Vendere libri con gadget

Vendere libri con gadget

di Irma Panova Maino

Il marketing è tutto e se il prodotto in sé non fa abbastanza gola, allora potrebbe diventare interessante con qualche altro abbinamento. Non si salvano più nemmeno i libri.

L’idea non è nemmeno così nuova come si potrebbe pensare e, detto francamente, non è nemmeno una delle più riuscite, tuttavia, e bisogna proprio dirlo, è quanto meno curiosa, soprattutto se si pensa che a promuoverla è stata proprio La Feltrinelli che, fino al 18 febbraio, regalava una soffice coperta (in ben tre soggetti da collezionare) se si acquistavano due libri della collana Universale Economica.

Cosa c’è di strano?

In effetti nulla. Il fatto rappresenta la più classica delle campagne promozionali, in cui si viene invogliati ad acquistare più prodotti per avere in regalo un altro oggetto. Acquista tre balsami e ti diamo in regalo lo shampoo, oppure prendi due pacchi di biscotti e ti regaliamo il guanto da forno sponsorizzato…

L’elenco potrebbe diventare lunghissimo, però soffermiamoci un momento: davvero ai libri serve questo tipo di pubblicità per poter essere venduti?

E, nota bene, nel caso della Feltrinelli la collana era persino quella Economica, quindi già a buon mercato. Buon mercato… si fa per dire, ma questo è un altro argomento. Torniamo ai gadget. Sempre nel caso de La Feltrinelli l’oggetto da regalare a fronte di ben due acquisti era una coperta, anzi un plaid. Per carità, con le giornate fredde che ci sono state, una copertina, bella calda, da mettersi addosso sul divano quando si legge fa sempre comodo.

Chissà se a qualche altro editore viene in mente, per il prossimo inverno, di regalare anche una tazza di cioccolata calda. E per l’estate?

Quali gadget potrebbero tornare utili? La crema solare? Un bel paio di occhiali da sole? Oppure maschera e boccaglio per i più avventurosi?

Ci sarebbe da chiedersi quale abbinamento proficuo potrebbero applicare gli editori specializzati in erotici… ma non vogliamo saperlo.

E se da una parte tutto questo ci fa sorridere, immaginando gli abbinamenti più strampalati, il sorriso si spegne se consideriamo che per riuscire a vendere un libro, anche in edizione economica, si è costretti a inserire “l’invogliatore”, ovvero quel qualcosa che spinga all’acquisto.

Ma come? La trama non basta più? La copertina sfiziosa e graficamente ineccepibile? E la quarta di copertina? Magari il volume personalizzato con la dedica scritta personalmente dall’autore? No?

Evidentemente no. Non basta più scrivere un buon libro, scriverlo in italiano corretto (o farselo correggere da chi l’italiano lo conosce), corredarlo di una copertina accattivante e, magari, farselo pubblicare da un buon editore. Per vendere un libro bisogna renderlo più appetibile, invogliare il pubblico a scegliere il titolo X piuttosto che Y, oppure l’editore Z piuttosto che W, e non perché Z sia più affidabile di W ma perché Z vi dà anche il plaid.

Beh, se questa è la tendenza, adeguiamoci.

Se leggete due miei articoli vi mando una biro (Bic, ovviamente) in regalo!

Un classico è per sempre? Sì, ma…

Un classico è per sempre? Sì, ma…

di Irma Panova Maino

Un classico è per sempre. Il motto, buono per ogni stagione e in ogni accezione – si può applicare ad automobili, a vestiti, a cibi – è tornato, fortuna nostra, a griffare l’editoria nostrana. In tempi di vacche magre narrative – scrivono in troppi, troppi libri inutili – gli editori si danno all’usato sicuro, il ‘classico’, appunto, smaltandolo con nuova traduzione.

Questa affermazione è tratta da un articolo de Linkiesta.it, noto magazine online. Vuole essere provocatoria, sarcastica, ironica? Probabilmente no. In ogni caso, la pubblicazione dei classici della letteratura è una pratica assai comune ed è diventato il mezzo più comodo per assicurarsi un determinato introito, anche a discapito della letteratura moderna e del normale evolversi del panorama culturale nostrano.

Se da una parte è pur vero che il self publishing ha permesso a chiunque la pubblicazione e ha ridotto notevolmente la qualità dei libri posti in circolazione, dall’altra è anche vero che molti autori hanno potuto presentare al pubblico opere di qualità, senza passare attraverso i meccanismi stritolanti di un’editoria spesso truffaldina.

Puntare il dito solo sugli autori, oppure solo sugli editori, sarebbe comunque sbagliato, così come sarebbe inesatto pensare che la differenza la possa fare solo la grande editoria nostrana. Dal momento che è il nostro panorama culturale che ci interessa, il concorso di colpa, prodotto da atteggiamenti “sbagliati” di tutte e tre le categorie (autori, piccoli e medi editori, nonché grandi poli editoriali), ha creato una situazione stagnante ed allarmante.

Le poche menti illuminate, che ancora investono onestamente in scrittori esordienti ed emergenti, sono gli inconsapevoli baluardi di una cultura che potrebbe svanire, fagocitata da “classici” provenienti da altri tempi, da altri paesi e da radici culturali lontane anni luce dalla nostra quotidianità. Per carità, niente da ridire su Boris Pasternak o Marcel Proust ma, considerando la società e il momento storico in cui viviamo, come possono questi autori, peraltro defunti da tempo immemore (pace all’anima loro), rispecchiare sentimenti e idee appartenenti a questo secolo e al nostro modo di vivere?

I “piccoli” esordienti ed emergenti italiani sono i veri testimoni di un’epoca che appartiene a tutti noi, Sono i portatori di un verbo che è il nostro e ci calza addosso con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. I modi di dire, gli strafalcioni, persino gli intercalari dialettici, fanno parte di noi, del nostro bagaglio culturale e di tutto quello che abbiamo ereditato, nel bene e nel male, da altri che, prima di noi, hanno vissuto le gioie e i dolori del loro tempo.

Certo, sarebbe auspicabile una maggiore cura nella stesura dei testi, un editing fatto con cognizione di causa, l’appoggio di un editore che sappia fare il suo mestiere… ma tutto questo, alla fine, nulla toglie al ruolo indispensabile che rivestono gli autori del nostro tempo.

Purtroppo, la legge del mercato prevede comunque un bilancio a fine anno, stipendi da pagare, bollette da evadere, altri oneri di vario genere e, con quello che resta, un budget da investire per l’anno successivo. Questo pregiudica, per molti editori, la possibilità di credere nel “nuovo”, di puntare su cavalli che potrebbero non sembrare vincenti e che, senza la dovuta cura, hanno più l’aspetto del ronzino piuttosto che del purosangue da corsa.

Allora, lunga vita a tutte quelle Case Editrici che ancora credono nelle possibilità offerte dagli scrittori italiani, noti o sconosciuti che siano, che accolgono in catalogo titoli che, forse, un domani risplenderanno nel pantheon dei classici, e che tengono alta la bandiera di una cultura che ha ancora molto da offrire, nonostante tutti gli scetticismi e le polemiche.

In un mio futuro più roseo, negli scaffali di librerie virtuali e fisiche si potranno trovare, con pari diritto e dignità, sia opere prodotte da scrittori autorevoli sia libri scritti dai nuovi pionieri della letteratura.

Si può vivere senza Amazon?

Si può vivere senza Amazon?

Dopo la recente decisione della Edizioni E/O di non vendere più i propri libri attraverso lo store, viene spontaneo chiedersi se si può davvero vivere senza Amazon, come editori.

Il dubbio nasce anche dai molteplici fattori che costituiscono appunto il rapporto con il più grosso store online sul mercato, rapporti spesso non facili e, ancora più spesso, più vantaggiosi per il grande colosso che per il piccolo editore.

Non c’è nemmeno da fare paragoni con le grandi Major nostrane dell’editoria, le quali si sono costituite piattaforme dalle quali vendere i propri prodotti, decisamente in barba ad Amazon, arrivando a far costruire appositi lettori digitali così da non dover dipendere proprio da nessuno. Il resto del mercato editoriale, costituito però dalla maggioranza delle Case Editrici medio/piccole, è legato a doppia catena con il grande store, il quale impone politiche che, per tanti aspetti, diventano penalizzanti e spesso creano disagi non sempre risolvibili in modo celere.

Dalla scarsa comunicazione al boicottaggio vero e proprio, avere a che fare con Amazon non è mai semplice e talvolta è più facile evitare il confronto piuttosto che perdere tempo in inutili e snervanti procedure burocratiche. Eppure, la considerazione più immediata che viene da fare è quella che porta alla domanda: ma senza, quanta visibilità potremmo avere?
Detto in poche parole, un piccolo editore quante possibilità ha di potersi far notare, di poter far conoscere i titoli che ha in catalogo, se non può usufruire di un mezzo come quello che Amazon propone?

Per contro, quante possibilità ci sono di sparire in mezzo a milioni di altri titoli, se lo stesso colosso decide di “guardare da un’altra parte”?

In realtà, i modi per affossare i libri di un editore sono tanti e non sempre sono così facilmente individuabili. Basta davvero poco. Basta non inserirlo nelle promozioni programmate. Basta ritardarne gli ordini. Basta non farlo comparire nel motore di ricerca. Basta creare continui intoppi, come copertine che non si vedono e libri che sembrano non essere al momento disponibili.
Ogni singolo aspetto, ogni singolo ostacolo costituisce un granello che porta il meccanismo a incepparsi e il risultato diventa evidente quando un possibile lettore non riesce a ottenere il libro che vorrebbe leggere. O che potrebbe voler leggere.

A questo punto torniamo alla domanda iniziale: si può vivere senza Amazon?

Probabilmente sì. Probabilmente, con molta fatica e con una buona dose di fortuna, continuare a vendere libri, senza dover passare attraverso le maglie del mega store, si può. Edizioni E/O ha già una buona fetta di lettori su cui poter contare, persone che già costituiscono una base solida che non necessita di altro se non di poter continuare a leggere i propri beniamini, come ad esempio la Ferrante. Ma il resto dei medio/piccoli editori può davvero permettersi questo rischio?

Forse sì. Forse i tempi sono abbastanza maturi per poter azzardare un simile passo, tenendo conto che ormai i lettori non sono più così sprovveduti, come lo erano una decina di anni fa, e che in molti si sono attrezzati per letture in digitale e sanno che cosa è un download.

Quali sarebbero i vantaggi per l’editore? Costi e guadagni prima di tutto, poi un rapporto diretto con i lettori, un migliore investimento dei budget destinati alla promozione e, soprattutto, un controllo totale del venduto.

Gli autori, dall’altra parte, dovrebbero cambiare determinate abitudini, alcune decisamente perverse (il girone dantesco che s’innesca con le recensioni su Amazon sta rasentando la follia) e altre forse un po’ più faticose ma, a lungo andare, magari anche più soddisfacenti.
Per i lettori non cambierebbe poi molto, esistono altri store online che si possono utilizzare per i propri acquisti letterari, esistono i siti istituzionali dei vari editori dai quali poter comprare ed esistono migliaia di blog e gruppi sui più comuni social network pronti a dare consigli di lettura, recensioni più o meno veritiere e pareri su qualsiasi cosa.

Quindi, nella mia visione di un futuro più roseo esistono store online che non dettano legge e non costringono i piccoli editori a sottostare a clausole più o meno vessatorie con la scusa che se non esisti sulla loro piattaforma non sei nessuno.

La stanchezza del web

La stanchezza del web

Il web, un tempo luogo sovraffollato, oggi lamenta un silenzio inquietante. La poca voglia di comunicare è un fattore passeggero? Oppure diventerà sempre più frequente?

di Irma Panova Maino

Nulla è più stancante come stare tutti i giorni sui social ed essere presenti sul web.

Partendo da questa affermazione e tenendo presente che le considerazioni che vengono fatte vertono sempre su quanto gira attorno al mondo editoriale e letterario, parlare di “stanchezza” in questo caso ha un significato ben preciso: la mancanza di voglia di interazione sociale.

Persino litigare sui social non è più divertente.

Questa sorta di moria la si vede un po’ ovunque, la si scorge sui profili sociali degli utenti, nella mancanza di commenti, perfino nella mancata partecipazione ad eventi in cui non sono richieste particolari capacità, impegno e presenza costante.

Il boom sociale dell’inizio millennio è andato esaurendosi, corroso dall’energia impiegata in polemiche, dibattiti accessi su qualsiasi argomento, anche i più futili, disgregato da assurde corse all’ultima parola e da inutili passaparola sull’ultima bufala di moda. Quante ore sono state spese in sterili chat su messanger? In vane discussioni su gruppi whatsapp? E, in altrettanto infruttuose contese su qualsiasi altra piattaforma sociale?

Quante volte abbiamo scatenato, anche senza volerlo, polemiche assurde nate a causa di un post infelice? Oppure a causa di una battuta che avremmo voluto che fosse solo spiritosa? O magari a causa di una nostra ingenuità o distrazione?

Scrivere qualsiasi cosa e immetterla nella rete è diventato uno sport pericoloso e bisogna stare attenti a tutto e a tutti perché qualsiasi termine può essere male interpretato e un qualsiasi accostamento di parole può essere visto come un atto discriminatorio, razziale, vessatorio, ingiurioso e, comunque, discutibile.

Forse, proprio per questo motivo, i social stanno diventando luoghi di silenzi, di ectoplasmi evanescenti, di presenze inquietanti che spuntano e svaniscono alla velocità di un battito di ciglia. E le volte in cui, finalmente, si trova un po’ di “movimento”, sono quelle dove è appena esplosa la bagarre per… per? Per che cosa?

Nel nostro campo le motivazioni sono sempre le stesse: una recensione negativa, un autore mal visto da un altro autore, un editore poco trasparente, un libro copiato (forse). Eppure, anche in questo caso, se fino a un paio di anni fa questi fattori avrebbero scatenato faide destinate a far impallidire Il trono di spade, oggi si esauriscono con la stessa velocità con cui sono esplose e nel giro di pochissimo torna a regnare il silenzio di sempre.

Un silenzio rilassante per i nervi e per le sinapsi, ma poco edificante per chi con il web lavora e ha bisogno di poter avere dei riscontri. Ciò di cui si lamentano gli addetti ai lavori, quelli che con la rete ci vivono, è proprio la mancata interazione con le utenze. E, a parte i soliti “idioti” che commentano in modo inappropriato sotto qualsiasi post, i pareri interessanti, quelli dati dalla gente comune che un cervello ce l’ha e lo sa usare benissimo, mancano e latitano clamorosamente. Il punto, sempre stando alle statistiche, alle analisi dei dati e ai monitoraggi, è che le persone leggono, leggono di tutto, leggono decine, centinaia, migliaia di articoli tutti i giorni… ma non commentano, non interagiscono, evitano di proposito di dire la loro.

L’epoca del “commento a tutti i costi” pare essere tramontata, il desiderio di voler comunque lasciare un segno del proprio passaggio, magari anche solo con un emoticon, sembra essersi spenta nel mare dell’indifferenza, del già visto e del già letto, e la voglia di poter dare una propria opinione, anche se stringata e minimalista, sembra essere definitivamente naufragata come il Titanic colpito dall’iceberg di un eccesso di comunicazione.

Ed è forse proprio in questo che si cela il nodo gordiano: Troppa comunicazione crea, infine, la mancanza della stessa.

La libertà di parola ha costruito il muro del silenzio e l’enorme scelta di mezzi, con cui più facilmente si può entrare in contatto con gli altri, ha per assurdo innalzato i confini dietro i quali è più facile nascondersi. Da qui la latitanza e la stanchezza del web. La necessità, quasi viscerale, di tornare a un contatto più reale e meno virtuale, più umano e meno robotico, a un linguaggio più parlato e meno binario.

Nella mia visione di un futuro più roseo esiste un giusto equilibrio fra mondo virtuale e reale, ovvero una corretta interazione che riporti la gente comune sul web e non solo per girare nei siti a luci rosse o per “spiare” i vicini di casa.