Nunzio Russo al Premio Elmo 2014

Nunzio Russo vince il Concorso Premio Elmo 2014 nella sezione Scrittori.

Piazza Municipio

Nella splendida cornice di Rizziconi (Rc), sabato 6 e domenica 7 settembre si terrà la premiazione dei vincitori del “Premio Elmo 2014”.

Giunto alla terza edizione, il prestigioso riconoscimento istituito ed organizzato dall’associazione “Piazza Dalì”, presieduta da Gianmarco Pulimeni, che vede il patrocinio della Regione Calabria, del Comune di Rizziconi e la collaborazione dell’associazione “Arte&Cultura a Taormina”, oltre che di “Auser”, “@thena” ed “Etnicamente”, non solo raddoppia le sue giornate e consolida, con ospiti e premiati, il “ponte” culturale costruito idealmente negli anni scorsi tra la Sicilia e la Calabria ma, allargando sempre più obiettivi e confini, da un lato risale lo Stivale coinvolgendo anche la Basilicata mentre dall’altro, con l’istituzione del “Premio Speciale Mediterraneo”, si spinge sino a lambire le coste del Nord-Africa. Nel nome di una mediterraneità comune, prolifica culla di ingegni e talenti, e di quel humus culturale condiviso dalle regioni del Sud Italia – figlie di una storia millenaria che ieri rifulgeva della luce della Magna Grecia ed oggi subisce il crepuscolo di mortificanti gap strutturali socio-economici – il “Premio Elmo” rivendica così la sua attenzione ad un territorio dove “fare cultura” costituisce già di per sé un atto ostentatamente “straordinario”.

locandina CON SPONSOR 2-page-001È un palmarés di spicco quello proposto, che vede fra i vincitori nella sezione “Artisti” due pittori entrambi calabresi. Francesco Bulzis e Tina Sgrò, definita dal critico e storico Rolando Bellini “espressione di punta, di primissima linea sulla scena artistica contemporanea”. Nella sezione “Associazioni e Fondazioni” vede vincitori del “Premio Elmo 2014” ben due realtà: una fondata da Rino Cardone, giornalista caposervizio TGR Rai, saggista, poeta, nonché appassionato critico d’arte; l’altra, la Scuola del Graffito Polistrato di Montemurro (PZ), iniziativa artistica unica e particolare fondata nel 2003 da Giuseppe Antonello Leone.  Per la sezione “Giornalisti” il “Premio Elmo 2014” rende onore a Manuela Iatì, giovane giornalista di Reggio Calabria fortemente impegnata nel sociale e nei problemi ambientali. Mentre il vincitore del “Premio Elmo 2014 Speciale Mediterraneo” è lo stilista marocchino trentenneHicham Ben’ Mbareck.

La sezione “Scrittori” omaggia il successo – un vero exploit – di un autore al suo esordio letterario: Nunzio Russo, scrittore palermitano, discendente da una antica famiglia di imprenditori che, coniugando l’amore per la sua terra ad una prosa elegante e raffinata, ha dato vita con “La Voce del Maestrale” ad un grande romanzo storico, una saga familiare che, dipanata tra lo splendore della campagna siciliana e le terre bruciate dal caldo sole africano, attraversa generazioni di produttori pastai legati dall’onore e dal rispetto di valori imprescindibili, di cui la violenza del potere mafioso non potrà, comunque, avere ragione.

E proprio la “La voce del Maestrale” sarà presentato al pubblico calabrese sabato 6 settembre, alle ore 21, nella piazza Vittorio Emanuele II, nel corso della serata “Chiacchierando di ordinaria cultura” condotta dalla giornalista MariaTeresa Papale, presidente dell’associazione “Arte & Cultura a Taormina”, cui parteciperanno oltre ai premiati, numerosi esponenti del mondo artistico, culturale e politico della regione, mentre la cerimonia ufficiale della consegna dei premi avverrà domenica 7 settembre, sempre alle ore 21, nella Sala Consiliare di palazzo San Teodoro, sede del Municipio di Rizziconi. Cittadina che, proprio grazie al prestigioso premio, sta divenendo sempre più un crocevia di scambi e incontri per dispiegare l’arte di fare cultura nella culla della Magna Grecia.

Ed è proprio con le parole di Nunzio Russo che chiudiamo questo articolo, facendo all’autore i nostri complimenti.


“Nell’andare alterno dell’esistenza, alle volte si presentano unici eventi. Il riconoscimento del Premio Elmo 2014 a La Voce del Maestrale e al sottoscritto ne è una delle testimonianze, perché giunge a nove anni dalla prima uscita del romanzo, oggi pubblicato da Edizioni Esordienti Ebook (II e III ed.). Bisogna sempre credere nel valore dell’onesto lavoro, in tutti i campi delle attività umane, come un tempo non lontano è stato patrimonio dei nostri nonni e dei nostri genitori. Un invito alla riscoperta dei valori. E’ questa la magia del Maestrale“.

 

Intervista a Elena Moscardo

Intervista a Elena Moscardo, autrice di “I nostri scarponi sulla via MOSCARDO_ESTERNAFrancigena”

I nostri scarponi sulla via Francigena è un libro singolare, un diario di viaggio, che percorre il tragitto fra Modena e Roma, che i protagonisti hanno compiuto nell’anno Giubilare del 2000 per arrivare fino alla Capitale. Un pellegrinaggio vissuto in quest’epoca moderna in cui l’effimero pare abbia preso il sopravvento sulle nostre vite e in cui le scelte facili sono diventate il mal costume comune, Elena Moscardo, autrice del libro, racconta questa esperienza condivisa con il marito Alessandro.

  • Innanzi tutto, tu e tuo marito siete avvezzi camminatori e la comune passione per i viaggi a piedi vi ha portati a percorrere diversi tragitti, come nasce la scelta di raccontare al pubblico proprio questa vostra esperienza?

L’idea e la voglia di raccontare agli altri questa esperienza, non mi è venuta subito, ma quasi 10 anni dopo averla vissuta. Il tutto è iniziato quando, raccontando ai nostri figli o agli amici i vari fatti che erano accaduti, ho iniziato ad accorgermi che la mia memoria cominciava a fare capricci: le tappe, gli incontri, le sensazioni che avevamo provate durante il viaggio spesso si sovrapponevano e confondevano. Sono allora ritornata a prendere in mano il diario di viaggio che avevo scritto allora, e rileggendolo mi sono accorta delle tante cose descritte che già non ricordavo più e delle tante altre, invece, che mi tornavano in mente ma non avevo scritte. E’ allora che ho deciso di iniziare questo libro, perché fosse anzitutto un ricordo ed una testimonianza per me, per mio marito e per i nostri figli, ma poi anche per tutti coloro che avrebbero avuto voglia di leggerlo e di ripercorrere quei sentieri assieme a noi. Perché quando si vive un’esperienza di vita bella è proprio un peccato non condividerla!

  • Gli equipaggiamenti si discostano notevolmente da quelli usati in tempi meno recenti, che cosa c’era dentro nei vostri zaini e cosa cambieresti ora, a distanza di qualche anno?

Nei nostri zaini c’erano poche cose, perché dovevamo tassativamente rientrare nel peso di 11-12 kg consigliato a chi cammina per tratte di circa 10 giorni. Tra gli oggetti indispensabili: i bastoncini da trekking, una mini-guida cartacea fatta da Alessandro, alcune carte IGM delle località attraversate, una bussola, la torcia, la cassetta di primo-soccorso e pochi medicinali essenziali, un coltello serramanico multiuso, la macchina fotografica e un diario. Come capi di abbigliamento: due magliette, un micro-pile, due pantaloncini, due pantaloni lunghi, una mantella per la pioggia, un fazzoletto da usare come copricapo, gli scarponi e un paio di sandali da cammino. In aggiunta solo un po’ di biancheria, un asciugamani e un pezzo di sapone, per tenere rinfrescato questo ristrettissimo guardaroba.
Se dovessimo ripartire adesso riprenderei con me esattamente le stesse cose, purtroppo non gli stessi scarponi, a cui ero affezionatissima, perché sono durati per solo poche altre uscite dopo quel lungo viaggio! Unica cosa in più, non in sostituzione, sarebbe un buon telefono con riferimenti GPS, per avere a disposizione tutte le mappe e le indicazioni sulle varie tappe in tempo reale. Tuttavia il nostro navigatore per eccellenza resterebbe una buona mini-guida preparata con cura e su misura per noi nel periodo precedente alla partenza. Realizzarla è una delle cose più divertenti dell’avventura!

  • Per una donna, affrontare un viaggio del genere comporta diverse difficoltà, anche da un punto di vista puramente pratico, come hai affrontato il tuo personale pellegrinaggio?

Devo confessare che grazie alla mia buona capacità di adattamento anche in condizioni difficili, quando sono a disposizione pochi confort, non ho incontrato particolari disagi, o comunque non tali da non riuscire, in qualche modo, a trovare una strategia per affrontarli e superarli. Sono una donna forte, questo devo riconoscermelo! Per me le maggiori difficoltà sono state quelle psicologiche come quella di imparare a gestire lo scoraggiamento, che a volte mi ha presa, dovuto alla momentanea perdita della motivazione che mi aveva portato a fare quello che stavo facendo. E senza un buon sostegno motivazionale è più difficile affrontare tutto: la fame, la sete, il freddo, il caldo e la fatica fisica.
Il mio personale pellegrinaggio è stato un’ottima scuola per imparare a conoscere i miei limiti, ad accettarli e a conviverci. E forse la cosa tra tutte più importante che ho imparato da questa esperienza è stata quella di sapermi affidare. Questo per me significa accettare con umiltà e con Fede che le cose, dalle più piccole e quotidiane a quelle importanti, a volte non vanno come vorresti, e si divertono a sconvolgere i tuoi piani, ma se le accetti così come vengono ti fanno quasi sempre arrivare ad un risultato inaspettato ben al di sopra delle tue aspettative.

  • Come ogni buon diario che si rispetti, fra le pagine vi sono raccolti momenti d’intensa emotività dovuti ai più svariati motivi, sia personali che esterni, vi è stato un episodio che, a distanza di tempo, rammenti più di altri?

In realtà tutti sono stati episodi belli e significativi per aspetti diversi, e non vorrei dimenticarne nessuno. Se proprio dovessi sceglierne uno solo da raccontare, sceglierei l’episodio del nostro incontro con il cane Mezzo-Husky sulla strada verso Larciano Castello. E’ stata un’occasione importante per riflettere su argomenti come l’amicizia, la fedeltà, il senso del dovere… Credo che quel cane, nell’accompagnarci per un tratto della nostra strada, ci abbia donato gioia e sicurezza, e soprattutto con la sua presenza ci abbia distratto dalla fatica e dalla noia delle tante ore di cammino.

  • Qual è stato il momento più difficile sia da descrivere nel libro che da affrontare durante il percorso?

Il momento più difficile da affrontare nel percorso è sicuramente stata la discesa dal Rifugio Duca degli Abruzzi a San Marcello Pistoiese sotto la piaggia, il vento ed immersi in una fitta nebbia che impediva di vedere dove mettevi i piedi. Lì ho dovuto veramente tirare fuori tutta la mia volontà.
Il momento più difficile da descrivere, invece… probabilmente la sofferenza di Alessandro per la sua borsite al tallone durante gran parte del viaggio; credo di non essere riuscita a rendere veramente quanto questo inconveniente abbia pesato su di lui fisicamente e psicologicamente. Lui è stato molto forte e tenace!

  • I momenti di difficoltà vissuti hanno sicuramente rinsaldato il vostro legame, tuttavia, considerando la vostra come una prova per misurare singolarmente voi stessi, pensi che gli ostacoli intercorsi siano stati creati appositamente anche per verificare la solidità dei vostri intenti?

Sicuramente, di questo ne sono convinta. Niente succede per caso, ed anche le prove, le difficoltà che si sono poste sul nostro cammino sono servite per farci riflettere sui nostri limiti, sulle nostre debolezze, perché è solo vedendole faccia a faccia che siamo riusciti ad affrontarle e a superarle. E poi, non si dice forse che: ‘…quando il gioco si fa duro… è lì che i duri cominciano a ballare!’ ?

  • Questa esperienza che cosa ti ha lasciato, oltre agli evidenti e splendidi ricordi che descrivi nel tuo libro?

Domanda difficile… non è facile spiegare una cosa così ‘intima’, ma proverò a rispondere. Questa esperienza mi ha lasciato tante cose, ed oggi non sarei la donna, la moglie e la mamma che sono se non l’avessi vissuta. E la cosa più importante che ho imparato è stata quella di saper accettare con umiltà che le cose non vadano secondo i miei programmi. E per una persona razionale, programmatrice e meticolosa come sono io, è stato un vero dono. Non è una cosa che ho imparata per sempre ed ora mi comporto di conseguenza… sarebbe troppo facile! E’ invece un pensiero che si è insinuato nel mio animo e nella mia mente e si ripresenta ad ogni occasione, come un monito, una voce interiore che non posso più far finta di non sentire, anche se ancora, a volte, mi infastidisce. Questo monito mi dice che, come lungo un sentiero, tutti i bivi di strada che si presentano nelle mie giornate sono importanti, perché da lì la strada prende direzioni completamente diverse, e che ce ne saranno sempre tanti, senza tregua, senza sosta, da affrontare in qualunque condizione, anche quando sarò stanca, demotivata o delusa. Mi ricorda che il modo migliore per continuare a camminare, superando questi bivi e scegliendo la via giusta per il mio cammino è quello di non credere superbamente di doverlo fare da sola, ma di sapermi affidare…e sapete, non è affatto facile per una come me che si considera una buona camminatrice, accettare, a volte, di farsi portare in braccio!

  • Una curiosità, quando siete finalmente giunti a Roma, qual è stato il tuo primo pensiero e che cosa hai fatto per prima cosa?

Ad essere sincera, il mio primissimo pensiero è stato: ‘E’ finita, finalmente…Ce l’ho fatta!’. Il secondo pensiero è andato alla strada percorsa, alle difficoltà, ma anche alle tante gioie vissute, agli incontri, ai paesaggi, a noi stessi e a tutte le persone che amiamo.
La prima cosa che ho fatto arrivata a Roma è stata quella di chiedere ad un passante di scattarci una fotografia davanti alla Basilica di San Pietro. Volevo avere una prova concreta che eravamo lì, finalmente giunti alla tanto desiderata meta, mio marito ed io insieme, un istante bloccato nel tempo, da tenere per sempre come ricordo.

  • Hai affrontato numerose presentazioni in questo periodo, le quali ti hanno portato a contatto con persone diverse, qual è la domanda che ti senti rivolgere più spesso e, ovviamente, tu cosa rispondi?

La domanda che le persone mi rivolgono più spesso è ‘Che cosa te l’ha fatto fare?’ e la mia risposta è sempre la stessa. Abbiamo intrapreso quel viaggio a piedi di 380 km sulla Via Francigena con la voglia di fare un’impresa impegnativa, non tanto fisicamente, ma più per la ricerca del senso delle cose e di noi stessi, e per questo indimenticabile. Volevamo metterci alla prova fisicamente e psicologicamente, e vedere se, alla fine, ci saremmo riusciti. Sapevamo, per sentito dire, che il pellegrinaggio è un’esperienza che ti cambia nel profondo, e abbiamo voluto provarlo sui noi stessi. Il desiderio di fare questa esperienza insieme a mio marito è perché, allora inconsciamente oggi coscientemente, desideravamo che qualunque cambiamento fosse avvenuto in noi durante quel viaggio, doveva essere nella stessa direzione.

  • Il ritmo che impone una camminata permette di poter godere della natura circostante, in quanto esperta nell’ambito zoologico-naturalistico, come reputi che sia lo stato di salute della nostra fauna?

Dici proprio bene, perché veramente è solo il lento camminare che ti permette di accorgerti di quello che hai intorno, di sentire i rumori della natura e di cogliere le tracce del passaggio di qualche animale, che vive lì accanto, ma tende ad essere molto riservato. Ritengo che il paesaggio, le bellezze naturali come la fauna e la flora della nostra penisola risentano di un’eccessiva antropizzazione e che alle poche isole-riserve naturali sia data troppa poca valorizzazione e quasi nessun finanziamento perché possano sopravvivere. Il fatto è che lo Stato per primo, ma anche il modo diffuso di pensare della gente, purtroppo, le considera territorio perso per l’economia di mercato anziché, come dovrebbe essere, una risorsa enorme su cui creare un’economia sociale e solidale che coinvolga tutta la popolazione.

  • Quando Elena non scrive, come occupa il proprio tempo?

Attualmente oltre a cercare di fare al meglio la mamma e la moglie, collaboro con varie Associazioni Onlus e con il Museo di Storia Naturale della mia città per progetti nell’ambito culturale e della valorizzazione e salvaguardia ambientale-naturalistica del territorio intorno a Verona. E quando mi rimane un po’ di tempo ancora, naturalmente, cammino! Perché fermare una come me, è veramente difficile.

  • Quali sono i tuoi progetti letterari per il futuro?

Desidero scrivere ancora, questo è sicuro. In realtà sto già scrivendo un nuovo racconto i cui personaggi-protagonisti sono gli animali che ho avuto nella mia vita e con i quali ho condiviso intensi momenti di amicizia; in questo testo emerge preponderante la biologa-etologa che è in me, il mio amore per la natura, per gli animali ed il loro comportamento. Posso dire che scrivo anzitutto per raccontare le cose che vedo, che sento e che provo, soprattutto quelle che per me hanno significato molto e, pertanto, desidero condividerle anche con chi avrà voglia di leggerle.
Per il momento, quindi, come scrittrice resto legata al genere autobiografico, di cronaca e saggistica, ma non voglio escludere che nel futuro potrò spaziare anche in altri genere letterari, perché, come è nel mio carattere, mi piace mettermi alla prova!

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Intervista a Eugenia Guerrieri

Eugenia Guerrieri, autrice di Deathdoc.Intervista a Eugenia Guerrieri, autrice di Deathdoc.

Deathdoc è un libro diverso, così diverso che difficilmente una trama come questa vi verrà riproposta con la stessa dose di humor, sarcasmo e incredibile realismo. Molto si cela dietro a un cadavere e non stiamo parlando del classico omicidio in cui il filo s’interrompe con la scoperta del colpevole, bensì di quello che accade “dopo”. Dopo che un corpo passa dallo stato di “vivo” a quello di “morto”, piombando nel caos burocratico e cinico che ruota intorno a qualsiasi salma. Ed è esattamente su questo che si basa il libro scritto da Eugenia Guerrieri, giovane scrittrice emergente, che ha fatto del macabro il suo punto di forza.

  • Innanzi tutto, questo non è il tuo primo libro, Eugenia, e Deathdoc non è un nuovo personaggio inventato appositamente per questa storia, vuoi raccontarci come nasce e da dove prende il suo soprannome?

È un personaggio già presente nella mia saga “La Bella Gioventù“, ambientata a Velletri, una cittadina della provincia di Roma, situata nella famosa zona dei Castelli. In origine era semplicemente il custode del cimitero, l’uomo stravagante che a dispetto del suo carattere scontroso, fa amicizia con uno dei protagonisti della saga, un ragazzo geniale (e per questo, solitario per natura) che, appena trasferito con la famiglia, prende a frequentare il cimitero “per avere un posto dove rifugiarsi quando ne ha abbastanza”. Nella bozza de “La Bella Gioventù” il custode del cimitero aveva un ruolo piuttosto marginale, solo in seguito – dietro pressione di un appassionato della mia storia – ho sviluppato la sua storia, finendo per scrivere un romanzo su di lui. Il perché di quel soprannome, che è anche il titolo del romanzo? Lo dirà la storia stessa.

  • Paolo Grandi, il nome fittizio dietro il quale si cela il tuo protagonista, è un uomo molto particolare, fuori da qualsiasi schema che lo possa identificare come eroe, che cosa ha ispirato questa tua scelta, perché proprio un uomo con questi determinati tratti caratteriali?

Paolo Grandi, il cui vero nome è Giovanni Di Micco, infatti, non è un eroe. Anzi, possiamo dire che i suoi guai se li è anche andati a cercare. Laureato con il massimo dei voti in Medicina e Chirurgia, appassionato di Medicina Legale, ha rinunciato alla sua vera passione apparentemente perché “allettato” dalla promessa fattagli dal suocero Piergiorgio Mazzone di un posto di elite nel suo reparto, quello di Rianimazione e Terapia Intensiva, in uno dei più importanti poli ospedalieri della capitale.
Giovanni, atterrito dall’idea dell’infermità permanente, dalla vita-non vita a cui vanno incontro le persone con malattie incurabili o gravemente invalidanti, era un giovane medico tendenzialmente favorevole all’eutanasia. Un’ideologia che il suocero, un uomo totalmente privo di qualsiasi scrupolo, andava cercando come requisito fondamentale nella scelta del personale medico che entra a far parte della sua squadra allettato dalle promesse di lauti guadagni. Diversamente, Giovanni non sarebbe mai stato preso in considerazione dall’avido primario.
Una cosa che mi ha fatto molto piacere è stato sentirmi dire, da chi ha già letto DEATHDOC, che è impossibile odiare il protagonista nonostante la sua cattiva fama e il suo carattere un po’ asociale, sarcastico e spigoloso. Magari le lettrici sono anche positivamente influenzate dal fatto che sia un bell’uomo?

Il perché di questa scelta, cosa me l’ha ispirata? Più che altro mi è stata suggerita per filo e per segno dallo stesso, appassionato lettore che ha tanto insistito affinché sviluppassi il personaggio di Paolo/Giovanni. «Rendiamolo interessante», ha detto. Ovviamente lui mi ha dato le linee guida, il resto ce l’ho messo io. Ascolto sempre volentieri i suggerimenti dei miei lettori, poi sta a me decidere se siano fattibili o no.

  • Ambientare una storia in un cimitero non è esattamente una scelta usuale, perché una giovane donna ha scelto proprio questo genere per comunicare con il pubblico?

Perché non avrei dovuto sceglierlo? Non mi piacciono le storie romantiche e/o sdolcinate, inoltre negli ultimi tempi sul mercato letterario c’è un’inflazione di fantasy (non che non mi piaccia il genere, ma personalmente sono un po’ stufa di vampiri, demoni, eccetera); e poi Patricia Cornwell e Kathy Reichs sono donne, eppure hanno scritto romanzi su un medico legale e su un’antropologa forense.

  • Oltre ad aver caratterizzato fino all’esasperazione i vari personaggi, di cui parleremo dopo, hai anche reso perfettamente l’idea del mondo che gira intorno a una qualsiasi morte, aspetti che non tutti sanno e che spesso, proprio a causa del momento emotivo, le persone non comprendono. Quante ricerche hai svolto per ottenere tante informazioni e quali ostacoli hai trovato nello svolgimento di tale ricerche?

Colui che ha tanto insistito affinché sviluppassi e approfondissi quel personaggio, è un giovane medico legale che lavora al cimitero. È stato lui a darmi un valido aiuto, presentandomi i suoi colleghi, permettendomi di fare tutte le domande che volevo e di vedere tutto ciò che era necessario vedere affinché potessi rendere la storia credibile. Oltre a quello, mi ha suggerito un sito internet su cui trovare gli approfondimenti delle normative che regolamentano quel mestiere che in molti nemmeno considerano, o sottovalutano. Perciò di ostacoli non ce ne sono stati; posso però affermare con sicurezza che se anche non avessi avuto il suo supporto, avrei ugualmente sviluppato una storia ambientata in un cimitero, ma senza entrare nel tecnico. Anzi, l’ho già fatto e il risultato mi soddisfa: è un romanzetto intitolato “OGGI RICORRONO I MORTI (SPERIAMO VINCA MIO NONNO)“, incentrato interamente sulla giornata del 2 novembre. Lo consiglio sempre a chi è curioso di leggere una delle mie storie particolari ma si impressiona per certi dettagli.

  • Come dicevamo, i personaggi, che ruotano intorno al cimitero, hanno tutti in comune la caratteristica di divenire grotteschi ed esaltano quegli aspetti che, per assurdo, li rendono ancora più umani. Hai tratto spunto da persone reali?

Per incontrare personaggi grotteschi basta andare in giro e osservare la gente nella vita di tutti i giorni. In ogni caso, quando qualcuno mi fa particolarmente innervosire, lo “uccido” e lo faccio diventare un ospite del cimitero del protagonista. È anche un’ottima valvola di sfogo! Queste persone non immaginano che se sorrido invece di mandarle al diavolo come meriterebbero è solo perché nella mia infinita fantasia scribacchina le ho già collocate orizzontalmente in una graziosa tomba…

  • Nel tuo libro vi sono menzionati diversi episodi in cui il filo conduttore è alla fine qualcuno su cui piangere, quanti di questi episodi sono reali e quanti inventati?

La storia personale del personaggio è tutta inventata. Gli episodi al cimitero, invece, mi sono stati raccontati oppure vi ho assistito personalmente.

  • La vena di humour macabro è una parte insita del tuo carattere oppure insorge nel momento stesso in cui, calandoti nella storia, emerge improvvisamene lo scrittore che è in te?

Lo ammetto: la vena macabra è insita nel mio carattere. E non mi importa cosa gli altri pensino di me. In ogni caso, cerco sempre di buttarla un po’ sul ridere.

  • La cultura occidentale identifica il cimitero come un luogo di morte e sofferenza, mentre la cultura orientale tende a renderlo un luogo in cui la pace dello spirito influisce anche sull’animo delle persone. Due concezioni diametralmente opposte, tu come vivi questo luogo?

Direi che abbraccio pienamente la cultura orientale, al cimitero mi sento veramente in pace.

  • Per offrire un’alternativa diversa al lettore, non avresti voglia di scrivere un libro scritto dal punto di vista del morto?

Chi ti dice che io non l’abbia già fatto? Aspetta di leggere il seguito di DEATHDOC! Certo, per scrivere ciò ho usato molto la fantasia, dando anche alla storia delle mie personali libere interpretazioni, perché ovviamente nessuno è mai tornato indietro a raccontarmi come sia il punto di vista di un morto. Anche se, dovendo scegliere, preferirei mi desse i numeri vincenti del Super Enalotto…

  • Quando Eugenia non scrive, come occupa il proprio tempo?

Se intendi il mio tempo in generale, faccio quello che fanno tutte le persone che vorrebbero essere nate ricche, ma che invece non lo sono e “devono campà”. Se invece ti riferisci al tempo libero: ultimamente ne ho molto poco, quindi scrivo soltanto. Guai a propormi qualcosa di diverso! Non è cattiveria, ma ultimamente il mio motto è: LASCIATEMI scrivere IN PACE e non rompete.

  • Sappiamo che per Deathdoc è previsto un seguito, puoi anticiparci qualcosa in merito al tuo nuovo libro?

Il seguito di DEATHDOC si intitola IL SIGNORE DEI CIMITERI. L’ho già inviato all’editrice per la valutazione.
Nelle sue pagine si ritrova Paolo/Giovanni in periodi differenti della sua vita. Lo vedremo ragazzo, giovane uomo, studente e specializzando in Medicina Legale – e in alcuni capitoli anche nel ruolo che già ricopre nel romanzo DEATHDOC, vari episodi che nel precedente libro non ho raccontato perché poco inerenti –, sempre con la smodata passione per i cimiteri. Non si è mai lasciato sfuggire l’occasione di visitarne uno, magari rinunciando a una gita o a una giornata di mare.

Di cosa parla IL SIGNORE DEI CIMITERI? Qui ci riallacciamo alla domanda sullo scrivere un libro dal punto di vista di un morto. Si scoprirà infatti che Giovanni Di Micco è un “medium“, in grado di vedere i trapassati e di interagire con loro. Un dono che scopre gradualmente, ma di cui non sa proprio cosa fare. Sulle prime crederà di essere pazzo.
Questo lato della storia è raccontato secondo una mia personale e molto fantasiosa interpretazione dell’after-life: i fantasmi della mia storia non fluttuano e non sono trasparenti, ma ai suoi occhi appaiono in tutto e per tutto con l’aspetto di persone normalissime. Inoltre sono impossibilitate ad allontanarsi dal luogo dove dimora il loro corpo; il che, per il nostro amato protagonista, è un sollievo: gli è già difficile riuscire a distinguerli dai vivi all’interno del cimitero, figuriamoci se li incontrasse per strada.
Ovviamente sull’argomento c’è dell’altro, ma lo scoprirai leggendo il libro.

  • Per rimanere in tema e per concludere degnamente questa simpatica chiacchierata, cosa scriveresti come epitaffio per questa intervista?

Uhm… va bene che la morte piace alla gente che giace?

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Intervista a Sabrina Grementieri

Noccioli di ciliegie di Sabrina GrementieriIntervista a Sabrina Grementieri

  • Sabrina Grementieri ha scritto due romanzi che rientrano nel filone “rosa”, ovvero parlano di amore e sentimenti, senza però tralasciare la passione e la realtà delle persone. In un’epoca in cui tutto diventa materiale o, al contrario, fin troppo fantasioso, che valore dai all’amore?

Buongiorno a tutti. Quale migliore domanda per una romantica come me? Per me non esiste un’esistenza senza amore. Per amore io intendo la passione, l’entusiasmo, il sacrificio, gli attacchi di tachicardia e le farfalle nello stomaco, le lacrime di soddisfazione e orgoglio. Anche ai più cinici io chiedo sempre: siete sicuri di non avere mai provato questo sentimento? Perché l’amore non è solo quello tra due persone adulte. È l’amore per i propri figli, per gli animali, per il proprio lavoro, per una giusta causa. Io non mi alzerei dal letto al mattino se nella mia vita non ci fosse almeno una di queste cose. Ma vogliamo circoscrivere l’amore a quello tra due persone? Io personalmente non potrei davvero vivere senza. E non parlo dell’innamoramento, quello che ti travolge, ti sconvolge, ti ringiovanisce e ti rincretinisce. Parlo di quella difficile sfida di costruire un rapporto forte, complice e arricchente basato sui sentimenti. Fermatemi adesso!

  • Sia in “Una seconda occasione” che in “Noccioli di ciliegie” l’ambientazione si svolge in territorio nazionale, prima nelle verdi campagne toscane e poi sui rilievi dell’Alto Adige, perché questa scelta? E come reputi la decisione di altri autori di porre i propri personaggi in ambientazioni per lo più estere?

L’Italia è un paese paesaggisticamente stupendo. Abbiamo cornici uniche e varie, dai ghiacciai alle dune, dalle città alle isole. Da adolescente, quando ho iniziato a scrivere, anche io ambientavo le mie storie all’estero. Buona parte di quello che leggevo era ambientato oltre frontiera, e sembrava naturale così. Poi ho iniziato a viaggiare, ho visto posti splendidi e mi sono innamorata del mio paese. Sono strana vero? Credo che a noi italiani manchi la cultura di sostenere il nostro paese. Non so quanto arriverò lontano con i miei romanzi, ma è in Italia che voglio ambientare le mie storie. Pensa che la prima cosa che mi dicono dopo averle lette è che sembra di essere proprio in Toscana, o in Alto Adige. Questo per me è un grande successo.

  • I tuoi personaggi sono sempre molto ben tratteggiati e caratterizzati da aspetti che li fanno sembrare molto reali. Trai spunto da persone che conosci o attingi direttamente da te stessa?

Fino ad ora i personaggi sono tutti inventati. Poi è inevitabile metterci qualcosa di me, o di qualcuno che ha incrociato il proprio cammino con il mio. Nel tentativo di renderli più reali possibili devo per forza attingere dalla realtà, ma sono lontana dallo scrivere di persone realmente conosciute.  Mi mette a disagio, ma non è detto che in futuro non possa accadere!

  • Nei tuoi romanzi esiste sempre una componente che riporta a cause fisiche e psichiche, come malattie, incidenti o altro, perché hai ritenuto opportuno porre uno dei protagonisti in una condizione di “quasi” bisogno rispetto all’altro?

In realtà fornisco ai miei protagonisti una buona dose di drammi ciascuno, giusto per non fare differenze! A parte gli scherzi, il cammino di ciascuno di noi è costellato di ostacoli, più o meno gravi, e mi piace descrivere il loro cammino e i loro tentativi/ non tentativi di superarli. Poi vuoi la mia poca esperienza di scrittrice, oppure la mia ostinata positività, la storia finisce sempre con un lieto fine. Ma io sono così nella vita reale: amo le sfide, e mi intestardisco nel ricercare un finale positivo. Non potrei mai scrivere profondi saggi intimistici, conditi di cinismo e fatalità. Non riesco nemmeno a leggerli!

  • Pur essendo dei romanzi rosa, le tue trame si discostano parecchio dal classico cliché dettato dall’amore zuccheroso, anzi, spesso i tuoi protagonisti, come nella vita reale, non sanno se avranno un lieto fine fino all’ultima riga. Hai mai pensato di lasciarli veramente in sospeso e di non produrre un happy end?

Direi che ti ho già risposto nella domanda precedente. Per ora no, non potrei non finire con l’happy end. Non amo le storie zuccherose, le protagoniste svenevoli e i protagonisti tutto testosterone. E nemmeno le trame troppo scontate. Come hai detto tu, preferisco sembrino più reali possibili. Però anche se li faccio sudare un po’, poi alla fine si tira tutti un bel respiro di sollievo!

  • La moda del momento prevede un rapporto realistico fra i personaggi, ovvero piuttosto carnale, benché i tuoi non siano privi di passione, tutt’altro, non vengono mai descritti in modo troppo “intimo”, la tua scelta è voluta? E pensi che riusciresti mai a scrivere qualcosa di più torbido e travagliato anche da questo punto di vista?

La scelta è decisamente voluta. Non sono un’amante dell’erotico, e anche se lo fossi ora mi sarei già abbondantemente stufata. Sono capricciosa, lo ammetto: le mode mi scatenano uno strano prurito sotto pelle, e ne sto lontana.
Poi, si sa, le scene di sesso sono tra quelle più difficili da descrivere, e sono certamente ancora molto inesperta!
Per concludere, vogliamo lasciare ai nostri pazienti lettori un po’ di spazio per la fantasia? Io la vedo così, e permettimi questo paragone: scrivere di sesso è un po’ come vestirsi. Se vado in giro con addosso solo una foglia di fico, che altro c’è da scoprire?

  • Mentre la cover e il titolo del primo libro erano abbastanza chiari, il secondo, Noccioli di ciliegie, rimane un po’ più enigmatico. Come mai hai scelto questo titolo e che cosa rappresenta per te?

I Noccioli di ciliegie sono per me il simbolo dei gesti di affetto, delle coccole. Come sai, sono quei sacchettini pieni di noccioli che puoi scaldare e mettere nelle parti doloranti del corpo. I miei figli li vogliono d’inverno per andare a dormire, soprattutto quando io sono al lavoro e non posso essere con loro. Li abbracciano come fossero un’ancora, e da lì è venuta l’idea. Il disegno è di un’amica, la brava artista Chiara Di Placido, alla quale ho lasciato libera scelta di interpretare la storia.

  • Vi è un’evidente crescita artistica fra il primo e il secondo libro, non tanto a livello qualitativo, giacché era ottimo fin dall’esordio, quanto da un punto di vista stilistico, poiché nella tua seconda opera hai posto maggiore riflessività e attenzione all’equilibrio della trama. A cosa è dovuto, secondo te, questo cambiamento?

La verità? Alle critiche costruttive! Lo scorso anno ho collaborato con alcuni scrittori nella stesura di racconti e al momento dell’editing, il mio aveva subito una bella batosta! Ma sono una brava ascoltatrice e soprattutto assorbo consigli e idee come una spugna. Se non c’è cattiveria (dalla quale ahimè mi faccio ferire) cerco di mettermi sempre in discussione.

  • Sabrina Grementieri scrittrice, moglie, madre, lavoratrice. Le tue giornate devono essere davvero molto piene. Quando trovi il tempo per scrivere? Quando ti vengono idee per un romanzo, riesci sempre a tenerle a mente o le scrivi da qualche parte per non perderle durante le mille attività quotidiane?

In realtà non prendo quasi mai appunti, e di questo mi rimprovero perché poi dimentico. Magari non il soggetto o il contesto, ma le parole giuste per esprimere un concetto, che di solito ti vengono nei momenti più impossibili. Però faccio spesso foto, perché l’ambientazione è la molla che fa partire la fantasia.

  • Quando Sabrina non scrive, come occupa il suo tempo, sempre che gliene rimanga?

Quando non scrivo faccio quello descritto sopra: mamma, moglie, lavoratrice. Però mi piace uscire con gli amici, e viaggiare, e ti giuro, a volte ci riesco!

  • Avendo pubblicato con un editore nativo digitale, quanto pensi che sia importante l’approccio di un autore con il web e quali vantaggi pensi che la rete possa offrire?

Un autore, purtroppo, deve imparare a sfruttare i vantaggi della rete. Dico purtroppo perché io non sono molto abile con la tecnologia, quindi ci perdo un sacco di tempo per ottenere risultati mediocri. Dalla mia posso dire che ci provo. So che devo promuovermi, farmi sentire, far sapere che ci sono. Voi mi state davvero aiutando, e non potrò mai ringraziarvi a sufficienza.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro e che cosa puoi anticiparci del tuo prossimo romanzo?

Tanti, sempre tanti progetti! Non riesco mai a fermarmi. Ho terminato il terzo libro, ambientato in Salento questa volta. È in attesa di spiccare il volo. Voglio partecipare a workshop di scrittura, imparare da chi ne sa più di me di questo meraviglioso mestiere. Voglio continuare a viaggiare, a conoscere, a stupirmi. Ma soprattutto voglio essere presente per i miei due cuccioli d’uomo, sperando di trasmettere loro la voglia di sapere, di scoprire, di assaporare la vita.

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Intervista a Emanuele Gagliardi

Intervista a Emanuele Gagliardi autore de La pavoncellaIntervista a Emanuele Gagliardi autore de La pavoncella

 

Emanuele Gagliardi, vincitore del primo concorso proposto da Edizioni Esordienti Ebook, dedicato alla categoria giallo, thriller e noir, non è nuovo né a tali generi né al ricevere premi e riconoscimenti per le sue opere. La sua mano si è affinata nel tempo, proponendo sempre libri di grande interesse, le cui trame hanno quel particolare gusto vintage che riporta ai tempi passati. Umberto Soccodato, il suo commissario, presente in tutti i libri, non è solo un personaggio, ma un uomo a cui il lettore finisce per affezionarsi.

  • L’affaire Pasolini, l’ENI e la vicenda Mattei sono i perni su cui gira il romanzo La pavoncella. Perché proprio queste vicende ti hanno guidato nella stesura della trama del tuo libro?

            In tutta franchezza, le mie storie originano anzitutto dalla necessità di tornare a “sentire” – uso il verbo nell’accezione propriamente e totalmente sensoriale – un’epoca per me indimenticabile: gli anni Settanta. Perché siano stati tali, è presto detto: ero bambino. Una volta dissi al pediatra che mia figlia voleva a tutti i costi dormire nel lettone in mezzo a mamma e papà. Lui mi rispose: “perché, a lei non piacerebbe?” Con i miei libri ho trovato il modo per crogiolarmi richiamando le sensazioni visive, uditive e olfattive di quegli anni. I fatti di cronaca, gli aspetti sociali e di costume, vengono in un secondo momento e servono a contestualizzare la vicenda. Nel caso de La pavoncella, si aggiunge la volontà di rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini che, al di là delle discutibili scelte di vita, è stato un grande intellettuale e un poeta assoluto. La Supplica alla madre è una gemma unica per la onesta disperazione che rivela.

  • Il commissario Soccodato è un personaggio estremamente ben caratterizzato dal punto di vista umano. I suoi rapporti con la moglie e le sue relazioni con sottoposti e superiori, lo rendono più “persona” che personaggio. Quanto hanno influito le tue precedenti esperienze letterarie, dato che questa è la tua quarta pubblicazione, per dare una visione così reale del tuo protagonista?

            Il commissario Soccodato è in buona misura un mio alter ego. Chi mi conosce sa quanto corrispondano alla mia personalità il suo aspetto demodé, l’attaccamento alla quiete domestica, un’emotività che lo rende a volte più poeta che poliziotto, ma pure un sarcasmo spinto fino al dispetto…  È sotto tutti gli aspetti un antieroe,“un popolano del miglior lignaggio”, come lui stesso sottolinea citando Ettore Petrolini. Un romano, come me e come tanti, che per pigrizia e per istinto di conservazione non ha proprio voglia di far l’eroe, pure perché, con tutto il rispetto, sulle lapidi degli eroi le date di nascita e morte sono sempre troppo ravvicinate! Un’incarnazione del motto andreottiano “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, insomma. 

  • L’ispettore Santucci, per contro, non appare quasi mai nel libro, ma la sua presenza si avverte in modo incisivo, soprattutto come “momento leggero” all’interno di una vicenda piuttosto complessa. Inoltre, ci sono altri personaggi che rendono la storia molto ironica e divertente. Trattandosi di un giallo in piena regola, queste figure sono state volutamente inserite per rendere meno pesante la trama?

            Non posso fare a meno dell’ironia. Non ci riesco nella vita e tanto meno ci riuscirei nella scrittura. E poi sono convinto che uno “stacco” sul sorriso sia utile: per alleggerire la narrazione, certo, ma anche per evitare di “scriversi addosso”, di cadere nella seriosità. Visto che abbiamo parlato di Pasolini, ricordo volentieri una sua frase: “la serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre”. Santucci fa ridere, è vero, ma poi contribuisce in maniera determinante alle soluzioni dei casi perché va fino in fondo, obbedisce agli ordini senza sicumera, con forte volontà. Un antieroe anche lui. Ma spesso c’è più eroismo nella quotidianità che in un atto eclatante.

  • La vicenda investigativa condotta con metodi “classici”, rispetto a quelli che sono gli standard mostrati anche dalle più moderne serie televisive, donano alla trama un sapore vintage. Una scelta così in controtendenza con quanto normalmente viene proposto, non temi possa penalizzare il tuo libro?

            Direi che, al contrario, in questa scelta stia il punto di forza, l’originalità dei miei romanzi. Lavoro in Rai da quindici anni e so per esperienza quanto la gente che vede CSI, NCIS o Criminal Minds abbia anche voglia di “classico”. Vanno a ruba gli home video che ripropongono su supporti attuali i telefilm con il Commissario Maigret, il Tenente Sheridan, Colombo, Nero Wolfe, Starsky e Hutch… o i grandi sceneggiati degli anni ‘70, tipo Il segno del comando, Ho incontrato un’ombra, Qui squadra mobile, Ultimo aereo per Venezia, solo per citarne alcuni.

  • Roma, metà anni ’70: perfetta cornice per la storia descritta. Se dovessi ambientare la vicenda ai giorni nostri, quali pensi che dovrebbero essere le variabili necessarie?

            Le indagini dovrebbero essere condotte con maggiore ausilio della tecnologia e della scienza forense. Il ritmo delle indagini dovrebbe essere più serrato, conforme ai tempi di una società che “non dorme mai” a causa (dico di proposito “a causa” e non “grazie a”) dell’informazione permanente garantita dai new media che annullano ogni limite spazio-temporale. Anche i personaggi dovrebbero essere differenti: più dinamici anche loro, più social, e magari con situazioni familiari problematiche o alternative… Basta così! Se dovessi essere costretto a sovvertire tanto la mia natura preferirei smettere di scrivere.

  • Quanto lavoro di ricerca hai svolto per scrivere una vicenda così intricata e così precisamente inserita nel contesto dell’epoca?

            Molto lavoro. Lavoro estremamente piacevole, però. Ogni volta che scrivo un libro frequento biblioteche ed emeroteche e mi documento su tutto: cronaca, politica, società, musica, televisione, cinema, cultura, sport, pubblicità…  per completare i ricordi personali e ricostruire il più fedelmente possibile l’atmosfera di un’epoca. È il “vizio” del rigore storico che ho appreso studiando all’università con il professor Renzo De Felice.

  • Per descrivere i vari personaggi del libro hai preso spunto da persone realmente esistite?

            Dalla realtà mutuo soprattutto le fisionomie. Le vicende umane, invece, o sono di totale invenzione o sono il risultato di una miscela di spunti presi qua e là e assemblati ex novo.

  • Il protagonista fuma la pipa, atto simbolico che, solitamente, aiuta nella concentrazione e nel trovare una propria visione della realtà. Questo particolare nasce da una propria esperienza personale, oppure diviene parte di quel classico bagaglio che richiama personaggi letterari già conosciuti?

            Sono stato fumatore di pipa fino a pochi anni fa. La pipa aiuta la concentrazione, è vero, e fa molto personaggio ma… la salute è più importante. Meglio che a fumare continui solo Soccodato. Il riferimento Maigret è dichiarato.

  • La parte di storia relativa alla pavoncella, descritta nel libro come espediente per tranquillizzare una bambina spaventata dall’allarme antiaereo, per quanto funzionale alla trama, rappresenta una scelta davvero particolare, dal momento che è diventata il titolo del libro. Vuoi raccontarci il motivo di tale scelta?

            Da un po’ di tempo mi sono appassionato all’esperimento di crowdsourcing – giornalismo partecipato basato sulla presenza di “informatori” sparsi sul territorio – lanciato sul web dal giornalista Mario Tedeschini Lalli che si è messo sulle tracce delle sirene di allarme antiaereo installate ai tempi della II Guerra mondiale. Solo a Roma, alzando lo sguardo ai tetti, sono state censite una trentina di sirene. Io stesso mi sono arrampicato su alcune terrazze condominiali per osservare da vicino e fotografare queste testimoni del passato. Di alcune ricordo il suono, non di allarme per mia fortuna, perché fino a tutto il 1975 venivano azionate ancora per segnalare il mezzogiorno. La storia della bambina è inventata, ma serve ad introdurre il richiamo alla pavoncella, comune uccelletto spesso erroneamente confuso con la femmina del pavone di cui non ha le caratteristiche di bellezza, a cui il commissario Soccodato associa una delle protagoniste del romanzo, altezzosa fino alla stizza ma offuscata e frustrata dalla ingombrante avvenenza della sorellastra non amata.

  • Che cosa ti ha spinto a pubblicare con un editore nativo digitale e, dopo “La pavoncella”, pensi di scrivere un altro libro giallo o spaziare in altri generi?

            Ho partecipato con il mio romanzo inedito al concorso indetto da Edizioni Esordienti Ebook e dopo pochissime settimane ho vinto il primo premio. Un riscontro immediato, inatteso, senz’altro gradito. Circa le caratteristiche “digitali” dell’Editore in questione, sarei ottuso se mi lasciassi condizionare. Prediligo il libro cartaceo, indubbiamente, ma la realtà è cambiata e in alcuni casi non è possibile ignorare il mutamento. Il gusto di scrivere è legato al piacere di raccontare qualcosa. Il libro, la scrittura tout court, è un medium “freddo”, volendo usare la dicotomia antifrastica coniata da Marshall McLuhan, perché implica un alto grado di partecipazione e di completamento da parte del pubblico. Io racconto storie vintage che, per quanto so, trasmettono e riaccendono emozioni in coloro che le leggono e se ne sentono coinvolti. Il supporto tramite cui avviene questa osmosi emozionale è solo strumentale, poco importante.

            Circa un mese dopo La pavoncella è uscito Scommessa assassina (Giovane Holden Edizioni), un altro giallo-vintage. Siamo nel luglio 1966, mentre si giocano i Mondiali di calcio in Inghilterra. Il commissario Soccodato è in vacanza in Romagna, a Bellaria, con la moglie; un conoscente che alloggia nel loro stesso albergo lancia un’assurda scommessa, un anziano professore muore in circostanze oscure. In cantiere ho poi altri due thriller con il commissario Soccodato, ma ho anche nel cassetto una storia diversa: per l’ambientazione, che è vintage solo nella prima parte della vicenda, e per il genere che è la fantascienza.

  • Quando Emanuele Gagliardi non scrive, come occupa il proprio tempo?

            Prima che scrittore sono padre, marito e figlio. Quando non scrivo, ma allo stesso modo mentre scrivo, cerco di compiere al meglio queste tre funzioni perché colloco la famiglia al primo posto nella mia personale assiologia. Poi, al di là del tempo riservato al lavoro, mi piace dedicarmi alla passione che mi accompagna sin dagli anni dell’infanzia: la fotografia. Rigorosamente con apparecchi a pellicola, tutti modelli degli anni Sessanta e Settanta. Prediligo le stampe in bianco/nero e, per il colore, le diapositive.

  • Hai qualche consiglio da dare agli autori alle prime armi, soprattutto a quelli che si vorrebbero cimentare nel genere giallo/spy story?

            Anzitutto leggere i maestri del genere. Per quanto mi riguarda, Simenon, Scerbanenco, Fleming… Quindi definire e mettere a fuoco una propria nota caratteristica che ricorra in tutti i romanzi, magari raffinandola di volta in volta. Tener presente che il thriller, il noir sono più che altro un’atmosfera che deve coinvolgere il lettore non solo come co-investigatore, ma come co-protagonista. Evitare sconfinamenti nel sovrannaturale o nel fantascientifico, o comunque collocarli in posizione accessoria rispetto alla vicenda principale che deve viaggiare sui binari della concretezza.

            Infine, l’ingrediente fondamentale: tanta umiltà.

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Intervista a Simone Fanni

Profumo criminaleIntervista a Simone Fanni

 

  • Simone Fanni non è nuovo al genere giallo, nel recente passato ha pubblicato e ricevuto dei riconoscimenti proprio per il suo talento innato. Con “Profumo criminale” propone un romanzo dallo stile originale, per nulla scontato: un ottimo giallo. Come nasce la tua passione per questo genere?

Credo che siano tutti quei morti. In un giallo si possono mettere dentro tantissimi morti. Ogni scrittore di gialli sa bene che nel suo romanzo può metterci un numero a piacere di morti, la sola cosa che conta è che inizi a farlo già nelle prime pagine. Ho molta paura di morire, perché in quel momento sarò costretto a esserci. Mi consola il pensiero di non temere la morte, perché credo che la morte sia il niente. Sfido chiunque a toccare il niente. Qualcuno provi ad annusarlo e qualcun altro aguzzi l’udito nel tentativo di ascoltarlo. E vogliamo parlare di chi possa essere in grado di vedere il niente? Ho fatto questo discorso alla mia parrucchiera e mi ha detto che se guardassi i programmi di Maria de Filippi cambierei opinione.

  • Lo stesso inizio da modo di capire una certa propensione anche per l’horror, dal momento che la storia si basa proprio su uno scrittore di romanzi sui vampiri, condita però da una vena ironica davvero notevole. Questa caratteristica, data dal sarcasmo, è presente in tutti i tuoi romanzi?

L’ironia è la spada più affilata. Taglia in due il pubblico, separa quelli che la colgono da quelli che non ci riescono. Ma è anche la spada con l’impugnatura più scivolosa, se il colpo non è calibrato bene, la testa che vola è proprio quella dello spadaccino. Per questo, in tutte le mie storie, durante le operazioni di revisione, mi sono accorto di essermi decapitato almeno mille volte. Così, mi sono ricucito la testa prima di mettere i romanzi in vetrina. Purtroppo sono altre mille le teste che ho perduto quando ormai era troppo tardi.

  • I personaggi sembrano caricature di quel classico stereotipo presente in quasi tutti i romanzi gialli, tuttavia le descrizioni e il modo con cui li fai muovere all’interno della trama denotano una ricerca molto accurata del particolare, da dove trai lo spunto per scegliere i tuoi protagonisti?

Li metto nella scena che sto scrivendo e poi qualcosa succede sempre. Loro fanno cose, uccidono, amano, vincono e perdono, dormono e così via. Però non posso dire di avere una sorgente di spunti dalla quale sgorghino personaggi. Comunque “Profumo criminale” è diverso. Per la prima volta ci sono alcuni amici veri che si muovono in tempi e spazi immaginari. Sono Giulia, Augusto, Michele e Patrizio. Ognuno di loro, in qualche modo, condivide con me il piacere di collegare lo stomaco ai polpastrelli e pestare sui tasti di un computer per dare un corpo alle proprie fantasie.

  • Profumo criminale è decisamente un romanzo atipico, la lettura è talmente scorrevole e divertente che, arrivando alla fine, si ha quasi voglia di tornare all’inizio e ricominciare. Questo denota una grande maestria nel saper apporre dialoghi e fasi narrative, come e quando nasce la tua passione per la scrittura?

Nasce alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Ero povero, pieno di debiti e il mio corpo emanava un’aura di creatività repressa. Era un’aura insopportabile, la mia ex ragazza non riusciva a dormire per colpa della mia aura. Così, una sera, era tornata a casa con un corso di scrittura creativa preso in edicola per duemila lire. Non lo avevo neppure aperto, ma sotto il mio primo foglio bianco non avrei potuto avere nulla di più rassicurante. Con la biro tra le dita della destra, la fronte tra quelle della sinistra e il gomito sulla scrivania presa a rate, avevo partorito tutto d’un fiato un racconto breve sulla faccenda della diga del Vajont. Ecco là, il mio hobby low cost. Alcune ore dopo, la mia aura di repressione si era estinta e la mia ex aveva ripreso a dormire.

  • Nonostante l’ironia e la parte umoristica, il libro è veramente un giallo e la trama si dipana in modo elegante e fluido fino alla conclusione finale, ciò nonostante si ha quasi l’impressione che il protagonista sappia esattamente di essere all’interno di un romanzo e che tutte le decisioni finali le prenderà comunque lo scrittore. Questa scelta è voluta?

Naturalmente. Gli scrittori sono tutti pazzi e la scrittura non è altro che uno strumento per veicolare un delirio di onnipotenza. Lo scrittore non decide solo la sorte degli altri, per fare questo basterebbe essere un assassino, un giudice, un insegnante, un dittatore o il direttore di una banca. Lo scrittore decide chi ama e chi non deve essere amato, nessun altro può farlo nella vita reale.

  • Francesco, il tuo protagonista, è decisamente un personaggio bizzarro, un anti eroe che non sfoggia né muscoli né particolari doti alla Sherlock Holmes per giungere a scoprire il vero colpevole della vicenda. Tuttavia, la sua simpatia e il suo essere quasi fatalista lo aiutano a superare i momenti critici, quanto sei Francesco nella vita reale?

Quale vita reale?

  • E a proposito di vita reale, un passaggio del tuo libro dice: “Anche se certe volte non si può fare a meno di confondere il romanzo con la realtà, morire fra le righe di un libro non è proprio come morire nella vita” il tutto scritto in un momento piuttosto surreale. Questi accostamenti fra “serio” e “faceto” sono studiati appositamente oppure hanno origini naturali?

È tutto studiato. Il senso di questa storia è l’inevitabile distorsione della realtà. Il messaggio nascosto tra una parola e l’altra è che ciascuno di noi vede le cose dal proprio punto di vista e su quello costruisce un’opinione. La condizione geografica e sociale, la musica che possiamo ascoltare, l’arte che ci circonda, avere due genitori che si amano, essere un figlio sano, andare in parrocchia oppure a visitare un museo, tutte queste cose sono fogli trasparenti sui quali qualcuno ha scarabocchiato qualcosa per noi. Dopo aver sovrapposto tutti i fogli trasparenti, gli scarabocchi si incrociano ed è impossibile vedere cosa ci sia dall’altra parte. Quindi, non credo che esista un’oggettività delle cose, se questo è il modo di intendere la realtà.

  • Il protagonista è appunto uno scrittore che spesso si interroga sulle strategie migliori per vendere un libro e per tornare a cavalcare l’onda del successo, quanto hai studiato realmente il mondo dell’editoria per giungere a determinate conclusioni?

Ogni prodotto, un paio di occhiali, un orologio, l’articolo di un quotidiano, il panino del pub di Giulio, è cucito su misura per il cliente e i libri non fanno eccezione. Le realtà locali sono la strada per vendere quel tanto di copie che basta per arrotondare lo stipendio. Ti faccio un esempio: se scrivessi un libro sulla madonna che appariva ogni terza domenica del mese sul soffitto della camera da letto di un’amica di mia zia, quasi tutte le parrocchie del Nordest farebbero a gara per avermi come ospite della domenica e i fedeli sarebbero felici di acquistare una copia del libro con la mia dedica. Ma a me non interessa, preferisco raccontare i morti ammazzati a quelli che vogliono leggere i capricci del mio stomaco.

  • Isabella e Francesco sono nomi piuttosto ricorrenti nelle tue pubblicazioni, che cosa rappresentano per te?

L’amore.

  • Quanto tempo impieghi per preparare un libro che sia pronto per la pubblicazione?

Le storie che ho pubblicato le ho scritte quasi tutte in meno di dodici mesi. “Profumo criminale” è il romanzo più breve che abbia mai pensato, ma ho lavorato due anni su queste pagine perché le riempivo contemporaneamente a quelle di un’altra storia a proposito della quale sono costretto a mantenere la massima segretezza.

  • Passiamo ora a conoscere brevemente l’autore, non solo come magnifico scrittore di gialli, ma anche come persona. Quando Simone Fanni non scrive, come occupa il proprio tempo?

Quasi tutti i giorni Simone Fanni legge qualcosa e fotografa qualcuno. Una volta all’anno, insieme a pochi parenti e amici, gira l’abominevole film di Natale. Il film è abominevole perché i parenti e gli amici sono veramente degli attori cani.

  • Quali sono i prossimi progetti che hai nel cassetto?

Scrivere ancora, naturalmente.

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Intervista a Paolo Ferruccio Cuniberti

Un'altra estate di Paolo Ferruccio CunibertiIntervista a Paolo Ferruccio Cuniberti

 

  • Ben arrivato Paolo, siamo davvero molto curiosi di conoscerti meglio e non solo attraverso le tue opere, ma anche come persona e come scrittore. L’esserti recentemente classificato fra i 19 finalisti per Sanremo Writers 2014, grazie al libro “Un’altra estate”, non è altro che l’ennesimo riconoscimento alla tua bravura, come ti fa sentire? Quali sensazioni suscita in te?

R: Il romanzo Un’altra estate dopo Sanremo Writers (che ha visto circa 400 partecipanti) è stato anche tra i sei segnalati del premio Saturnio – Città di Moncalieri e sarà in concorso prossimamente per altri eventi simili. Sono ovviamente piccole gratificazioni che fanno piacere, anche se in fondo non sono così importanti per imporsi all’attenzione di una platea ampia di lettori. Si dice che l’unico premio che veramente “muove il mercato” è il premio Strega, ma, come ben sappiamo, ci vuol ben altro per arrivarci (e non parlo solo di qualità letteraria…).

  • Come è iniziata la tua carriera di scrittore?

R: A parte i tentativi che ho fatto da ragazzo, come tanti, è la maturità che mi ha fatto riscoprire il talento latente per la narrativa. Per molti anni non ho scritto in termini creativi, anche se ho studiato le strutture formali del romanzo con i classici della critica letteraria: Propp, Bachtin, Lukács, Genette, Eco… poi mi sono occupato di studi sulla cultura popolare con un taglio decisamente scientifico/antropologico, scrivendo alcuni articoli per riviste culturali. Ora li ho riuniti nel volume Orsi, spose e carnevali che ho pubblicato per l’editore Araba Fenice, ma sono destinati a un pubblico decisamente di nicchia. Invece, con la narrativa mi sono sentito libero di utilizzare tutti gli strumenti acquisiti, di metterli anche da parte, e lasciarmi portare dal divertimento di scrivere. Per certi versi i miei romanzi li considero un’evoluzione dei lavori precedenti: uno scrittore è sempre un po’ antropologo, perché descrive e analizza i comportamenti umani e sociali.

  • Le tue pubblicazioni seguono un filo logico, formando quasi una trilogia che riporta alla memoria un passato a cui apparteniamo tutti, sia personalmente che come frutto di scelte generazionali, vuoi parlarcene?

R: L’idea della trilogia è arrivata dopo il secondo romanzo ambientato negli anni 80, Indagine su Anna. Il romanzo d’esordio è stato Body and soul, dedicato agli anni 70. Un libro breve, scritto in poche settimane, quasi di getto, che racconta come vivevano i giovani in quegli anni a Torino, e con l’intento dichiarato di dimostrare che, in fondo, in Italia non si è riusciti a cambiare molto in positivo, e che tutti i nostri problemi attuali sono gli stessi, o quasi, di allora. In quel decennio c’erano forse più ideali, più sogni, ma la cruda realtà era destinata a spezzarli presto; è anche un libro che racconta la passione per il jazz e come questa possa condurre al furto… Anche questo romanzo è andato in finale al premio InediTo 2012. Con il romanzo sugli anni 80, invece, ho voluto narrare una storia un po’ più noir, un’indagine sui costumi di una signora “bene”, mostrando attraverso questa vicenda (narrata anche in forma epistolare) quale fosse la superficialità del vivere e la crisi di valori in quegli anni (quelli della “Milano da bere” per intenderci, anche se la storia è sempre ambientata a Torino), e come la trasformazione sociale si fosse ormai compiuta in senso deteriore, così come ancora oggi la vediamo. Era inevitabile tirare le fila di questo discorso, riavvolgendo il nastro e tornando ai cruciali anni 60 con l’ultimo romanzo.

  • Il tuo ultimo libro, “Un’altra estate”, richiama eventi e atmosfere tipiche degli anni ’60, su cosa ti sei basato per scrivere questo romanzo?

R: Ho individuato nel decennio degli anni 60 la radice delle più profonde trasformazioni sociali che ha vissuto il nostro paese. E’ stato il decennio della definitiva scomparsa della civiltà contadina italiana, una civiltà millenaria. Si pensi che ancora negli anni 50 oltre la metà della popolazione attiva era addetta all’agricoltura, mentre oggi è ridotta a malapena al 5 per cento. Cavour nell’800 scriveva che l’agricoltura “era la più gradevole e conveniente” forma di lavoro possibile. Negli anni 60 del secolo dopo, invece, quasi nessuno voleva più fare il contadino. Si sono spopolate le montagne, le colline, il Sud. Si preferiva la catena di montaggio in Fiat piuttosto che imbracciare ancora una zappa. D’altra parte la meccanizzazione moderna dell’agricoltura richiedeva ingenti investimenti che nessun mezzadro o piccolo proprietario italiano era in grado di sostenere. Ma è un discorso che ci porterebbe lontano, anche se lo trovo appassionante. L’emigrazione verso le città industriali non è stata dunque soltanto da Sud a Nord come spesso si sostiene, ma soprattutto dalla campagna arcaica alla città industriale. La fine di quella civiltà ha comportato profondi cambiamenti negli individui, nelle relazioni sociali, nella cultura del paese. Questa è l’osservazione che sta alla base del romanzo, peraltro la “mutazione antropologica” era già stata vista da Pasolini nei primi anni 70. I miei protagonisti, un ragazzo del Nord e una ragazza del Sud, vivono spaesati tutte le contraddizioni del periodo, tra vecchie tradizioni e desiderio di modernità, rappresentato dal segreto acquisto di un 45 giri dei Rolling Stones.

  • Si è detto che in parte il libro può essere anche interpretato come una biografia, quanto ti rappresenta questo romanzo?

R: Nell’ultimo romanzo, come in parte anche nei precedenti, racconto di fatti, ambienti e persone (anzi, meglio dire personaggi) di cui ho fatto esperienza nel corso della vita. C’è la mia campagna piemontese di quand’ero bambino, dove trascorrevo l’estate, e le terre siciliane che ho conosciuto anni dopo, anche attraverso i racconti di mia moglie e dei suoi genitori, con fatti e misfatti. Ma il processo creativo della scrittura li porta evidentemente ad assumere ruoli per così dire “iconici”, nel senso che devono rappresentare in maniera inequivocabile il contenuto, il messaggio, che voglio trasmettere. Perciò ogni vicenda, ogni protagonista non esiste nella realtà così com’è ma è frutto di un’elaborazione, di una costruzione, di una strategia comunicativa. Insomma, nella narrativa non si fa né storia, né cronaca, occorre sapientemente condurre il lettore per mano, farlo identificare con i personaggi e le loro vicende fino alla parola Fine.

  • Si può dire che quasi tutti i tuoi libri portano un’impronta piuttosto evidente di quelle che sono le tue esperienze personali?

R: Come dicevo, i miei romanzi sono solo in parte autobiografici. Utilizzo dei materiali personali o li prendo a prestito da qualcun altro, ma me ne servo per inventare i personaggi e le loro storie, per farli muovere nel loro contesto in maniera credibile. Io non ho mai fatto il contadino, né sono mai stato in galera per furto… come avviene a qualche mio protagonista.

Ovviamente, se mi vengono in mente episodi divertenti o significativi che mi sono realmente capitati li posso anche utilizzare. Nell’ultimo romanzo, che è ambientato parzialmente in Sicilia, ho anche elaborato una reale vicenda di mafia accaduta alla famiglia di mia moglie e che da tempo tenevo particolarmente a raccontare. Tuttavia non ne conoscevo tutti i dettagli e ho colmato con l’invenzione, anche a fini meramente narrativi. Credo di aver trovato la chiave giusta per raccontarla e che la storia sia riuscita bene.

  • Il tuo genere narrativo è piuttosto raffinato e trae anche le radici dalla tua propensione a ricercare il lato etnologico e folcloristico di quanto ti circonda, potresti dire di sentirti vicino a grandi autori come Cassola o Moravia?

R: Quelli che citi non sono gli autori che ho amato di più, anche se naturalmente li ho letti. Forse i miei riferimenti stanno di più in un certo mondo einaudiano, e vanno da Pavese a Fenoglio a Calvino, per esemplificare con alcuni degli italiani. Di Pavese ho amato la tormentata profondità (era anche studioso di antropologia e l’ha introdotta nella casa editrice), di Fenoglio condivido le radici e capisco a fondo i suoi personaggi, di Calvino invece ho ammirato la levità dello scrivere (l’eleganza anche) e soprattutto l’ironia. Senza l’ironia i miei romanzi sarebbero come quelli di un  certo neorealismo piagnone. Mi piace anche la brevità. Non riesco a scrivere trecento pagine per esprimere un concetto. Spesso i grandi scrittori moderni si sono espressi al meglio nel racconto lungo o romanzo breve.

Una mia recente (ahimè tardiva) scoperta tra gli stranieri è John Fante che negli anni 30 scriveva già come si dovrebbe scrivere oggi. Descrizioni e dialoghi fulminanti, tragicomici. Ma se dovessi elencare tutti quelli che ho apprezzato ci vorrebbe troppo tempo. Ogni autore ti lascia qualcosa di importante, è il bello della letteratura.

  • Recentemente hai partecipato al Salone del Libro di Torino, le opinioni sono piuttosto contrastanti, c’è chi lo ritiene l’ennesimo flop e chi invece ne parla in termini entusiastici, quali sono state le tue impressioni?

R: Sinceramente, i difetti del Salone di Torino trovo siano più meno sempre gli stessi. Gran kermesse, rumorosa, piena di tutto e di più. Credo che l’obiettivo principale dell’organizzazione sia quello di sopravvivere. Come al solito attirano il pubblico solo gli autori famosi, quelli più televisivi, mentre per la piccola editoria e gli autori emergenti non c’è quasi nessuna possibilità di avere sufficiente visibilità. Tuttavia spiace non esserci. Personalmente ci sono stato per due giorni perché invitato a parlare in un paio di eventi. Forse senza queste occasioni non ci sarei neppure andato. Non è nemmeno conveniente per acquistare libri!

  • Spesso la figura dello scrittore è legata a degli stereotipi che lo presentano come un alcolizzato rubacuori o come un avventuriero senza scrupoli, tu come vivi, invece, questo fattore?

R: Aspetta che bevo un sorso di whisky e faccio scendere la pupa bionda dalle mie ginocchia… dicevi prego? Scherzi a parte, la figura che descrivi appartiene un po’ ad un certo tipo di eroe romantico del mondo culturale americano dove non sono mancati effettivamente individui del genere, penso a Scott Fitzgerald, Hemingway, Kerouac,  Bukowski, lo stesso Fante che citavo prima, mentre gli italiani (e gli europei in generale) sono sempre stati un po’ dei “professorini”. L’ultimo di questi che mi viene in mente per esempio è Baricco. Però si tratta di generalizzazioni e ognuno fa caso a sé. Non sopporto comunque i saccenti, chi se la tira troppo, i palloni gonfiati.

  • Quale dei tuoi romanzi ti ha dato più filo da torcere, facendoti sudare le proverbiali 7 camice?

R: Sicuramente Indagine su Anna. L’ho tagliato, riscritto parti, rimontato più volte e non ero mai soddisfatto, tant’è vero che non l’ho mai mandato a nessun concorso letterario perché temo il giudizio. Eppure è un libro che a molti è piaciuto (ad altri meno). Sarà che tratta argomenti anche “scabrosi”, il nudismo, il sesso di gruppo, il voyeurismo, sebbene non siano l’oggetto e l’obiettivo principale delle mie intenzioni, è sempre difficile affrontarli a mente sgombra e con il tono giusto. Temi che il lettore si concentri solo su questo, perdendo di vista gli altri significati. La narrazione poi è a più voci perché è anche in parte un romanzo epistolare: ci sono le lettere del marito e le risposte dell’investigatore, ovviamente in prima persona; poi in terza persona si delineano i caratteri della segretaria, dello stesso investigatore e dell’investigata col suo mondo. Insomma, non è stato un libro semplice.

  • Quando Paolo non scrive, come impiega il proprio tempo?

R: A parte la quotidianità, ultimamente mi sono buttato nella conduzione di una trasmissione radiofonica settimanale di jazz. Pareva una passeggiata e invece mi sta occupando, anche mentalmente, più del previsto. Ho seguito il Torino Jazz Festival, con interviste e dirette di concerti live. Tra poco seguirò il festival Alba Jazz con collegamenti con gli organizzatori. Poi occorre fare ricerche, documentarsi… Un bell’impegno.

  • Infine, quali progetti hai nel cassetto?

R: Dal punto di vista della scrittura mi sono preso una pausa. Il mio ultimo romanzo è uscito nell’autunno 2013, i due precedenti nel 2012 e 2011. Un libro all’anno direi che è una produzione abbastanza intensa. Ora mi sto dedicando alla promozione e mi accollo l’organizzazione di parecchi eventi, anche perché il mio piccolo editore EEE-Book non può fare di più, ma questo vale anche per Araba Fenice con l’altro libro di saggistica. Nell’arco dell’estate avrò ancora diverse date, la più interessante delle quali dovrebbe essere in Sicilia, dove sono stato invitato come autore ospite nell’ambito delle manifestazioni organizzate dal Parco Letterario Pino Battaglia (poeta di Aliminusa nelle Madonie). Poiché Un’altra estate racconta proprio di quei luoghi, è parso bello poterne parlare proprio sul posto. Forse farò anche una serata esattamente nel feudo che ho descritto nel libro, nella piazzetta tra le case in pietra. Con la dolce aria estiva delle sere siciliane.

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Intervista a Leonella Cardarelli

religioni e spiritualitàIntervista a Leonella Cardarelli

    • Ben arrivata fra noi Leonella, il tuo libro colpisce e incuriosisce, soprattutto in quest’epoca in cui, fra mille polemiche e altrettanta indifferenza, l’essere umano pare abbia realmente dimenticato lo spirito con cui affrontare la religione. Come nasce il tuo libro?
      Salve! Il libro nasce da una serie di appunti, successivamente approfonditi e rielaborati; mi sembrava un lavoro fatto bene e ho pensato di pubblicarlo.

    • Pensi che l’uomo moderno non possa più credere moderatamente, limitandosi a diventare ateo o, al contrario, passando all’estremismo?
      Mah… io penso che ognuno è libero di credere in ciò che vuole e di fare ciò che vuole ma senza arrecare danno agli altri e senza imporre le proprie idee. Diffido da chi assume posizioni eccessivamente rigide, su qualsiasi tipo di argomento, perché la rigidità rappresenta sempre una forma di chiusura. Il punto è che oggi stanno venendo meno molte certezze e molti punti fermi perciò si cerca di aggrapparsi a qualcosa pur di sentire un senso di appartenenza.

    • Dal momento che concordo con te a proposito del fatto che l’antropologia non può non essere presa in considerazione quando si parla di religioni globali, come il cristianesimo o l’islamismo, le variazioni che ogni popolo aggiunge al proprio credo religioso, pensi che ne sfigurino il pensiero originale?
      Beh, in parte sì… ad esempio oggi se  si incontra una donna con l’hijab molti dicono “ha il burqa”, invece il burqa è un’altra cosa, cioè copre tutto il corpo, occhi compresi, e non rientra nell’islam. Molti elementi che vengono attribuiti alla religione in realtà sono frutto dell’uomo.

    • Personalmente, tu come interpreti il credo religioso?
      Personalmente mi definisco panteista.

    • Pensi che possano esistere dei parallelismi fra la teologia in genere e la mitologia, il folklore e l’odierno fantasy?
      Sì, certo, la letteratura, la mitologia e il folklore sono pieni di simboli.

    • Infine, la domanda di rito: che cosa vorresti consigliare a un autore esordiente?
      Di scrivere col cuore.

 

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