Intervista ad Alessandro Cirillo

Intervista ad Alessandro Cirillo

nessuna sceltaNessuna scelta è un romanzo che ha il sapore delle spy story di una volta, in cui la trama definisce i buoni e i cattivi, lasciando l’onere agli eroi di salvare il mondo. Tuttavia, a differenza dei classici a cui siamo abituati, come Ian Fleming o Robert Ludlum, Alessandro Cirillo utilizza il suolo nostrano e protagonisti spiccatamente italiani per dare vita a scenari internazionali, che ben si accordano con la cronaca reale, di tutti i giorni. Dunque, il filone delle Action Stories all’italiana hanno trovato un degno rappresentante del genere.

  • Come nasce la passione per tutto ciò che è militare?

La passione è nata inspiegabilmente già quando frequentavo la scuola materna. Ricordo quando giocavo con le costruzioni insieme agli altri bambini. Mentre tutti realizzavano case, automobili o treni, io facevo pistole e fucili. Nel corso degli anni ho continuato ad interessarmi a questioni militari, ma il punto di svolta l’ho raggiunto quando ho letto il primo libro di Tom Clancy. Da lì ho iniziato a documentarmi più seriamente.

  • I tuoi due protagonisti, già visti in Attacco allo Stivale, sono ispirati da persone reali o sono frutto della tua fantasia?

Con la mia passione sarebbe stata naturale una carriera nelle forze armate. Purtroppo a causa di una lieve scoliosi sono stato riformato alla visita di leva. La delusione è stata forte ma l’interesse per le questioni militari non è mai scomparso. Uno dei miei due personaggi principali rappresenta in un certo senso l’uomo che avrei voluto diventare quando ero ragazzo. L’altro personaggio ha qualche tratto caratteriale del mio più caro amico.

  • L’ambientazione scelta è quella fra Afghanistan e Pakistan, quante ricerche hai dovuto svolgere per poterla rendere così realistica?

Scrivere action thriller non è una cosa facile, tutta la storia deve risultare il più credibile possibile. Prima di iniziare è necessaria una corposa fase preparatoria volta a raccogliere informazioni. La difficoltà raddoppia quando ci sono scene che si svolgono nel passato o in luoghi lontani da dove l’autore vive e in cui non ha mai messo piede. Al giorno d’oggi internet è sicuramente lo strumento essenziale per queste ricerche. Con Nessuna scelta ho provato a cimentarmi in un romanzo nello stile di Tom Clancy. Per farlo mi serviva una potenziale crisi internazionale. Dopo aver studiato diverse zone calde del mondo ho scelto l’Afghanistan e il Pakistan. Quest’ultimo è uno Stato con discrete capacità militari (nel libro ingigantite per scopi narrativi), possesso di armi nucleari e una situazioni politica abbastanza instabile. Le forze armate hanno un’influenza piuttosto forte nel Paese. In Afghanistan l’esercito nazionale è stato addestrato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, tra cui l’Italia. Nonostante i milioni di dollari spesi è ancora piuttosto debole. Molti soldati sono arruolati giusto per avere uno stipendio. Nel romanzo descrivo il modo in cui le truppe si sciolgono come neve al sole durante l’avanzata delle forze pachistane. Ripensando alla disfatta dell’esercito iracheno (addestrato sempre dagli occidentali) contro l’ISIS ho capito di non essere andato lontano da quello che succederebbe nella realtà.

  • Altrettanto realistiche sono le scene d’azione, molto visive. Come studi la descrizione?

Buona parte del merito va alle centinaia di film d’azione visti nel corso della mia vita. Nei miei libri ho però eliminato le esagerazioni hollywoodiane, come Rambo che uccide da solo un battaglione intero. Le mie scene d’azione si avvicinano il più possibile a come  si svolgerebbero nella realtà, che non sempre è fatta di movimenti limpidi e puliti. Per esempio, durante la scena finale di Attacco allo Stivale il protagonista Nicholas Caruso si trova a dover mordere il braccio del suo avversario per evitare di essere strangolato.

  • Molti pensano che l’Italia sia esentata da certe situazioni, ormai tristemente famose, come l’11 settembre. Tuttavia, diversi fatti dimostrano che non è così. Tu cosa ne pensi?

Nessuno può considerarsi al sicuro da attacchi terroristici. I servizi segreti e le forze dell’ordine fanno sicuramente un ottimo lavoro per cercare di prevenire queste situazioni, tuttavia, non possono essere ovunque e in qualsiasi momento. Io credo che il pericolo maggiore sia costituito dai cosiddetti “cani sciolti”, persone spesso non legate a nessun movimento terrorista. Non ci vuole nulla a entrare  con una pistola in un centro commerciale affollato e fare una strage.

  • Anche se i tuoi sono libri autoconclusivi, il filo conduttore dei due romanzi è uno solo. Pensi di proseguire su questo filone e avventurarti, sperimentando, in altri generi o sei affezionato alla spy story d’azione?

Sono troppo affezionato al genere spy story d’azione, per il momento non ho intenzione di abbandonarlo. Nel 2015 uscirà il mio terzo libro che ha come protagonisti ancora una volta Nicholas Caruso e Ruben Monteleone. Per questo romanzo ho lasciato perdere il terrorismo concentrandomi suoi collegamenti tra mafia e politica. Approfitto per ringraziare Giancarlo Ibba per avermi aiutato cesellare il testo e renderlo sicuramente più bello.

  • Gli ultimi fatti di cronaca rendono il tuo lavoro di capotreno un mestiere rischioso, almeno quanto quello dell’agente operativo. Che provvedimenti pensi potrebbero essere presi per prevenire avvenimenti vergognosi, come quelli presenti sui giornali, soprattutto nell’ultimo periodo?

Faccio il capotreno dal 2006 e da allora il fenomeno delle aggressioni al personale ferroviario è aumentato di anno in anno. Nel 2014 ci sono state già più di trecento aggressioni ai danni del personale delle ferrovie. Il mese scorso un capotreno in Sicilia è stato accoltellato a un polmone, un altro si è ritrovato con entrambi i polsi fratturati, mentre una collega è stata buttata giù dal treno (fermo per fortuna). Giusto qualche giorno fa ho dovuto gestire un tipo piuttosto aggressivo che voleva salire senza biglietto. La situazione si sta facendo drammatica. Per risolverla occorrerebbe un potenziamento della polizia ferroviaria e un inasprimento delle pene contro gli aggressori. Nella realtà succede, invece, che i posti di Polizia vengono chiusi, gli agenti ridotti e gli aggressori spesso non fanno neanche un giorno di carcere a causa di simpatici provvedimenti come l’indulto. Per cercare di difendermi da solo, da diversi anni ho scelto di praticare una disciplina di difesa personale di origine israeliana, il Krav maga.

  • Quanti libri riesci a leggere in un anno? E quali sono i tuoi autori/generi preferiti?

Mediamente riesco a leggere tra i quaranta e i cinquanta libri l’anno. Il mio genere preferito è ovviamente la spy story d’azione ma adoro anche il romanzo storico e i libri di storia militare. Tra gli autori che amo leggere, oltre a Tom Clancy, ci sono Patrick Robinson e Andy Mc Nab.

  • Quando Alessandro Cirillo non scrive come impiega il suo tempo?

Scrivere impiega buona parte del mio tempo libero. Oltre ai libri ci sono la cura del mio blog e la collaborazione con una rivista che opera nel settore militare. Fino a qualche tempo fa, oltre al Krav maga, giocavo anche a calcio e andavo a nuotare. Attualmente mi dedico solo alla difesa personale. Saltuariamente mi rilasso con il modellismo militare. Sono inoltre un grande appassionato di serie animate come i Simpson e i Griffin.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il mio progetto più immediato è quello di diventare papà, ormai mancano pochi mesi. Voglio anche continuare a scrivere, in lavorazione c’è un quarto libro che trae spunto da una controversa vicenda accaduta negli anni novanta.

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Intervista a Lory Cocconcelli

Intervista a Lory Cocconcelli

Il Continente Nero racchiude in sé le origini dell’umanità e della cultura, nonché le radici dei misteri che hanno costituito la base per il folclore che accomuna molti popoli. In questo saggio, Lory Cocconcelli affronta la magia africana con lo spirito neofita di chi approda in una terra ricca di colori, odori e suoni, e scopre come la tecnologia moderna possa serenamente convivere con rituali antichi come il tempo stesso. Ma non vi è contraddizione, solo la conservazione di superstizioni e pratiche che, a tutt’oggi, fanno parte della cultura quotidiana. L’autrice ha affrontato questo viaggio nella magia non solo da un punto di vista puramente folcloristico, ma anche ricercando, da vera studiosa, tutte quelle nozioni che avrebbero potuto avvalorare alcuni aspetti tipici delle credenze locali. Dunque, Africa è un libro in grado di avvicinare la mentalità europea a quella africana, offrendo punti di vista del tutto inaspettati.

  • Perché hai deciso di scrivere un saggio su questo argomento. Cosa ti ha spinta a farlo?

Ho deciso di scrivere questo saggio per portare alla luce alcuni aspetti poco conosciuti della cultura africana – anche se occorrerebbe parlare di culture dal momento che i popoli neri sono tanti e ognuno vanta le proprie tradizioni -. Aspetti che si possono scoprire soltanto vivendo sul territorio a stretto contatto con i locali e non come semplici turisti.
Noi occidentali vediamo l’Africa attraverso la lente distorta dei media che focalizza immancabilmente l’attenzione su malattie, arretratezza e povertà del continente. Ma c’è di più, molto di più. Mi riferisco a un universo culturale, etnico e religioso che vale la pena conoscere e approfondire perché l’uomo moderno – cioè noi – deve le sue origini proprio a questa area del mondo.
E’ stato durante il mio primo viaggio in Senegal che ho iniziato a raccogliere le testimonianze riportate nel libro, che focalizza sì l’attenzione sull’Africa occidentale, ma che rispecchia per i suoi contenuti quasi tutti i paesi del continente.
Il “la” mi è stato dato da un ragazzo burkinabé, conosciuto al Centro Culturale Francese di Dakar, assunto in seguito come body guard (figura della quale mi avvalgo ogni volta che soggiorno in Africa, quand il le faut…). Ebbene questo ragazzo, di fede animista, con i suoi racconti mirabolanti di streghe e stregoni, mi ha introdotta a poco a poco nel culto cardine, nelle tradizioni e nei costumi del continente nero.

  • In che modo sei venuta a conoscenza degli usi, costumi e tradizioni locali? E quali sono state le ricerche che hai fatto?

Vivo in Africa quattro mesi l’anno, buona parte dei quali trascorsi a contatto con gli africani.
Sono una persona curiosa per natura, mi piace immergermi nel contesto nel quale mi trovo. Credo che lo scambio sia molto importante. E’ grazie al dialogo con le persone che si possono instaurare rapporti, comprendere le diversità e arrivare a formulare considerazioni.
Nell’Africa occidentale ho sempre e soltanto vissuto nei “quartieri neri”, ciò significa niente asfalto, acqua e corrente che vanno e vengono, pasti cucinati da ristoratrici improvvisate e sabbia e galline e capre ovunque (nella parte orientale, in cui sono stata recentemente per evitare il virus ebola, mi sono concessa qualcosa in più).
Con gli africani ho anche lavorato, ho instaurato amicizie che durano a tutt’oggi. Senza quella condivisione, di spazio e di tempo, e senza la fiducia reciproca, non avrei raccolto le testimonianze che sono riportate nel libro perché certe cose, quelle di cui io parlo in alcuni passaggi, i neri non amano divulgarle. Diciamo pure che hanno un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di certi argomenti. Per questa ragione, il ragazzo burkinabé che mi ha introdotta nel mondo animista e aiutata a raccogliere testimonianze intervistando per mio conto marabouts e féticheurs, non ha voluto che il suo nome comparisse per esteso nel libro.
Per cultura, noi occidentali abbiamo la tendenza a razionalizzare, a incasellare le cose, i concetti e perfino le ideologie, laiche o religiose che siano. Io per prima, a un certo punto, mentre scrivevo la prima bozza del libro, non essendo un’accademica, ho sentito il bisogno di rapportarmi con le fonti cosiddette scientifiche. Ho trascorso vari mesi nella biblioteca universitaria di Dakar, cercando di dare un nome a ciò che mi veniva raccontato, di trovare riscontri, di comprendere come antropologi ed etnologi giustificassero le pratiche animiste e di come le avessero incasellate e classificate nel corso del tempo. Ne è uscito un quadro interessante che ha messo in risalto una certa dissonanza non soltanto tra il pensiero africano e quello europeo, ma anche tra gli stessi enunciati della scienza.

  • In che modo ti sei posta nei confronti delle tradizioni africane? Con l’occhio disilluso, cinico e disincantato degli occidentali o con un atteggiamento più aperto e più simile a quello naturale e quasi, se possiamo dirlo, più ingenuo delle popolazione con cui sei venuta a contatto?

 Ho cercato di liberarmi dei miei preconcetti – venendo da un’altra cultura era inevitabile che ne avessi -, di aprire la mente e di ascoltare. Penso di esserci riuscita. Quanto al cinismo e al disincanto, non ritengo siano atteggiamenti costruttivi quando ci si rapporta con le tradizioni di un popolo.
Devo dire, però, che certe convinzioni su cui fa perno l’animismo africano restano per me incondivisibili, pur avendone compreso i meccanismi. Comprendere non significa necessariamente aderire quanto piuttosto capire.
Ciò che sostengo con forza, qui e nel libro, è che il patrimonio culturale nero, non deve essere sminuito perché proprio di una parte del globo considerata arretrata. Esso racchiude in sé un universo di proporzioni strabilianti che, condivisibili o meno, sono espressione di tradizioni millenarie.
Dei popoli africani abbiamo una visione stereotipata che li vuole ignoranti, creduloni e arretrati. Se le classi dirigenti dei nostri paesi “evoluti” ci avessero deliberatamente privato dell’istruzione, saremmo certamente ignoranti anche noi, ma ciò non avrebbe influito sulla scelta della nostra appartenenza religiosa.

  • Quanto di quello che ti circondava ha influenzato il tuo modo di vivere e di vedere gli avvenimenti quotidiani?

Dagli africani ho imparato ad affrontare la vita con un pizzico di scioltezza in più, a cogliere il lato migliore delle cose, a vivere il tempo senza rincorrerlo. Il nero è pigro, si muove con i suoi tempi. Accogliente, vitale e ottimista, conserva una sorta di purezza che noi occidentali abbiamo perduto. Non è mai bene generalizzare quando si parla di un popolo – sarebbe come definire gli italiani una manica di mafiosi truffaldini o affermare che tra i neri non ci sono persone dinamiche, false o disoneste – ma qualche tratto comune, dopo vari anni trascorsi in diversi paesi dell’Africa, posso permettermi di delinearlo. Faccio riferimento, ovviamente, all’africano del popolo, non al politico o al businessman (che fanno parte di una categoria a sé).
Quanto all’animismo di cui ho scritto, non credo che abbia influenzato il mio modo di vivere o di vedere gli avvenimenti quotidiani. Non porto un amuleto, e quando sono in Africa e ho un problema di salute non consulto un guaritore ma un medico, non per sfiducia ma perché i nostri farmaci e i nostri metodi diagnostici (quasi sempre) sono più rapidi ed efficaci. Riguardo streghe e féticheurs, il loro operato è testimoniato dalla sentenze delle Corti Penali dei tribunali africani, ma io non sono mai stata interessata a testare di persona i loro cosiddetti poteri. Lascio all’Africa ciò che è dell’Africa. Se il mio compagno dovesse lasciarmi, non ricorrerei di certo a un sortilegio per farlo tornare da me.
Ciò in cui io credo, e in cui ho sempre creduto, non è mutato. Semmai, ora, ha confini più ampi.

  • Come vivi i tuoi periodici addii alle radici occidentali e a quelli delle nuove radici africane?

Un poeta scrisse “partire è un po’ morire”. Metafora un tantino drammatica.
Direi che mi si addice di più “Chi viaggia vive la sua vita due volte”.
Per quanto mi riguarda, parto per l’Africa ogni volta con entusiasmo pensando a ciò che mi attende e rientro felice, con il desiderio di riabbracciare i miei affetti.
In una vita precedente devo essere stata una nomade!
Scherzi a parte, quando lascio l’Italia mi allontano dai miei cari, mi privo delle mie abitudini e delle piccole cose che mi sono famigliari ma è per andare in un luogo che mi piace, che desta in me un vivo interesse, che mi sazia di sole, sorrisi, paesaggi, odori e colori.
Gli addii li vivo molto serenamente.

  • Tu soffri il famoso mal d’Africa divenuto popolare attraverso le pagine di Karen Blixen?

Tra tutti i paesi in cui sono stata, quelli africani sono quelli che mi hanno regalato le emozioni più forti. Forse è per questo che amo tanto l’Africa. Non manco di realismo, però, e non posso non sottolineare che nella sua immensa bellezza sa anche essere molto dura e mostrarsi, talvolta, un concentrato di molti mali (per dirla alla Thomas Sankara).
Ma veniamo a Karen Blixen. L’autrice ambientava il suo libro in un’area ben precisa del continente, l’altipiano del Ngong. Le descrizioni dei paesaggi, peraltro superbe, dei tramonti, degli animali selvaggi non rispecchiano l’Africa intera, come pensa chi non c’è mai stato, ma riguardano quei luoghi in particolare. Luoghi bellissimi, che io ho visitato, ma che non possono far insorgere un generico “mal d’Africa” quanto piuttosto uno specifico “mal di Kenya”. La Blixen, con la sua visione romantica, ammantava la “sua Africa” di pace e purezza; la realtà è un po’ meno dorata.
Gli africani che non arrivano a mangiare due volte al giorno o a pagarsi le cure mediche non soffrono il mal d’Africa. “Male” che insorge nelle persone mediamente agiate, nei turisti o nei viaggiatori che non sono costretti a subire ingiustizie e povertà, e che preferiscono il continente nero ad altri luoghi per una serie di motivi che io comprendo bene e condivido.

  • C’è qualche episodio particolare, fra tutte le esperienze che hai vissuto, che ti ha colpito maggiormente?

Gli episodi sono vari…
Un soldato dell’esercito che, dopo aver fatto inginocchiare un nero, colpevole di aver tentato una rapina ai danni di un Casinò, gli spara un proiettile in testa, alle cinque del pomeriggio, sul ciglio della strada di fronte al supermercato dal quale sto uscendo.
Un giardiniere (africano) che viene ferito nel corso di una rapina a mano armata nella villa di un facoltoso inglese per il quale lavora, che si rifugia, terrorizzato, nel Resort confinante scavalcando il muro di cinta, dove io ho appena finito di cenare. Il manager della struttura, un italiano, si rivolge a lui urlando: “Stai sanguinando cazzo! Mi sporchi il pavimento della reception, almeno vai sull’erba, stronzo!”
Gatti randagi coccolati da turisti di varie nazionalità, rimpinzati di biscotti sulla spiaggia, mentre bambini malnutriti osservano la scena.
Un bambino che, a distanza di tre anni, viene a stringermi la mano per ringraziarmi di un pallone che gli avevo regalato e di una letterina che gli avevo scritto, e che mi dice di conservarla ancora.
Un féticheur che vuole farmi bere una pozione magica come segno di benvenuto e si incaz.. di brutto quando rifiuto, e il mio body guard che sbianca letteralmente!

  • Come il folklore africano si inserisce nel contesto del terzo millennio?

Le nuove generazioni “urbanizzate” indossano t-shirt di Dolce e Gabbana (un must have), jeans e cappellini da rapper, ma sotto i loro abiti non è difficile veder spuntare un talismano.
L’Africa delle grandi città, ma anche quella degli agglomerati minori in cui i neri vivono a contatto con i bianchi, è un potpourri bizzarro; gli occidentali vogliono trovare tutto ciò che sta a casa loro, comfort, abbigliamento di tendenza, tecnologia, centri commerciali,… ed è fisiologico che i locali assimilino qualcosa di tutto ciò che si vedono passare sotto il naso. Mi è capitato di vedere musulmani in boubou che indossavano scarpe da ginnastica da cestista; Masai, con il loro abito tradizionale e la classica tanica di sangue tra le mani, fotografarsi a vicenda davanti al pupazzo di Babbo Natale; donne anziane a petto nudo (in Africa a una certa età è concesso e nessuno si scandalizza) offrire banane a turiste esterrefatte.
Diversa è invece la situazione nei villaggi remoti, meno (o per niente) contaminati dalla modernità e dal contatto con altre culture.
Il folklore è parte integrante della cultura di un popolo e ritengo che dovrebbe essere preservato. La globalizzazione mica si può divorare anche quello!

  • Quando Lory non scrive come occupa il suo tempo?

Se parliamo del mio tempo libero, quando non scrivo leggo (cosa, dipende dal mio stato d’animo o dall’interesse del momento), faccio attività fisica (se non mi muovo, sono come un leone in gabbia!) e ascolto musica (prevalentemente reggae e R&B). In cucina sono un disastro anche se mangiare mi piace molto… cibo italiano, africano, messicano, thai e indiano, soprattutto. Non sono molto mondana ma qualche seratona, in Italia come in Africa, me la concedo, adoro ballare!

  • Quali sono i tuoi progetti futuri sia in campo letterario che personale?

Per ciò che attiene al campo letterario, sto già lavorando a un secondo libro, sempre sull’Africa. Sono racconti brevi, di sapore naif, simili a quello della “Donna serpente” che apre il saggio. Vicende di stregoneria e storie macabre, sospese tra la leggenda e la realtà.
Per ciò che attiene al campo personale, ho un progetto ambizioso: trovare uno stregone potente che riporti in vita Bob Marley!

Jere jef (grazie)

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Intervista ad Andrea Tavernati

Intervista ad Andrea Tavernati.

l'intima essenzaUna forma d’arte antica, l’Haiku, che racchiude il cuore e l’anima di ogni istante, descrivendolo in poche sillabe. Un genere che potrebbe sembrare adatto ai nostri tempi moderni ma che, al contrario, incarna un invito alla riflessione e a considerare delle tempistiche che si discostano molto dalla frenesia odierna. Andrea Tavernati, autore del libro pluripremiato “L’intima Essenza”, espone in questa intervista i suoi punti di vista, in più parole di quelle che caratterizzano la stringente metrica dei suoi haiku, su argomenti che riguardano non solo la poesia.

  • Coma nasce la tua passione per questo tipo di composizioni?

In realtà molto lentamente. Mi sono imbattuto in questo genere poetico già durante l’adolescenza e mi ha incuriosito per la sua peculiarità. A quell’epoca risalgono i primi esperimenti. Poi mi sono progressivamente ritrovato a comporne in modo via via più sistematico, ma ancora oggi alterno momenti più “ispirati” a lunghi periodi durante i quali non scrivo neanche un haiku, o meglio non sono attraversato dal vento degli haiku, perché sono sempre più convinto che la volontà individuale in questo caso non conti davvero molto.

  • Quanto tempo ti richiede la stesura di uno dei tuoi haiku?

E’ molto variabile. Parto da un’intuizione, un’immagine, una sensazione o una sola parola. L’haiku si condensa intorno a questo nucleo iniziale. Talvolta in modo fulmineo. Altre volte l’idea mi naviga in testa per settimane o mesi senza prendere una direzione precisa; talvolta me ne dimentico e poi riaffiora da sola, senza una ragione precisa. Poi, quando la struttura dell’haiku è abbastanza ben definita, entra in gioco un lavorio più formale per ottenere il suono più adatto, i significati più precisi e l’andamento più consono all’emozione che cerco di esprimere. Ma in genere quest’ultima fase si sviluppa abbastanza rapidamente.

  • Che intervallo di tempo copre l’Intima Essenza, quanti anni di vita ci sono dentro?

Potrei dire tranquillamente che c’è dentro tutta la mia vita, anche perché non è una biografia esteriore, ma interiore. I fatti dell’animo hanno un tempo loro, campiture lente e improvvise accelerazioni che, in superficie, nella vita esteriore, a volte si rifrangono all’improvviso in avvenimenti irrazionali, che, agli occhi altrui, rimangono incomprensibili. Mentre nel sottosuolo dell’interiore vivono una realtà autonoma di cui la manifestazione poetica è una piccola spia, una presa di coscienza che chi scrive attua su se stesso con intento maieutico. Scrivere è, prima di tutto, un modo per interrogarsi e provare a capirsi.

  • Sei appassionato dell’oriente in genere o solo di questo tipo di forma espressiva?

Non sono un esperto di cultura orientale e non sono arrivato all’haiku per questo motivo. Al contrario, approfondendo le ragioni espressive e storiche dell’haiku ho scoperto un universo culturale diverso dal nostro e molto stimolante, che sto ancora imparando a conoscere, confrontandolo con le mie radici europee.

  • Fra le tue altre passioni c’è senz’altro l’arte, cosa ti affascina e ti spinge a cercare di capirla?

Provo da sempre uno straordinario interesse per tutte le forme di comunicazione che non hanno una finalità pratica, ma che si pongono come un tentativo di comprendere ed esprimere l’uomo e il suo rapporto con il mondo. Le arti figurative nel loro insieme e la musica sono esperienze complesse, al pari con le opere letterarie, e nelle loro manifestazioni più alte costituiscono la sintesi di un modo di essere e vivere. Mi interessano i grandi progetti, le visioni e le rivoluzioni che hanno cambiato e cambiano per sempre il modo in cui l’uomo pensa se stesso. Il Rinascimento artistico inventato da un manipolo di geniali artefici a Firenze, l’immenso edificio armonico di Bach, l’instancabile indagine sul percepire/sentire di Monet, la rivoluzione del vedere di Caravaggio, per esempio…

  • Tu che sei un pubblicitario, come vedi la possibilità, per un esordiente, di farsi conoscere a un pubblico abbastanza vasto?

La strada è tutta in salita! L’offerta di autori, anche di qualità, eccede notevolmente la domanda di un pubblico che legge sempre meno e sempre peggio. Quello da affrontare è un lavoro lento e continuo che l’autore non può più pensare di demandare completamente al ruolo dell’editore. Ogni occasione per incrementare la propria awareness, la propria notorietà, come dicono i pubblicitari, deve essere sfruttata. In questo senso il mondo digitale offre una costellazione quasi illimitata di opportunità a costo zero, o bassissimo, che l’autore può affrontare anche autonomamente. Non ci si deve aspettare però risultati fulminei o eclatanti. Anche il digitale è affollatissimo di voci e discernere la qualità vera non è facile. Occorre non perdere la pazienza e insistere essendo ben coscienti che non c’è nulla di scontato né di dovuto.

  • Qual è la tua opinione sul mondo editoriale attuale?

Prima di tutto, riallacciandomi alla domanda precedente, ritengo che il ruolo dell’editore sia ancora fondamentale, in quanto talent scout e promotore della conoscenza di un autore. Se può nascere qualcosa di buono, è dalla collaborazione tra autore ed editore. L’editore deve credere in quello che pubblica e l’autore non deve pretendere che il compito di promuoverlo sia solo affare dell’editore. Personalmente penso anche che l’editore debba svolgere un ruolo fondamentale come selettore all’ingresso: insomma deve poter dire di no su basi puramente qualitative, per quanto soggettive. Di conseguenza non credo nell’editoria a pagamento e nemmeno nel cosiddetto self publishing: una scorciatoia che ignora il vero problema, il quale non è come ritrovarsi tra le mani un prodotto stampato o stampabile on demand, bensì: cosa farne?
Quanto poi all’altra novità dei tempi, penso che la cosiddetta rivoluzione digitale sia inarrestabile, anche nel mondo dell’editoria. Il che non vuol dire che l’ebook sostituirà completamente il libro cartaceo, ma che le due forme convivranno, così come usiamo quotidianamente il computer, il tablet e la buona vecchia penna a sfera. Tuttavia i vantaggi pratici del digitale sono così evidenti che è ora che i legislatori e i grandi player nel mercato dell’editoria cavalchino il nuovo invece di contrastarlo.

  • Hai partecipato a diversi concorsi letterari sempre con ottimi risultati, cosa pensi del mondo dei concorsi e qual è, secondo te, la loro utilità per un poeta?

Per uno scrittore esordiente è un modo come un altro per farsi leggere e per capire se qualcuno nota del buono in quello che scrivi. Come è noto l’Italia è il paese dei concorsi e ce n’è veramente per tutti i gusti (letterari). Quelli davvero prestigiosi sono però pochissimi e in questi il ruolo delle grandi case editrici è importante. Il resto è un universo vario e a tratti pittoresco. Purtroppo i concorsi completamente gratuiti sono sempre meno, ma il contributo richiesto è per lo più minimo. Quanto agli esiti che si ottengono, penso che l’atteggiamento giusto sia quello di rallegrarsi per le vittorie e non farsi troppe domande per le sconfitte: i criteri decisionali delle giurie sono imponderabili ed imperscrutabili, oltre che inevitabilmente soggettivi.
Concludo che non bisogna neanche aspettarsi ricadute significative quando si vince: nessuno mi ha mai contattato per dar seguito al riconoscimento con qualche ulteriore iniziativa, fosse anche scrivere un articolo. Insomma, i concorsi possono far bene al morale e fanno curriculum.
Punto e a capo.

  • Cosa fa Andrea Tavernati quando non scrive?

Sarebbe più giusto chiedere quando riesco a trovare il tempo anche di scrivere! Come hai detto, di mestiere faccio il creativo pubblicitario e quindi passo buona parte della mia settimana sul posto di lavoro. Essendo copywriter per fortuna il mio lavoro ha sempre a che fare con la scrittura e la comunicazione: un ottimo esercizio quotidiano. Poi ho una famiglia, collaboro con la Casa della Poesia di Como e con altre due associazioni culturali locali. Infine, leggo. Occupazione non secondaria per chi ama scrivere.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il cantiere è sempre aperto: attualmente ho nel cassetto una raccolta di racconti inediti, che mi sono convinto, dopo lunghi ripensamenti, essere pronta per una eventuale pubblicazione. Poi sto mettendo a punto una raccolta di poesie più “classiche”, che mi pare a buon punto e nel 2015 vorrei continuare il progetto di un romanzo mainstream di ampio respiro rimasto a livello di abbozzo negli anni ’90 e che ho ripreso in mano solo l’anno scorso.

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Video intervista a Mario Nejrotti

“Il piede sopra il cuore”. Intervista all’autore Mario Nejrotti

Torino Medica, nella propria rubrica Video Medica, ospita lo scrittore Mario Nejrotti, presentando il suo ultimo libro Il piede sopra il cuore, romanzo storico ambientato nel periodo della seconda guerra mondiale. Vi ricordiamo che Mario Nejrotti sarà presente questa sera (18 dicembre) alle 21, presso la Libreria A-Zeta di Via Saluzzo 44 a Torino.

 

Biografia dell’autore:

Mario Nejrotti, nato a Torino il 27 febbraio 1950, è medico di famiglia, giornalista e direttore responsabile del giornale Torino Medica e del portale www.torinomedica.com

Ha scritto alcuni testi scientifici e alcuni racconti.

La trama:

Sicilia, 1943: mentre gli Alleati sbarcano in Sicilia, la mafia si prepara ad essere protagonista dei nuovi scenari politici del dopoguerra collaborando con gli americani e cercando di insediare i suoi uomini ai posti di potere, mentre cerca di trarre ancora tutti i guadagni possibili dalla borsa nera e dalle connivenze con il fascismo, che ormai sferra gli ultimi colpi di coda. Le persone integre, quelle che rifiutano la collusione, vengono eliminate senza pietà: è il caso del professor Di Salvo, che muore in un attentato in cui è sterminata anche la sua famiglia. Per un caso fortuito, si salverà soltanto il piccolo Santino, che resta solo al mondo. Ma un personaggio molto singolare entrerà in gioco per prendersi cura di lui. Questo romanzo, dove è protagonista la “piccola storia” quotidiana delle persone, che scorre a fianco della Grande Storia, conduce anche a una riflessione più intima e profonda sul significato della libertà, della responsabilità, della giustizia, della comprensione e, in definitiva, della difficoltà e della grandezza di essere uomini.

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Intervista a Franco Pulcini

Intervista a Franco Pulcini

il maltempo dell'amoreLa trama di “Il maltempo dell’amore” catapulta immediatamente il lettore all’interno della storia, catturandone l’attenzione al punto da costringerlo a proseguire fino alla fine. Lo stile fluido, scanzonato, semplicemente ricercato, crea la giusta atmosfera per porre dei personaggi su una barca e trascinarli per mare, in mezzo alle più disparate avventure e disastri. Fra un cambio di rotta e un approdo, la storia s’intreccia e s’infittisce portando i protagonisti a vivere una spy story indimenticabile, in cui la drammaticità è spesso stemperata dall’ironia e dalle caricature con cui Franco Pulcini dipinge determinati ruoli per gli avversari.

  • Come nasce l’idea di utilizzare il mondo marittimo per ambientare una storia?

La scrittura non è nuova alle storie di mare. Si sa che i comportamenti di marinai e capitani sono spesso sbrigativi, per non dire brutali. Per mare non c’è tempo per i complimenti, come in un salotto. Il mare è solitudine, sopravvivenza. Di qui l’idea di una resa dei conti fra due amanti in via di separazione, entrambi con un brutto carattere. Sono due che si amano e si detestano. Li ho imbarcati, e poi loro – tu sei una brava scrittrice, e lo sai meglio di me – han fatto tutto da soli…

  • Tenendo conto del linguaggio tecnico e ricercato, quanto Franco Pulcini è in realtà un amante del mare e della vela?

Sono velista e amante del mare, anche perché un po’ misantropo. Ho un amico editore che mi ha spiegato che i lettori hanno piacere di imparare cose leggendo una storia. Così, mentre i miei due innamorati-nemici si strapazzano, i lettori fanno anche un piccolo corso teorico di vela e navigazione, senza il pericolo di bagnarsi o di essere insultati dagli istruttori di Caprera o della Lega navale.

  • I tuoi personaggi si trovano sempre sopra le righe, non fanno mai quello che il lettore si aspetta e non si possono considerare come delle “normali” figure letterarie. Chi e che cosa ha ispirato questa scelta?

Beh, non mi piacciono le persone troppo normali… Loro sono due pazzi scriteriati in preda a una pericolosa esaltazione narcisistica. Però, proprio perché personaggi ‘estremi’, posti in una situazione ‘estrema’, se non letterari, divengono quanto meno cinematografici. So che un mondo di ricchi capricciosi, messi a confronto tra loro, può anche non piacere, ma per chi scrive cercare di rendere interessanti personaggi detestabili di primo acchito è una sfida che ti aguzza l’ingegno.

  • In uno dei commenti che ti sono stati rivolti vieni paragonato a Moravia o a Kundera, ti ritrovi con questi accostamenti o ti senti più affine a qualche altro scrittore?

Mi vergogno un po’ a dirlo, ma, sebbene abbia letto molto Kundera, non ho mai letto Moravia. Io non sono un grande lettore, e francamente non saprei dire a chi assomiglio. A me piacerebbe scrivere con la profondità di Jonathan Franzen. Una mezza pagina di Alice Munro mi fa venire voglia di lasciar perdere la scrittura. Ho adorato scrittori tosti e ossessivi come Elfriede Jelinek e Thomas Bernhard. Fra gli autori di EEE, ammiro molto Paolo Ferruccio Cuniberti. Ma non credo di assomigliare a nessuno dei citati. Mi scappa sempre qualche sarcasmo di troppo. Non prendo la vita abbastanza sul serio.

  • La passione veleggia per tutta la storia, portando venti di burrasca in ogni incontro/scontro fra René ed Ede. Una tematica romantica che ben si adatterebbe anche a una scrittura femminile. Come affronta il “rosa” uno scrittore di sesso maschile?

Gli uomini, sui sentimenti, sono spesso debolucci. Vanno appena un po’ meglio con le passioni. Ma anche qui, quelle secchione delle donne li sbaragliano. La mia storia d’amore è al limite con l’attrazione fatale. Il suo nucleo si fonda però su di un archetipo diverso: l’uomo arcaico che infuria per la difesa della donna, indipendentemente dal fatto che l’ami o la detesti. Inoltre la vuole strappare al rivale. Roba da uomini. Che però può piacere anche a donne stufe del rosa sospiroso e avide di mitologia.

  • Quale dei personaggi del tuo libro si avvicina di più allo scrittore? Ovvero, quale dei personaggi da te descritti, raccoglie in sé parte del tuo carattere e del tuo modo di vedere la vita?

Evidentemente il protagonista, in forma di proiezione di desideri. E non alludo al fatto che mi piacerebbe essere quel che non sono (giovane, bello, milionario, impavido velista), ma perché la finzione narrativa è l’unico luogo in cui puoi uccidere. Da bambino ho sognato molto spesso di uccidere per autodifesa. Poi ho smesso, ma qualcosa deve essere rimasto. Il versante saggio della mia natura è però incarnato dalla nonna di Ede, alla quale vanno anche le simpatie di diversi lettori, oltre che la mia.

  • Sappiamo che sei un grande appassionato di musica. E la musica, in quanto ritmica, fa parte di ogni cosa della vita, a partire dal battito del cuore per finire al nostro muoversi negli spazi. Quanto conta il giusto “ritmo” nella stesura della trama di un romanzo?

I suoni delle parole sono parte integrante del loro vero significato. La lunghezza dei periodi deve avere varietà. La ricchezza del linguaggio è simile a quella dei suoni e dei suoi impasti. La punteggiatura segue i respiri della lettura e gli ingombri nella mente. Gli spazi della narrativa devono essere precisi. Scrivere un periodo è come ammobiliare una stanza di frasi. Ci dobbiamo sempre dare una forma, magari per trasgredirla. Anche la prosa ha una sua metrica, come la poesia. Chiunque desideri scrivere bene usa metri e versi nascosti. Spesso irregolari, ma attentamente costruiti e ben rifiniti. La scrittura è poliritmica, perché con una mano battono il tempo i significati e con l’altra lo batte il suono delle parole.

  • Quali sono state le difficoltà che hai potuto riscontrare nello scrivere il tuo libro? E quali sono state le tue impressioni in merito all’odierno mondo editoriale?

Non credo di avere avuto difficoltà nello scrivere il mio libro, a parte il fatto che in origine aveva una continuazione diversa ed era molto più breve. Quando l’ho riscritto, ho tagliato alcune parti e una coda di una cinquantina di pagine, che avrei anche potuto lasciare con qualche aggiustatura. È curioso che alcuni lettori si chiedano cosa hanno fatto dopo i protagonisti: io lo so. Uno mi ha anche chiesto di leggere la continuazione tagliata, ma io non gliel’ho data perché non è del tutto coerente con la storia come è ora.

Penso che l’editoria attuale debba puntare sui long-seller, perché un e-book può restare in catalogo per anni finché qualcuno si accorga che è bello, se lo è… Spero che venga presto il momento in cui ci siano in giro meno instant-books, cartacei effimeri di televisivi, politici, giornalisti, persone famose, e più e-books molto meditati e ben rifiniti di aspiranti scrittori che se la giocano tra loro a chi è più bravo sulla distanza. Un collega che presentò un mio saggio esordì al Salone del libro di Torino del ’93 dicendo: “io non ce l’ho con i politici perché sono intriganti, bugiardi e disonesti, o perché mandano in rovina il paese, che tanto ci andrebbe comunque, MA PERCHE’ SCRIVONO LIBRI!!!!”

  • Quando Franco Pulcini non scrive, come occupa il proprio tempo?

Mi guadagno da vivere, tanto come insegnante al Conservatorio, quanto come esperto di storia della musica e drammaturgia alla Scala. Poi faccio il musicologo e vengo chiamato per scritti e conferenze su quegli autori di cui sono esperto, come Janacek e Sostakovic. Vado al mare e in montagna con mia moglie. Mi dedico alla casa. Viaggio poco. Potrei anche evitare di scrivere romanzi, ma per ora non mi riesce ancora.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Se alludi ai progetti letterari, è appena uscito per EEE il mio primo romanzo “Lei è una grande”, rimasto per anni inedito, con la storia di un diciassettenne degli anni sessanta che viene cazziato dalla madre perché a lui piacciono, come dice il titolo, le donne grandi d’età. Non è un noir-rosa-giallo come “Il maltempo dell’amore”, ma un romanzo normale (si fa per dire…). Ne sto scrivendo un terzo, ma sono solo a metà: questo è un ‘giallo con indagine’ di ambientazione musicale: diciamo che è un viaggio nell’inferno del teatro lirico dietro il sipario. Il mio mondo, ancor più della vela.

 

Intervista a Massimo Licari

Intervista a Massimo Licari

quando gli dei tornerannoPartendo dalle teorie di Sitchin, Massimo Licari ricostruisce un passato che si affaccia su un presente in cui nulla pare cambiato. In cui la storia, con il suo ciclico ripetersi, riflette le miserie e le follie di un’umanità restia a trarre un insegnamento dai propri errori. Potere, corruzione e fanatismo sono ancora alla base di una possibile distruzione del genere umano e, forse, questa volta non vi sarà l’amorevole mano di un Dio a salvarci.

  • Da dove hai preso spunto per una trama così particolare?

Caspita, che bella introduzione!
Potresti fare una recensione al mio libro, che ne pensi?
Dai, faccio il serio.
L’idea di “Quando gli dei torneranno” è partita da uno spunto che mi ha dato un caro amico. Mi stava raccontando di un gruppo di persone che ha deciso di vivere al di fuori della nostra società. Queste persone hanno creato una sorta di comune all’interno della quale sono liberi di professare la loro fede cercando nel contempo di vivere in armonia con la natura. C’è un tempio e, come tutte le forme di religiosità poco conosciute, si racconta che i propri membri pratichino alcuni riti misteriosi. Inizialmente, infatti, il titolo del libro al quale avevo pensato era “La congregazione”.
Poi, quando l’ho fatto leggere al gruppo di Lettura Incrociata (servizio preziosissimo, di grande aiuto per me. Grazie ragazzi!) mi hanno fatto notare che nel libro il termine “la congregazione” non era mai stato usato. A quel punto è cominciata la parte più difficile: trovare il titolo del libro.

  • I personaggi sono lontani dai classici stereotipi dell’eroe, perché questa scelta di stile?

Perché gli eroi mi annoiano.
Io credo che sia più facile immedesimarsi nella persona comune piuttosto che nel personaggio che, senza paura, è capace di affrontare e sbaragliare i “nemici”. La domanda che spesso mi sono fatto è: ma cosa farei io se mi trovassi in quella situazione?
Certo, l’eroe ci esalta, ci emoziona, ma trovo che sia molto lontano dal nostro modo di affrontare le situazioni. Quindi, com’era successo per “Paralleli”, il mio primo libro, ho disegnato un protagonista decisamente “normale”.

  • Quanto studio o ricerca hai dovuto svolgere per documentarti?

Grandi ricerche e notti intere senza riuscire a chiudere occhio.
Forte, vero?
Non è vero…
Ho letto diversi libri di Sitchin e per tanti anni sono stato uno studioso dei testi biblici. Diciamo che ho attinto molto dal bagaglio che mi porto dietro. Poi, ovviamente, ho fatto anche delle ricerche puntuali su alcuni aspetti specifici. Quando nel libro ho affrontato il racconto del diluvio universale, ho cercato di renderlo verosimile, facendo delle ricerche sui luoghi e sulle loro caratteristiche.
Ma sono stato anche aiutato.
Pensavo che la fascia di asteroidi che c’è tra Marte e Giove fosse un luogo difficilissimo da attraversare per il rischio di colpirne qualcuno. E così l’avevo descritto. Ma poi qualcuno (grazie Gianluca Santeramo) mi ha fatto notare che nella realtà si potrebbe attraversare la fascia senza incontrarne nemmeno uno!
Così mi sono documentato e ho dovuto riscrivere quel capitolo.

  • Quale delle tre teorie “creazionistiche” (biblica, evoluzionistica, genetica) pensi sia quella che più si avvicina al tuo modo di vedere sia l’oggi che il domani?

Nessuna delle tre. O forse tutte e tre.
Insomma, è un discorso molto, forse troppo, profondo per essere affrontato così. Se un giorno scriverò la mia autobiografia…
Scherzi a parte, la mia visione della vita si avvicina molto (anche se non è molto aderente) alla filosofia buddista. Amo definirmi un “libero pensatore”, perché sono un sincretista convinto.

  • Le teorie di Sitchin sono rivoluzionarie e sono abbracciate da molti perché spiegano quesiti a cui altre teorie lasciano delle lacune. Quanto di questa filosofia di Sitchin si avvicina al tuo modo di pensare? Quanto il tuo modo di intendere la vita traspare dal tuo scritto?

In realtà sono affascinato come molti da ciò che ha raccontato Sitchin, ma non posso dire di essere un convinto sostenitore delle sue teorie. Onestamente non posso dire che la sua filosofia influisca in modo significativo sul mio modo di pensare. Riguardo alla seconda domanda, nei miei scritti c’è sempre un “pezzo” di me. A volte ci sono io, a volte c’è qualcuno che mi somiglia parecchio, e altre volte c’è qualcuno che vorrei essere o che sono stato.

  • Chi è il reale antagonista del tuo protagonista? Lo stesso essere umano con i suoi limiti e le sue incertezze? O piuttosto la natura o qualche altra entità (dio, alieno, altro)?

Ah, c’è un antagonista?
Ehm… ho una domanda di riserva?
Va bene, rispondo.
Apparentemente gli antagonisti sono i membri della setta “I servi di Cristo”, o meglio, i cosiddetti “capi” della setta. Quando però il protagonista riesce a parlare con il fondatore della setta che gli spiega il perché del suo folle progetto, cominciano a venire i dubbi. Certo, il suo è un folle progetto, ma ha un senso logico e preciso. E allora ci si rende conto che il vero nemico dell’umanità, e quindi, in ultima analisi, del protagonista, è l’umanità stessa, con il suo insensato modo di vivere.

  • Quando gli dei torneranno cosa accadrà realmente?

Beh, bisogna aspettare che scriva il seguito del libro…
Ok, ok. Rispondo.
Secondo me se gli Anunnaki tornassero davvero, sarebbe un bel problema. Sitchin dice che siamo stati creati per essere usati come uomini di fatica. Di base, quindi, per loro siamo dei veri e propri schiavi. Ci potrebbero considerare loro pari?

Non credo. Abbiamo fatto fatica a considerare nostri pari altri esseri umani, la cui unica differenza era il colore della pelle. In questo caso noi siamo davvero una razza diversa, anche se abbiamo in noi una parte del loro patrimonio genetico.
Ma gli dei torneranno?

  • È cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere, a tuo parere, rispetto al tuo primo libro “Paralleli”?

Sono probabilmente più naturale, meno teso. Mi diverto di più. È stato divertente scrivere “Paralleli”. Ma con questo secondo libro mi sono divertito molto di più.
Qualcuno mi ha detto che si percepisce una maggiore sicurezza nel mio modo di scrivere.
Grazie Sauro Nieddu.
Ma sono consapevole di dover fare ancora molta strada. Entrare nel mondo degli scrittori mi ha portato a leggere molto di più, soprattutto a leggere esordienti come me, cosa che capitava molto di rado.
Quando leggi un autore famoso, un nome a caso: Stephen King, il maestro, dentro di te dici: caspita, come scrive bene. Ma lui è Stephen King e io sono Massimo Licari. Quando invece leggi un esordiente come te e ti rendi conto di come scrive bene, beh, la cosa cambia. Io sono Massimo Licari, ossia un perfetto sconosciuto esordiente, e lui è Mario Rossi, un altro perfetto sconosciuto esordiente. Ma come scrive bene!
Così mi sono reso conto di aver fatto il primo gradino di una scala enorme.
Bravo! Hai fatto il primo gradino! Ma quanta strada devi fare ancora?
Spero che il mio modo di scrivere cambi ancora e poi ancora.

  • Quando Massimo Licari non scrive, come occupa il proprio tempo?

Purtroppo una gran parte del tempo è occupata dal mio lavoro. Anche se devo ammettere che il mio lavoro mi piace molto (dovrei dire che mi diverte, ma ho già detto che mi diverto a scrivere. Poi sembra che passo il mio tempo da un divertimento all’altro…).
Il lavoro occupa una gran parte del mio tempo e non sono ancora riuscito a trovare la formula per allungare le giornate a cinquanta ore.
Poi c’è la mia numerosa famiglia, la mia compagna, il bimbo che da meno di un anno monopolizza il nostro tempo e le nostre attenzioni, e per loro c’è una parte cospicua del tempo che rimane, e che non è mai abbastanza.
Rimane la notte. Quando Noah, l’ultimo arrivato ma il più esigente e rumoroso bambino che ho la fortuna di avere, comincerà a dormire tutta la notte, probabilmente tornerò a scrivere regolarmente.

  • Quali sono i progetti futuri?

Prima di tutto sopravvivere.
Un bimbo o ti ringiovanisce o ti ammazza. Sto facendo di tutto per far pendere la bilancia sulla prima opzione. Non è facile e non è detto che ci riesca. Ammesso che sia ancora tra voi a lungo, mi piacerebbe scrivere la continuazione de “Quando gli dei torneranno”.
L’ho immaginata come trilogia. Ma il numero due e il numero tre della serie sono ancora tra le sinapsi. Mi sono anche avventurato nel genere noir, e spero di riuscire a completare quello che ho iniziato. Intanto, riuscire a rispondere a questa intervista è stato un buon successo.
Si comincia dalle piccole cose, no?

Intervista a Enea De Alberti

Intervista a Enea De Alberti

Enea De AlbertiRitorno a El Alamein non si può definire semplicemente un romanzo storico o di guerra. Ricco di colpi di scena e caratterizzato da una trama complessa, il libro fluttua attraverso i decenni portando il lettore a rivivere epoche passate ma mai dimenticate. Tuttavia, per quanto le ricostruzioni storico/ambientali siano ben curate e descritte in modo vivido, è il mistero alla base della storia che avvince e porta verso l’epilogo finale. Enea De Alberti miscela il sovrannaturale con la realtà quotidiana, dosando entrambi i fattori in modo che nulla di quanto descritto possa risultare scontato.

Tenendo conto di quanto l’intreccio propone, in che modo definiresti il tuo libro?

In che modo definirei il mio libro? Una carrellata di personaggi, situazioni e ambientazioni che mi sono divertito a scrivere. Se qualcuno si divertisse nella lettura ne sarei felice.

Il personaggio di Franz è molto particolare e, per quanto protagonista, vive una sorta di “sdoppiamento” a causa di Mario, come è nata l’idea?

Considero il doppione Franz/Mario, così come Ritorno a El Alamein, un artificio tecnico che mi ha permesso di raccontare un sacco di situazioni legandole tra di loro con un filo logico (logico?)

Dovendo scegliere, da un punto di vista puramente affettivo, in quanto autore, chi preferiresti fra Franz e Mario?

Scelgo Mario perché la sua storia ricalca parzialmente la storia militare di mio padre, aviere durante la seconda guerra mondiale. Ovviamente mio padre è tornato e io, nato nel 1951, ne sono la prova vivente

I tuoi personaggi sono fatti di “carne e di sangue”, questa raffigurazione è dovuta dal fatto che ti sei ispirato a persone reali, oppure sono esclusivo frutto di una fantasia alquanto vivace?

Assolutamente ispirato a persone e situazioni reali tramandate da tanti racconti che adesso vedo in bianco-nero. la mia patologica fantasia ha colorato la tela

Le figure femminili non son mai totalmente né vittime né carnefici, ma donne (come nel caso di Pinuccia) che lottano per sopravvivere agli eventi. In che modo vedi il ruolo della donna nella società e come pensi che sia cambiato nel corso degli anni?

Alla domanda sulla donna e sul suo ruolo rispondo solo in presenza del mio avvocato

Amore e vendetta, violenza e perdono si alternano nel corso della trama, creando situazioni estremamente reali e non soggette a quelle tipiche rarefazioni che spesso si leggono in taluni contesti. Questo equilibrio narrativo nasce dal carattere dell’autore o da una particolare esigenza data dalla trama?

Non mi piacciono i racconti dove il protagonista ha i super poteri o quasi e vince sempre. Preferisco personaggi reali, anche se spesso perdono

Avendo già avuto modo di leggere altre tue composizioni, ciò che spicca nella scrittura è una forma stilistica alquanto lineare e “materiale”, priva di fronzoli e abbellimenti che potrebbero rendere taluni passaggi meno crudi. Quanto della tua esperienza come medico influisce nel tuo modo di scrivere?

Tra le tante caratteristiche che può avere un racconto prediligo la trama fluida e ricca di sostanza. Non sono capace di restare su un capitolo intero per descrivere un personaggio o una situazione. L’uso smodato delle descrizioni, degli aggettivi e delle similitudini va benissimo per prendere nove nel compito in classe ma, a mio avviso, non per inchiodare il lettore al kobo. E a tale proposito – da medico – presumo che tanti, se non tutti i personaggi dell’antologia “Amore e morte”, sono schiattati a causa del diabete provocato loro dai quintali di melassa che tracimava dalle dolci ed eterne descrizioni di tristi amori.

Anche se tutto pare risolversi nella vita di Franz, egli è comunque spinto a tornare a El Alamein, dove tutto ha avuto una fine e un inizio, come a voler chiudere un ciclo. Dal tuo punto di vista, quanto è “predestinato” nella nostra vita e quanto possiamo essere realmente artefici di ciò decidiamo e scegliamo?

Non esiste la predestinazione, esiste la genetica ma è un terreno minato perché potrebbe giustificare personalità altamente negative

Quando Enea De Alberti non scrive, come occupa il proprio tempo?

Quando Enea De Alberti non scrive che fa? … lavora, pensa, suona, sogna, ama, vorrebbe amare di più, vergognosamente a volte (ma solo un po’) odia, studia, legge, si incazza, perdona, fa cacchiate, se ne pente, le ripropone, se ne ripente, decide che va bene lo stesso, subisce le prepotenze degli altri, a sua volta  propone le sue, guarda lo schermo del computer e non sa più che scrivere… insomma vive!

Quali sono i progetti futuri?

Ho due brevetti depositati, più centinaia di altre idee con le quali contagio chi mi sta attorno. La maggior parte della gente evita di seguirmi, qualche disperato collabora per realizzare qualche idea meno strampalata delle altre… non prendo psicofarmaci!

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Intervista a Irma Panova Maino

Intervista a Irma Panova Maino

la resa degli innocentiIl libro scritto da Irma Panova Maino affronta temi attuali e scottanti, offrendo al lettore una visione alternativa per quel che riguarda il risolvere determinati avvenimenti. Tuttavia, tutta la produzione letteraria dell’autrice ha un’impronta ben precisa, ovvero quella sfumatura sovrannaturale che sfiora il mondo del fantastico pur rimanendo ancorata al reale.

In La resa degli innocenti viene descritto un mondo molto realistico, duro e a tinte decisamente noir. A cosa è dovuta questa svolta rispetto alla precedente produzione Urban Fantasy?

Il genere noir, in realtà, non si discosta troppo dalla categoria Urban Fantasy. Difficilmente s’incontrano vampiri e mostri vari alla luce del sole (a meno che non debbano luccicare), dunque, di solito, in entrambi i casi le atmosfere sono piuttosto fosche e offrono quell’ambiguità necessaria per la creazione di trame cupe, in cui ciò che si cela nell’ombra dovrebbe suscitare paura. La resa degli innocenti è un libro che trae spunto da fatti quotidiani, da avvenimenti reali e il quotidiano spesso diventata ben più terribile di qualsiasi intreccio fantasioso che un autore possa elaborare nella propria mente.

Nella tua biografia dici di voler sostenere la crociata pro mostri, denunciando la crudezza del mondo reale rispetto a quella del fantastico. Trovi che ci sia bisogno di più concretezza e consapevolezza in questo periodo difficile?

Come dicevo prima, la realtà è decisamente più crudele e meno pietosa del mondo fantastico. Persino il più sanguinario dei mostri può suscitare la giusta pena, un pedofilo no. Mai. Al mondo d’oggi molte barriere morali sono venute meno, molti tabù sono stati sradicati al punto da far diventare “normale” ciò che non lo è. La violenza ci circonda, ne assorbiamo gli effluivi malefici in ogni momento, sia attraverso i media che nel corso delle interazioni con gli altri. Ci dimentichiamo che la violenza verbale non è affatto dissimile da quella fisica e gli effetti prodotti, purtroppo, sono alquanto simili. Quindi, più che concretezza punterei sulla consapevolezza, quanto meno la capacità di comprendere che le nostre azioni si riflettono sempre sugli altri. Dunque, se manca la tolleranza e la pacatezza, nessun dialogo può essere affrontato serenamente e le conseguenze possono diventare irreversibili.

Il personaggio di Barbara/Rian descrive una donna “normale” a cui gli eventi non hanno lasciato più nessuna ancora per legarla alla vita comune e socialmente accettata di tutti i giorni. Quando non si ha più nulla da perdere, pensi che ci si possa davvero trasformare fino a diventare un essere in preda a degli istinti primordiali?

Sì, ne sono convinta. Esiste sempre una soglia oltre la quale l’essere umano perde la propria umanità. Questo limite è diverso per ognuno di noi, ma reale e concreto. Nessuno può sopportare all’infinito. Inoltre, in un periodo come questo, in cui viene a mancare la certezza della pena, le persone tendono a delimitare i propri confini in modo ancora più drastico. Se questo fatto sottolinea lo stato d’insicurezza in cui viviamo, pone anche l’accento sulle problematiche sociali che portano a reazioni impensabili.

Quanto dell’autrice risiede in Rian? E quali altre parti di te hai utilizzato per gli altri personaggi? Sono comunque “tuoi” o hai preso ispirazione da altri per costruirli?

Rian riflette molto del mio carattere, del mio modo di pensare e di agire. Forse, fra tutti i personaggi che ho descritto fino ad ora, lei è quella che mi assomiglia di più. Persino nella fase depressiva. Qualcuno ha scritto: “la depressione non è altro che rabbia inespressa”. Per mia esperienza personale trovo che sia decisamente vero. Il non poter esprimere, anche con i dovuti modi, ciò che agita il nostro animo, porta a quella compressione che, prima o poi, è destinata comunque a esplodere. In quanto agli altri miei personaggi, in ognuno di loro c’è quasi sempre qualcosa di me, a parte qualche rara eccezione.

Metti molta cura nella descrizione dei dettagli delle scene. Cosa ti aiuta a farlo così bene?

Osservo spesso il mondo che mi circonda, con questo non penso di essere un profondo conoscitore dell’animo umano ma l’età, e l’esperienza, mi hanno spesso condotto per vie impervie, portandomi ad affrontare diverse branche dell’umanità stessa. Credo che la sensibilità, che consente di cogliere le varie sfumature, sia uno strumento utile in mano a qualcuno che voglia scrivere. Non voglio prendermi il merito per un qualcosa che la natura ha così generosamente deciso di darmi, tuttavia, cerco di usare questo “dono” al meglio che posso.

Quando scrivi, lo fai di getto o preferisci rivedere di volta in volta ogni singolo capitolo? Quanto lavoro ti richiede ogni libro?

Di solito scrivo di getto le trame, la prima stesura scaturisce in breve tempo. I problemi nascono con le riletture successive. Molte scene d’azione vanno lette e rilette diverse volte, soprattutto per cercare di dare un senso all’azione stessa. I personaggi, nel muoversi in modo convulso, devono sempre trovare una giusta collocazione e i giusti tempi per dare il ritmo. Inoltre, non ci devono essere incongruenze e stonature “tecniche”. Nella realtà, molto di quello che vediamo passare sugli schermi, non è così facilmente realizzabile e certe situazioni non si risolvono così semplicemente come vogliono farci credere. Quindi, per me un libro non è finito fino a quando la trama non sia più che coerente e gli errori corretti.

Dopo aver già pubblicato 4 romanzi, cosa ha significato per te arrivare alla selezione nel concorso EEE, con il tuo inedito, visto soprattutto il genere diverso di libro?

Una profonda emozione. Mentre scorreva il video, in cui l’Editore Piera Rossotti nominava i vincitori e i segnalati, aspettavo con trepidazione, come se fossi al mio primo libro e non mi vergogno di dire che ho esultato come una liceale quando ho sentito fare il mio nome. La resa degli innocenti è un progetto in cui ho creduto fin dall’inizio e comprendere che è stato apprezzato mi ha reso decisamente felice.

Questa storia è anche un percorso interiore nell’abbrutimento di una persona reale. In questo senso, pensi che muoversi nello spazio possa aiutare a immergersi all’interno della propria persona? C’è un collegamento?

Penso che a volte il muoversi porti a credere, in modo del tutto illusorio, che si possa scappare dai problemi. Tuttavia la fuga non è mai una soluzione. Al contrario, muoversi fisicamente spesso porta a delle riflessioni che, stando seduti a casa, non si avrebbe il coraggio di poter affrontare. Il famoso stato di depressione porta alla chiusura, anche interiore della persona, quindi, quando questa è costretta a uscire dal proprio guscio, il processo rigenerativo trova nuovi spunti verso la guarigione. È evidente che tale guarigione, a volte, non percorre le vie più consone e quelle che la logica potrebbe volere.

Quando Irma Panova Maino non scrive, come occupa il proprio tempo?

Continuando a scrivere. Curare il network de Il Mondo dello Scrittore è un impegno che giornalmente mi porta immancabilmente verso lo scrivere. Inoltre, anche curare il blog EEE incrementa l’esercizio, facendo diventare la scrittura una parte quotidiana del mio vivere. Tutto sommato, in questo momento della mia esistenza non cambierei assolutamente nulla. Non c’è niente di più soddisfacente che fare giornalmente qualcosa che si ama. A parte la passione letteraria, esistono poi gli aspetti più realistici del convivere con una figlia adolescente (che adoro e che è spesso fonte d’ispirazione), di un cane innamorato di una gatta e di una gatta che è diventata ormai il tiranno di casa.

Quali sono i progetti futuri?

A parte sopravvivere a BOOKCITY MILANO? Scherzi a parte, molti dei miei impegni hanno già occupato il mio calendario fino alla fine del prossimo anno. Nel frattempo, mi sto dedicando anche ai nuovi libri che mi piacerebbe poter pubblicare con il mio Editore e, per finire (ma non so se mi avanzerà del tempo), dedicarmi a dei nuovi progetti per la promozione degli autori esordienti ed emergenti.

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