna insieme. Allungo un dito e ne sfioro i contorni, a tratti precisi a tratti confusi; chiudendo gli occhi, incuriosito eppure assalito dal timore, riesco a percepirne meglio la sostanza. È il dolore che pulsa, sotterraneo; provo a respirare e riempire i polmoni ma l’aria si interrompe a metà, strozzandomi il respiro in gola, che quasi credo di soffocare; tossisco con forza per espellere un corpo impreciso, che non vuole uscire, e intanto piego la schiena poggiando le mani alle gambe, spossato in una respirazione robusta.

Che fatica! Girando la testa lungo la stanza provo un senso di costrizione. Allora incrocio le braccia in una posizione innaturale, stropicciando i fogli, e penso che su questa scrivania c’è la vita e c’è la morte che, combinate insieme, provocano un disgusto che non avevo sperimentato prima. È sciocco, credo; sollevo l’angolo di un foglio bianco, scarabocchiato con segni che non so distinguere e sotto ne vedo un altro e uno ancora e ancora uno. Frenetico ne scorro a decine e sono tutti uguali, come se fossero stati fotocopiati; bagno la punta delle dita e scorro sempre più rapidamente; quando credo di aver finito, toccato il legno freddo della scrivania, ne vedo altri, a terra, impilati con ordine e forse ossessione. Scatto in piedi, angosciato, e corro a scorrerli: scarabocchi ovunque, forme geometriche, facce da pupazzo, giochi e strani percorsi che somigliano a labirinti in cui credo di perdermi, bocche fameliche aperte nell’istante precedente il fiero pasto.

Indurisco i muscoli del collo e di riflesso scatto all’indietro, spaventato da quello che vedo. Riconosco la mia mano in quei disegni e sento la necessità di tracciarne ancora, riempire gli spazi vuoti e lentamente far scomparire quel bianco che mi acceca. Afferro un pennarello rosso e, pigiando fino quasi a spezzarne la punta, abbozzo una linea che finisce in un cerchio; sollevo la punta e, abbassandola con delicatezza, traccio una stanghetta, una curva a uncino. Quasi senza rendermene conto vedo lettere e quindi parole, punteggiatura e pause, frasi e personaggi. È vita. È ricordo. È finalmente pace.

Andrea Leonelli e il valore terapeutico della scrittura

logo scritturaAndrea Leonelli e il valore terapeutico della scrittura

di Andrea Leonelli

Scrivere può salvare la vita? Sì. Per quel che mi riguarda è andata proprio così.
In un brutto periodo della mia vita ho riscoperto, dopo anni, il piacere (o il sollievo) che può dare la scrittura.
Spesso infatti esporre, o meglio trasporre, se stessi su carta (o su monitor) permette di estraniare dal sé interiore quelli che sono i problemi che creano conflitti. Si sa che, quando una qualsiasi cosa è troppo vicina, si rischia di non vederla quindi, portare “al di fuori” quei tumulti che si hanno dentro ci da la possibilità di riconoscerli meglio, di affrontarli da punti di vista diversi e di trovare soluzioni che, altrimenti, non si sarebbero potute trovate perché troppo coinvolti da quello che stiamo vivendo.
Lo stile che si sceglie nello scrivere e il tipo di risultato che ne viene fuori sono ininfluenti e, di solito, “non scelti coscientemente” ma sono semplicemente il risultato di inclinazioni personali, gusti, istinto e divengono semplicemente funzionali all’atto dell’esternare. In questo modo ho scritto alcune di quelle che sono, a parere mio, fra le mie poesie più intense.
Inoltre, questo estrarre dal proprio intimo i pesi che ci gravano, alleggerisce l’animo, permette di risalire dagli abissi in cui ci si trova e riprendere quelle boccate d’aria che, spesso, sono la chiave del salvarsi. Con l’animo più leggero, non accecati dallo sconforto, si riesce ad avere una visione più realistica di ciò che si ha intorno. Si può affrontare la vita con uno spirito più positivo.
Si potrebbe anche dire che scrivere le proprie intenzioni, simulare gli atti sulla carta, magari attribuendoli a un personaggio, ed è indifferente se sia un alter ego o una persona completamente diversa da chi scrive, ci consente anche di immaginare meglio le reazioni, del mondo circostante, a un qualsiasi evento. Ciò ci pone davanti agli occhi quelle che potrebbero essere conseguenze non immediate a gesti, parole o atti che pianifichiamo nell’immediato ma i cui strascichi potrebbero non apparirci subito chiari nella nostra mente. Dovendo descrivere infatti le interazioni fra i personaggi, questi “prendono vita” e ci rispondono, quasi in maniera autonoma, talvolta in modi inaspettati. Fatto che, lasciando le nostre idee rinchiuse solo nella nostra testa, potrebbe anche non accadere. Spesso ci si aprono davanti agli occhi scenari inattesi.
Potrei parlarvi anche più nel dettaglio della mia esperienza personale, di quanto sia l’esternare che l’alleggerirmi mi abbia aiutato. Potrei anche raccontarvi che lo scrivere i vari “come farei…”, in un racconto, mi abbia evitato di compiere azioni errate e deleterie, ma non credo che scendere troppo nei dettagli possa essere di ulteriore supporto a queste brevi riflessioni. Inoltre, diventerebbe uno spoiler su quanto sto già scrivendo per il mio prossimo libro, dal titolo ancora in bilico fra “Battiti” e “L’inferno dentro”.
Dunque, scrivere salva la vita? Rispondo nuovamente a questa domanda con un sempre più convinto SI.