Intervista a Luca Ranieri

Intervista a Luca Ranieri

Ranieri_EEEPer quanto possa essere un esordiente, Luca Ranieri possiede uno stile di scrittura inconfondibile, un’impronta elegante e raffinata che rende riconoscibili i suoi scritti. Dietro una porta chiusa è il primo libro che pubblica con EEE, tuttavia, fin dalle prime battute il lettore s’immerge nel racconto costruito con la stessa abilità con cui uno scrittore più navigato potrebbe intessere una trama.

Abbiamo avuto modo di conoscerti attraverso le antologie che abbiamo pubblicato, tuttavia, questo libro si “spinge” un po’ più in là rispetto alle trame a cui siamo abituati, scritte da tuo pugno. Lo definiresti più un giallo, un thriller o un horror?

Credo che “Dietro una porta chiusa” ricada più nel genere thriller, benché non ami molto porre etichette. Mi piace tenere un ritmo veloce e scrivere sul confine che separa il reale dal fantastico per suscitare nel lettore la sospensione dell’incredulità. È il terreno su cui preferisco camminare da lettore: quella zona in cui, pur nella consapevolezza di essere immersi in una storia di pura fantasia, ci voltiamo di scatto all’udire di un rumore improvviso.

Il tuo protagonista è un ragazzino di dodici anni. Nella letteratura vi sono diversi esempi eccellenti in cui sono proprio gli adolescenti quelli che meglio riescono a calcare il ruolo primario. Da Charles Dickens a Stephen King, diversi scrittori hanno prediletto questa soluzione lasciando intendere che solo attraverso occhi più giovani la realtà assume le proprie vere forme. Tu cosa ne pensi?

L’adolescenza è per tutti un difficile periodo di transizione. La realtà costruita dagli adulti è poco comprensibile agli occhi ingenui di un ragazzino, e diventa spaventosa qualora vengano a mancare delle figure di riferimento in cui trovare protezione. Andrea è solo al mondo come soltanto un ragazzo della sua età può sentirsi. Non c’è tempo né spazio per lui, tra gli interessi egoistici della madre e l’ondivaghezza della fede in cui cerca conforto alla fine.

Quanto si assomigliano, nella realtà, Andrea (il tuo protagonista) e Luca?

Credo che la personalità di un autore non possa fare a meno di contaminare in una certa misura i suoi personaggi. Il protagonista di “Dietro una porta chiusa” è un ragazzino spaventato e disorientato. La vita l’ha già colpito duramente all’inizio della storia, e il peggio deve ancora venire. Ma è anche dotato di una grande vitalità che gli infonde il coraggio, di cui ha bisogno, per trovare risposte fondamentali.
Parte della personalità dell’autore è in linea con il personaggio? Può darsi, ma questa non è in fondo la storia di tutti noi? Siamo tutti autori coraggiosi delle nostre vite: le scriviamo pagina dopo pagina tra tante difficoltà fino all’ultimo capitolo che irrimediabilmente pone fine alla storia. Siamo tutti eroi, quindi non esistono eroi, e nei miei racconti infatti non ne troverete. Amo parlare di persone normali che vengono catapultate in situazioni anormali. Così è più divertente, no?

Pubblicare in formato digitale è una scelta controversa per molti autori. Pensi che vi siano più possibilità, per un esordiente, di riuscire ad arrivare sul mercato in questo settore? Oppure la carta stampata possiede ancora quel suo fascino incontrastato?

Tutto il patrimonio culturale umano è in corso di digitalizzazione ormai da molti anni. È solo questione di tempo prima che il supporto fisico si estingua. Basta pensare a Wikipedia, allo streaming in alta definizione di musica e film, all’adozione dei tablet a scuola. Tutto ciò consente di ridurre l’investimento iniziale connesso alla distribuzione e, nella maggioranza dei casi, la pubblicazione dell’ebook è l’unica strada percorribile per un autore sconosciuto.
Ritengo che le case editrici si trovino di fronte a una grande sfida in tal senso: spero che dopo un periodo di transizione, dovuto alla novità, riconoscano le loro responsabilità nei confronti dei lettori e non siano tentate dalla pubblicazione indiscriminata di opere spesso non all’altezza. Gli ebook avranno la stessa dignità dei libri cartacei nell’immaginario collettivo soltanto se noi – autori e case editrici – gliela daremo.

Sei arrivato alla scrittura di un libro grazie a qualche autore che ti ha particolarmente colpito? Oppure hai scritto la storia di getto, senza seguire uno stile particolare?

L’autore che mi ispira maggiormente è Stephen King, ma amo anche H.P. Lovecraft ed Edgar Allan Poe. Leggo comunque anche numerosi altri autori come Peter Straub, Patricia Cornwell, Glenn Cooper, Giorgio Faletti, solo per citarne alcuni.

Ho iniziato a scrivere racconti ai tempi di scuola. All’epoca non esisteva Facebook e i blog erano appannaggio di giornalisti e personaggi pubblici. Le comunità online erano formate da sparuti gruppi che avevano ben pochi mezzi per entrare in contatto.
Gli aspiranti scrittori potevano comunque proporsi gratuitamente e anonimamente su Usenet, la rete dei gruppi di discussione (newsgroup). È proprio qui che ho iniziato a confrontarmi, raccogliendo i primi frutti di una passione che troppo spesso resta sopita, vuoi per pudore, vuoi perché la vita di tutti i giorni ci obbliga a dedicare la quasi totalità del tempo ad attività “più importanti”, quelle con cui, parliamoci chiaro, ci guadagniamo da vivere.
Dopo anni di pausa, ho pensato fosse il momento di rispolverare la vecchia passione, quell’impeto creativo che mi faceva stare tanto bene durante l’adolescenza. Ho scoperto che funziona ancora e negli ultimi tempi mi sono dedicato alla scrittura di romanzi e racconti.

Fatti strani e incomprensibili possono sempre trovare una spiegazione logica? Oppure può esistere un “territorio” in cui è meglio non entrare? E quanto può essere semplicemente imputabile alla suggestione?

La mente umana cerca sempre delle risposte e quando esse sono al di fuori della sua portata, ricorre alla fede e al soprannaturale. Molto spesso il terreno minato è proprio il subconscio, per cui si tende a proiettare le paure e creare mostri o illusioni che consentano alla natura umana di dissociarsi da una realtà troppo ardua da sopportare. È ciò che accade al piccolo Andrea in “Dietro una porta chiusa”, dove lo spettro è proprio la sua guida verso la verità che tanto teme.

Pur avendo girato il mondo, hai ambientato il tuo romanzo a Roma. Il tuo è un omaggio alla Terra natale oppure una scelta obbligata?

Roma è la città in cui ho vissuto più a lungo e di cui conosco meglio la realtà. La mia storia aveva bisogno di un’ambientazione pervasa da degrado e chiusura mentale, e le periferie romane sono il teatro ideale di certe rappresentazioni. Un consiglio che do a tutti gli scrittori esordienti è quello di scrivere di ciò che si conosce.

Cosa si cela dietro alla tua porta chiusa?

Le paure che affliggono la nostra vita quotidiana di esseri umani moderni e civilizzati. Non c’è bisogno di immaginare fantasmi e mostri feroci per suscitare emozioni forti nel lettore, anche se a volte essi sono protagonisti di una simbologia utile a visualizzare le paure e a proiettarle al di fuori, proprio allo scopo di renderle meno difficili da sopportare.
I nostri fantasmi sono il dubbio dell’inadeguatezza, la paura della solitudine, lo spauracchio del tradimento, il senso di perdita imminente che proviamo in certi frangenti. Cosa c’è, infine, di più spaventoso dell’eterna incertezza in cui le nostre esistenze di esseri mortali sono sospese?
I veri mostri sono quelli che abbiamo dentro: non c’è bisogno di crearli, basta evocarli.

Quando Luca non scrive, come occupa il proprio tempo?

Amo ascoltare la musica (rock e jazz) e fare lunghe camminate. La lettura occupa poi un posto molto importante: leggo tutte le sere fino ad addormentarmi. Nessuno può diventare un buon autore se non è prima un grande lettore.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sono impegnato a tempo pieno con un lavoro molto interessante, che mi fa girare il mondo e conoscere tante realtà diverse. Nel tempo libero continuo a lavorare su un paio di romanzi che spero di pubblicare. Non so se la scrittura occuperà mai un posto anche nella mia vita professionale. Di certo resterà sempre una grande passione.

Intervista a Elisabetta Bagli

Intervista a Elisabetta BagliVoce

Voce è la nuova silloge di Elisabetta Bagli, una poetessa che s’impone sul panorama internazionale per la sua grande capacità d’interpretare l’universo femminile, rendendolo attuale, seppure impregnato dell’emotività tipica di un mondo ancora per molti versi tutto da scoprire. Elisabetta porta con sé un bagaglio notevole, compreso fra cariche e onorificenze, nonché riconoscimenti per quanto i suoi versi riescono a trasmettere.

  • Perché il titolo è proprio Voce?

Il titolo di questa silloge è Voce perché è la mia voce interiore che si fa leggere e ascoltare per la prima volta. Questa raccolta è stata il mio debutto letterario nel 2011 e, pertanto, in quel momento mi sembrava opportuno evidenziare la mia voce, che rinchiusa per tanti anni nel mio cuore e nella mia testa, aveva trovato il modo di uscire allo scoperto, rivelandosi senza pudore, ovvero senza quel pudore tipico di chi sa che con la poesia si rimane completamente “nudi”. La prima lirica del libro, infatti, si intitola proprio Voce ed è proprio leggendola che si comprende il significato del titolo dell’intera raccolta. Nel frattempo, però, la mia Voce è maturata e, quando mi si è proposta l’occasione di pubblicarla di nuovo, ma questa volta in altra veste, con una casa editrice, la EEE, abbandonando l’autopubblicazione con la quale era nata, l’ho fatto ben volentieri, decidendo di inserire un’ultima sezione, quella dedicata alle donne, proprio per far gustare al lettore il mio percorso interiore in continua evoluzione.

  • I temi trattati nella tua silloge sono tanti, ma tutti hanno in comune una tipica visione femminile della realtà. Cosa ispira la tua lirica?

La mia fonte di ispirazione è il mio mondo, quello in cui vivo quotidianamente, fatto di piccole e grandi cose. La società, nella quale è necessario combattere per potersi far sentire è anch’essa una fonte inesauribile di ispirazione. Spesso, uso proprio la tastiera o la penna, a seconda se mi trovo a casa o per strada, per modulare la mia voce in ogni luogo, proprio per farla divenire più forte ogni giorno che passa. La paura di essere se stessi c’è sempre, ma ora so che, nonostante le critiche più o meno costruttive che si possano ricevere, l’importante è tirar fuori quello che si ha dentro e farlo arrivare al lettore, farglielo sentire.

  • Le condizioni femminili sono cambiate nel corso dei secoli, tuttavia, alcuni episodi di cronaca confermano che, per certi versi, tanto ancora si deve fare. Quanto senti tua la condizione di donna in questa era moderna?

La sento moltissimo, ma devo dire che la sento più per i miei figli che per me. Ormai io ho raggiunto quel che ho raggiunto, allonatanandomi un bel po’ da quel che prevedevo per me agli inizi e sono molto soddisfatta. I nostri figli hanno da imparare e molto. Instillare in loro la cultura del rispetto verso il genere femminile e verso l’umanità nel senso più ampio, formata da tante persone simili e diverse, è per me il compito più arduo che possa esistere. I genitori devono educare al rispetto dell’altro e per se stessi, sempre! Per me è uno dei più grandi valori da trasmettere. La donna ora sta riscoprendo la sua reale forza e sa che ora ce la può fare a sconfiggere violenze e soprusi, a farsi valere perché non è inferiore a nessuno. Non parlo di maschilismo o di femminismo, parlo di donne che nel corso della storia sono state denigrate e usurpate (non solo dagli uomini) solo ed esclusivamente per il fatto di essere donne. Questo, oggigiorno è inaccettabile. Uomini e donne conoscono il valore della parità dei sessi e sanno che la collaborazione tra di loro porta a grandi risultati in ogni campo. Perché schiacciare il mondo femminile, quando invece, proprio da lì esplode la forza motrice che dà la vita in ogni senso?

  • Cosa pensi che potrebbero fare le donne per migliorare determinate situazioni in cui vengono coinvolte?

Trovare la forza di denunciare, di parlare, di dire quel che accade per trovare una soluzione, non dico la migliore, ma almeno la meno traumatica. È essenziale aiutarsi reciprocamente, sostenendosi con parole e fatti che vanno al di là del mero ausilio, ma che si traducono in vere e proprie cooperazioni capaci di costruire le fondamenta per un futuro diverso. Per questo ben vengano le Associazioni che sorgono all’uopo e ben vengano tutti i mezzi che sono atti alla protezione delle donne in difficoltà.

  • Tu vivi a Madrid, quanto influisce su di te il tuo essere straniera in terra straniera?

Un bel po’, in quanto mi sento più libera di esprimermi. Sembra un controsenso, lo so, esprimersi in un’altra lingua potrebbe “incatenare” le emozioni e i pensieri. Ma in Spagna c’è un modo di vivere che è completamente diverso dal nostro; nonostante ci siano moltissimi punti in comune con il Bel Paese, qui hanno un concetto di vita molto più libero, molto più tranquillo, meno formale. E anche se la vita scorre, scorre al ritmo dei madrileni che sono molto più calmi e si prendono le loro giuste pause dal lavoro, dal dovere. Non che non sentano la responsabilità di fare e di vivere, ma la sentono in un modo completamente diverso dal nostro. Per tale motivo, ho imparato a rallentare un po’ di più il ritmo e a godermi meglio quel che mi ruota intorno, famiglia e amici in primo luogo!

  • I tuoi interessi sono molteplici e non si fermano solo alla parola scritta, se non fossi una poetessa, cosa ti sarebbe piaciuto fare in campo artistico, o al di fuori di esso?

Bella domanda. Sono laureata in Economia e Commercio che poco ha che vedere con le materie umanistiche. Ho lavorato come commercialista nello studio di famiglia finché mi sono sposata nel 2002 e sono venuta a vivere qui a Madrid. Da quel momento in poi ho sentito la necessità di cambiare “chip”. La poesia e la scrittura in genere sono state passioni tardive e consapevoli e credo che avevo bisogno di essere un po’ più grande per sentirmi sicura della mia voce e tirarla fuori. Ma il primo amore non si scorda mai. Avrei voluto fare il liceo linguistico ed essere impiegata in qualche aerolinea per poter viaggiare. Sì, avrei voluto viaggiare, esplorare il mondo intero e non mi sarei stancata mai! Lo so ora come allora! Ma ho comunque avuto la fortuna di poterlo fare sia fisicamente, prendendo un aero, un treno o l’auto, sia in un modo più economico, ma molto soddisfacente, prendendo una penna in mano e scrivendo i miei viaggi, costituiti da panorami interiori e non. Ragazzi, scrivendo viaggio come una pazza, fuori e dentro di me! Sono tutto e tutti e nessuno, sono me stessa e mille e più persone anche quando scrivo poesie! Ecco cosa avrei fatto al di fuori del campo artistico, viaggiare! In campo artistico proprio non so… dipingo pure male! Anche se ho un discreto successo e chissà che un giorno non mi metta a fare un’opera d’arte che rimanga nella memoria… almeno la mia!

  • Tra le altre cose sei anche una cuoca provetta e le tue pietanze sono famose fra tutti coloro che ti conoscono, qual è il tuo piatto preferito?

Il mio piatto preferito è senza ombra di dubbio la parmigiana di melanzane. Poi la pasta alla norma, sempre con le melanzane. Mi piacciono molto le mozzarelle di bufala e il dolce per il quale farei delle vere e proprie pazzie è il cannolo siciliano! Amo il salato, l’amaro e il piccante e poco i dolci, ma per il cannolo farei davvero cose dell’altro mondo! È più forte di me, ne potrei mangiare un bel vassoio da due chili in meno di dieci minuti! Diciamo che i miei gusti culinari sono molto rivolti verso il Sud Italia! Per quanto riguarda la Spagna, invece, devo dire che adoro il modo di cucinare il pesce e i “mariscos” che ho iniziato ad apprezzare da che vivo qui, ma non parlatemi di dolci spagnoli vi prego! L’influenza araba si sente molto e sono… come dire… molto dolci!

  • Un libro è come una ricetta, le giuste dosi compongono un piatto perfetto, la mancanza di equilibrio fra i sapori portano a un qualcosa di poco commestibile, come vedi questo accostamento?

Lo vedo un accostamento fantastico, è calzante al massimo. Senza equilibrio nei sapori non si raggiunge la perfezione e il piatto non avrà successo. La stessa sorte tocca al libro. Se non si riesce a mantenersi equilibrati nelle varie parti, ma si dà maggiore importanza o all’una o all’altra parte, non si riuscirà neanche a terminarne la stesura, figuriamoci la lettura! La materia, sia essa narrativa o poesia, deve essere esposta in modo originale e unico per poter interessare il lettore.    

  • Quando Elisabetta non scrive, come occupa il proprio tempo?

Lo occupo lavorando, visto che da poco sono diventata Segretaria del Comites degli italiani a Madrid nella rete consolare italiana e traducendo poesie e articoli, non solo per diporto. Ma soprattutto, occupo il mio tempo per stare insieme alla mia famiglia. Ho due bimbi piccoli e un marito ai quali, mai e poi mai farei mancare la mia presenza e il mio supporto. Sono la mia vita, la mia vita vera!

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

È uscito da poco il mio quarto libro, il primo in spagnolo “Voz” (versione castigliana di Voce) con la casa editrice Ediciones Vitruvio e del quale faremo una prima presentazione a gennaio e poi… ho un progetto un po’ particolare che mi vedrà protagonista insieme a una poetessa del passato. Ma ne parleremo in un’altra occasione. Intanto prosegue sempre la promozione di Voce pubblicato dalla casa editrice Edizioni Esordienti E-book e poi ho anche altri progetti a breve e lunga scadenza che conoscerete a tempo opportuno.
Grazie di cuore per questa splendida opportunità che mi avete offerto per trascorrere un po’ di tempo insieme e potermi far conoscere, aprendo le porte della mia anima.

Intervista a Lorena Marcelli

Intervista a Lorena Marcelli

Marcelli_EEELa collina dei girasoli richiama i romanzi classici, in cui sono le storie di famiglia ad essere protagoniste, trame in cui l’essenza dei personaggi scorre insieme all’epoca stessa in cui vivono. Ambra ci porta all’interno delle mura in cui lei e le sue tre sorelle passano dall’età adolescenziale a quella adulta, raccontando le vicende che hanno segnato le loro vite.

  • Come nella migliore tradizione letteraria hai affrontato questa storia partendo da un precedente illustre: Piccole donne di Louisa May Alcott. Cosa ti ha affascinato di questo libro e cosa hai riportato nel tuo romanzo?

Ho letto “Piccole donne” quando, forse, avevo dodici anni e la figura di Jo March ha influenzato per sempre la mia vita di donna. Le mie sorelle sono quattro, come le sorelle March, ma è solo un caso, in realtà. Inizialmente le mie protagoniste erano cinque, ma poi, durante la stesura, ho eliminato la figura meno “forte” e con meno esperienze da raccontare. Nel mio romanzo ho cercato di riportare le dinamiche che si sviluppano all’interno di una famiglia di donne e le  diversità caratteriali delle stesse che, spesso, provocano liti e incomprensioni, a volte insanabili.

  • Il tuo è un romanzo caratterizzato soprattutto dalle figure femminili: Ambra, Perla, Giada, Topazio, la mamma e la zia. Questi personaggi hanno un riscontro anche nella realtà, oppure sono puramente frutto della tua immaginazione?

Le donne che hanno ispirato i miei personaggi esistono, anche se non appartengono alla stessa famiglia. La figura di Elia Diamante,per esempio,  a me molto cara, è stata  ispirata dalla zia di una mia carissima amica, donna buona e accogliente, a casa della quale ho passato moltissime estati della mia infanzia, e che oggi non è più fra noi.  Per le quattro sorelle mi sono ispirata al rapporto con le mie sorelle, raccontando, di tanto in tanto, episodi avvenuti quando eravamo più giovani.

  • Il tuo romanzo si svolge in terra d’Abruzzo, quali sono gli aspetti più caratteristici dell’ambientazione che hai scelto?

Io sono nata e vivo in Abruzzo e non andrei mai via dalla mia terra, perché è magica e accogliente. Non cito mai il paese dove si svolge la storia, ma chi lo ha letto,  ed è del luogo, ha riconosciuto i paesaggi inconfondibili del mio paese natio: Notaresco, in provincia di Teramo. La collina dei girasoli esiste davvero e lì c’è il rudere della casa abitava mia  madre, da piccola. L’Abruzzo è una terra ancora “selvaggia e incontaminata” e non tutti conoscono la bellezza dei suoi paesaggi. Abbiamo il mare davanti a noi e i monti alle spalle; siamo ricchi di boschi, laghi e antichi borghi medievali e spesso ci dimentichiamo di quanto siamo fortunati a vivere in questa meravigliosa terra, che ci permette ancora di crescere i nostri figli in mezzo alla natura. Ho cercato di raccontare la bellezza  del Gran Sasso e la rudezza degli abruzzesi , che, però, nascondono un cuore grande. Spero di esserci riuscita.

  • Nella società moderna le famiglie allargate non sono così scontate, come giudichi questo nuovo modo di allevare i figli? Viene loro a mancare qualcosa?

I figli hanno bisogno d’amore, sempre e comunque e le famiglie allargate, spesso, riescono a colmare i vuoti lasciati da genitori incapaci di amare. Ambra e le sue sorelle sono fortunate perché, nella casa dei nonni e della zia trovano l’amore che la madre non è in grado di dare loro. La mancanza dell’affetto materno, o la debolezza dell’amore paterno saranno sempre presenti nella vita di un figlio, così come lo sono  nella vita di Ambra e delle sue sorelle, ma l’amore “surrogato” di altre persone, siano esse zie o nonni, o addirittura nuovi compagni dei rispettivi genitori,  può fungere da ancora di salvezza e, a volte, lo è davvero.

  • Nel panorama letterario hai affrontato diversi generi, ce n’è uno che preferisci come autrice?

Diciamo che  amo scrivere, soprattutto, thriller storici, specie quando riesco a prendere spunto da personaggi realmente esistiti. Mi piace tutto quello che precede la stesura di un romanzo di questo genere: la ricerca storica, lo studio, la lettura di saggi tematici e, spesso, la traduzione di testi antichi.

  • E come lettrice?

Ho iniziato a leggere da ragazzina e , a sedici anni avevo già letto tutti i classici inglesi, francesi, russi e italiani. Ho diversi interessi e leggo quasi tutti i generi, ma prediligo i romanzi di narrativa, soprattutto se ambientati in Italia, i thriller storici e i libri di storia, in primis quella irlandese. 

  • La tua è una lunga esperienza nel settore letterario, come giudichi questi ultimi anni in cui tutti hanno la possibilità di pubblicare qualsiasi cosa?

Non sono assolutamente contraria al self publishing e credo che l’aspirazione di pubblicare il proprio lavoro sia legittima , ma credo anche che uno scrittore serio dovrebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere se quello che ha scritto è veramente degno di essere letto. I lettori dovrebbero essere rispettati e onorati con prodotti di qualità e non con storie senza una struttura tecnica o piene di errori grammaticali. Io ho scelto di percorrere una strada  in salita e molto lunga, ma non me ne sono mai pentita. Ho scelto di pubblicare pochi scritti e impiegando molto tempo per arrivare a farlo, ma,almeno, ho la consapevolezza di aver dato  ai miei lettori qualcosa di “buono”da leggere.

  • Si dice che gli italiani non leggono, ma è vero? Oppure è più vero che leggono ma comprano poco?

Gli italiani, almeno quelli che conosco io, leggono molto e comprano poco. Nella città in cui vivo la biblioteca comunale è subissata da richieste di romanzi pubblicati da poco ed è sempre piena di utenti.  Purtroppo il costo del cartaceo non permette a tutti di riempire le librerie come vorrebbero e non tutti sono propensi a leggere ebook. In realtà non lo ero nemmeno io, fino a un paio di anni fa, poi ho scoperto l’emozione che si prova avendo sempre a portata di mano centinaia di titoli, e , da allora, prediligo questo tipo di lettura. 

  • Quando Lorena  non scrive, come occupa il proprio tempo?

Lavoro in un  Ente pubblico fino alle quattordici, poi  passo gran parte del mio tempo leggendo, studiando, presentando in giro i  miei romanzi e parlando con i lettori, anche attraverso i social.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

In questi giorni sto finendo di tradurre gli atti originali del processo contro la prima strega d’Irlanda, Alice Kyteler, della quale ho già parlato nel mio primo thriller storico. È una storia avvincente e molto interessante e vorrei dedicarmi alla stesura di un romanzo storico sulla sua figura e sulla storia del suo processo.

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Intervista a Giorgio Bianco

Intervista a Giorgio Bianco

Copertina_EEEIn Dammi un motivo Giorgio Bianco condisce un romanzo con diversi ingredienti che non possono lasciare indifferenti. Le emozioni sono forti, incisive, segnano il lettore a ogni pagina trascinandolo in quello che sembra apparentemente un giallo ma che si rivela essere una storia in cui la fantasia cede il passo alla realtà

  • Non sei un autore dalle mezze misure, dunque di che colori definiresti il tuo libro?

I colori del tramonto, senza dubbio. Adoro l’azzurro mentre si spegne nell’arancione,  li amo entrambi quando precipitano nel nero.  Mi perdo nelle luci dei lampioni tremanti di freddo, nelle sagome umane che si affrettano verso casa. Chiudo gli occhi e ascolto le prime gocce di pioggia sbattute dal vento.
Ma, per rispondere in modo più esteso alla domanda, ho sempre avuto grosse difficoltà con le categorie: giallo, noir, rosa… Quanti colori per dire nulla! Io credo che un romanzo racconti una fetta di vita, e la vita non ha (non dovrebbe avere) un colore solo.
I miei romanzi partono sempre da un elemento molto forte, ciò che può farli sembrare dei gialli. Ma la morte, l’emergenza o un momento cruciale nella vita dei protagonisti, sono in realtà dei semplici strumenti: mi permettono di accelerare sui loro sentimenti. Perché quando le persone vivono una crisi grave, il  loro carattere dirompe con tutti i pregi e tutti i difetti. Lo provai in prima persona, quando morì mio padre ancora giovane. In quell’occasione, persone che credevo stupende diedero il peggio. Altre, che erano sempre rimaste nell’ombra, seppero regalarmi una via d’uscita mentre credevo d’impazzire.
Ecco dunque che l’emergenza, nei miei romanzi, non costruisce tanto un giallo, quanto una storia. Io parlo di persone che amano, odiano, sperano, si azzuffano, si accarezzano. Mai per caso, mai per noia: credo nella forza dell’intensità.

  • Nel tuo romanzo sono le figure femminili, Céline e Giulia, a condurre i giochi, perché non hai scelto dei protagonisti maschili?

Perché sono innamorato dell’universo femminile. Non solo: tale universo, almeno in parte, è il mio. Mi travolge, mi completa, mi riempie di vita e di mistero. Grazie alla componente femminile presente nella mia anima, posso ascoltare il suono di una sensibilità che diversamente mi sarebbe negata. Ed è proprio quella musica a muovere i sentimenti e le azioni delle due protagoniste.
L’affermazione “in ogni uomo c’è una donna”, può trovare in me una piena dimostrazione di fondatezza. La cartomante, quella vera, che ha ispirato la protagonista del mio romanzo, non ha dubbi: nella mia carta astrale c’è una dirompente quota femminile. E se sull’oroscopo posso avere dubbi, sui caratteri delle persone scritti negli astri ho avuto tante dimostrazioni di verità. Sono un uomo fortunato: amo le donne tanto da esserlo un po’ anch’io… Ed è una sensazione stupenda.

  • La trama presenta diversi momenti in cui entrano in gioco le differenze sociali e generazionali, come vedi questi due universi al giorno d’oggi? Secondo te ci sono punti di contatto?

Il tema della mescolanza sociale, con i dubbi sulla possibilità che si realizzi, mi accompagnano da quasi tutta la vita. Sono nato e cresciuto in una famiglia operaia, di periferia. Ero sensibile alle materie letterarie, quindi gli insegnanti della scuola media mi consigliarono il liceo classico. Con enormi sforzi, i miei genitori mi ci mandarono. Ricordo ancora i primi giorni, con i compagni di classe che avevano vocabolari di greco e latino vecchi e consunti, tramandati da generazioni. I miei invece erano nuovi. In quegli anni non ho vissuto un vero e proprio scontro sociale, ma qualcosa di più subdolo: l’impressione di essere accolto in un ambiente che in realtà è estremamente chiuso, salottiero, autoreferenziale. E’ l’area radicale, anche un po’ provinciale, di certi ambienti culturali italiani. O almeno torinesi.
Ma non tutto fu negativo, anzi. Alla fine del mio percorso, mi accorsi di essere diventato robustamente “trasversale”, cioè in grado di cogliere con serenità di giudizio gli aspetti positivi e negativi di ogni strato sociale. Nella mia vita di periferia ho visto catene roteare minacciose all’indirizzo di professori di scuola. Successivamente ho scritto personalmente articoli di cronaca nera dove i nomi di ex compagni di scuola media erano quelli di vittime della droga. Ma ho anche partecipato a incontri con personaggi di spicco della cultura italiana. Fra la barriera sud di Torino e il centro città, è come se avessi visto tutto il mondo. Ne sono uscito più forte, disincantato, abituato a combattere e a farcela da solo. E, soprattutto, mi sono guadagnato la stima e l’amicizia di alcune (poche) persone che vengono da ogni strato sociale.
Quindi i punti di contatto sono possibili e talora fruttuosi. Basta ricordare tre cose. La prima: farcela è una battaglia. La seconda, più importante: mai scimmiottare, mai fingere di essere qualcosa o qualcun altro. Chi non parte da sé stesso, precipita e si perde nella convenzione, in un tremendo e definitivo malessere interiore. La terza: mai chiedere. Stima sociale e autostima si fondano sull’autonomia.

  • Perché hai scelto per Giulia l’attività di cartomante? Sei superstizioso?

Sì, no, non so. Va bene come risposta?… Scherzi a parte, non avevo mai creduto negli oroscopi. Poi ho conosciuto una cartomante, la donna che ha ispirato “Dammi un motivo”. Una persona affascinante e problematica che mi ha spiegato in cosa consista la cartomanzia. Ebbene, le carte rappresentano una sorta di psicoterapia del popolo: servono a far sì che le persone si sfoghino, che abbiano qualcuno di cui fidarsi. Le cartomanti, quelle oneste, non illudono nessuno di poter curare anima e corpo. Ascoltano. E, attraverso la lettura delle carte, regalano calore umano, ciò che oggi manca sempre di più.
Tutto qui? No. Sarebbe troppo semplice. Su alcuni temi, in effetti, le cartomanti predicono il futuro. I classici amore, lavoro ed esami scolastici, per esempio. La salute? Sì, ma con prudenza: la cartomante onesta non si sostituirà mai a un medico. A un malato che è già in cura offre previsioni che lo confortino senza illuderlo e, soprattutto, i consulti sulla salute sono sempre gratuiti. Almeno quelli della mia amica. Ma allora, le previsioni sono attendibili o no? Non lo so, ma posso dire che la mia Giulia ha previsto, anche con una certa precisione, quando “Dammi un motivo” sarebbe stato pubblicato. Vi sembra poco?

  • Questa non è la tua prima pubblicazione e, come abbiamo già avuto modo di leggere in un tuo articolo (QUI), per te non esistono grosse differenze fra cartaceo e digitale. Come vedi il panorama editoriale attuale?

Con una certa frustrazione. Mi pare che ci troviamo in un momento difficile per l’editoria narrativa. Infatti da un lato abbiamo una produzione enorme, debordante. Dall’altro una qualità raramente buona, più spesso mediocre, talora scadente. Io lavoro in un giornale, dove i romanzi arrivano “con preghiera di recensione”. E’ imbarazzante valutare la diffusa mancanza di conoscenza della lingua italiana, della grammatica, delle concordanze, delle virgole, degli accenti. Ed è ancor più imbarazzante la povertà di idee, la stucchevole prudenza con la quale si vomitano interi capitoli di luoghi comuni, nella speranza di ossequiare il Dio Mercato e diventare finalmente ricchi o spezzare lo squallore di una vita attraverso facili successi.
Entrare in una libreria, o scorrere le vetrine dei negozi online, è ubriacante. Decine, centinaia di titoli e autori spesso sconosciuti. Come uscirne? Io faccio acquisti per istinto, talora prendendomi una fregatura, talora con buona soddisfazione. Acquisto anche qualche titolo consigliato da amici. Un fatto tuttavia è certo: dal sacrosanto diritto alla pubblicazione e all’auto-pubblicazione nascono mostri che hanno il torto di inquinare un mondo già molto fragile. Infatti tutti sappiamo che in Italia si legge poco. Una tendenza per la quale è fin troppo facile colpevolizzare la pigrizia mentale del pubblico. Esiste, lo so. Ma esiste anche un’offerta enorme e spesso scadente.
Non basta. A fare del male ci sono anche i libri scritti da “grandi nomi” costruiti a viva forza: non romanzi, ma operazioni di mercato. Un grande editore sceglie un nome e gli costruisce addosso un libro. Normalmente è una storia tecnicamente ben realizzata, in grado di colpire il grande pubblico grazie a banalità confezionate con i fiocchi e le frange. Poi il libro viene distribuito in modo massiccio, mentre gli altri scrittori si crogiolano nella frustrazione.
Io penso che la buona letteratura non sia più un fenomeno di massa, almeno non Italia. Ormai è come essere appassionati di filatelia e di numismatica, attività di nicchia. Ma alle nicchie bisogna parlare, provando con pazienza a costruire una piccola e sana rete di estimatori. E da lì provare a risalire la china. Chi ci crede, io per esempio, è chiamato a lavorare in modo umile e costante. La notte finirà.

  • Esiste un genere letterario che proprio non potresti affrontare come scrittore (perché non ti piace, perché non sapresti cosa scriverne o altro)?

Non mi piacciono i romanzi storici, poiché non riesco a farmi coinvolgere dalla trama. Sono prevenuto, lo ammetto. Non mi piacciono nemmeno i romanzi di spionaggio e i processuali, generi che preferisco al cinema.
Invece mi piace la fantascienza, ma non potrei mai scriverne. E’ un genere che prevede la capacità di costruire sistemi logici e convincenti, dote che mi manca senz’altro. Credo che la fantascienza sia di gran lunga il genere che espone maggiormente al ridicolo lo scrittore sprovveduto. Ma quando mi trovo di fronte a grandi autori, come Azimov, sono immensamente ammirato.

  • Esiste un autore che ha particolarmente colpito la tua immaginazione?

Céline, senza dubbio. Non a caso è il nome di una protagonista del mio romanzo. Céline per me è un eroe letterario, sociale, un eroe per la vita. “Viaggio al termine della notte” è il romanzo più autentico, spietato e coraggioso che io abbia mai letto. Contiene rabbia e disperazione, ironia e dolore. Ma soprattutto non cede mai alla odiosa tentazione di dividere l’umanità in due: buoni e cattivi. Céline è armato innanzi tutto di spirito critico, valuta ogni caso come gli si presenta, non s’innamora e non odia. E Céline, per fortuna, sbaglia. Che meraviglia, qualcuno che cade in errore, quando scrive e quando vive al di fuori dei suoi libri. Cercate una fotografia di Céline e osservate il dolore, ma anche l’orgoglio, il coraggio di cercare la verità. Io mi sento assediato da gente che ha sempre ragione, che vive il confronto con gli altri come un’occasione di prevaricazione e vittoria, gente che pone domande come se fossero insulti, e finalmente non ascolta le risposte. Ma perché? Perché si comportano così? Dovrebbero leggere Céline.

  • Si dice che gli italiani non leggono, ma è vero? Oppure è più vero che leggono ma comprano poco?

Sì, in parte ne ho parlato sopra. Leggono poco, è vero. Come dicevo un po’ li capisco, a causa dell’indigestione di titoli e della scarsa qualità.
Molti però sostengono che in Italia si legga poco per colpa della politica, dei governi che rendono stupidi i giovani. Argomenti che mi convincono poco o nulla. Ognuno di noi è libero, non possiamo sempre sperare di avere il governo giusto per schiodarci e leggere un libro. Certo, il contesto generale è importante. Ma non assolve gli indifferenti. Mi piace raccontare un episodio. Un paio di estati fa mi trovavo in montagna e volevo affittare una mountain bike. Per farlo bisognava consegnare un documento d’identità e il ragazzo che lo fotocopiò lesse “professione giornalista”. Iniziò a farmi domande e scoprì che scrivo romanzi. Mi disse: “Io non avevo mai letto un libro, se non quelli di scuola. Ma poi sono andato in biblioteca a fare una consegna e mi hanno consigliato un giallo. Accidenti, mi è piaciuto! Ti fa volare! Ma allora è bello leggere libri!”. Ecco. Forse quel giorno avvenne un miracolo. Noi che scriviamo dobbiamo, insieme ai nostri editori, offrire il nostro piccolo contributo per creare altri miracoli. Lamentarsi perché il mondo va male, mi pare una sciocchezza: cerchiamo invece di farlo andar bene!

  • Quando Giorgio  non scrive, come occupa il proprio tempo?

Lavoro per un sacco di ore al giorno, ma riesco a ritagliarmi degli spazi. La lettura e la musica sono per me essenziali. Ascolto soprattutto rock duro e decadente new wave, sono sempre agli estremi. Scrivo i miei romanzi con le cuffie nelle orecchie.
Adoro incontrare qualche amico e bere una birra insieme: non mi piacciono le “grandi serate”, ma le piccole occasioni per confrontarsi.
Mi piace molto percorrere chilometri a piedi in giro per Torino, la mia città. A volte vado a Milano per fare la stessa cosa. Sono un camminatore urbano. I musei mi annoiano, preferisco osservare i flussi dell’umanità.
Sono anche un grande appassionato di montagna e di sci. E mi piace correre nei parchi.
Con il mare ho un rapporto strano. Lo preferisco d’inverno perché detesto il caldo. Ma d’estate ci trascorro qualche settimana e finisco ogni volta per innamorarmene.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Escludo d’imparare a vivere in modo serio la mia età, ho 51 anni e giuro di averci capito nulla.
Sto scrivendo un altro romanzo: racconta di un giornalista che perde il lavoro e si rifugia nella corsa. Inutile dire che nella storia ci sono ampi riferimenti alla mia vita personale: faccio il giornalista da tanti anni, mi è sempre piaciuto ma sono stanco. La mia vera dimensione è rappresentata dai libri, quindi il vero progetto è riuscire a dedicarmi esclusivamente a quelli. Ma è un po’ come il desiderio del bambino che vuol fare l’astronauta. Insomma, si vedrà. Siamo qui per combattere, no?

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Intervista a Roberta Andres

Intervista a Roberta Andres.

Andres_EEELe foto di Tiffany è un libro in cui l’eros aleggia in ogni pagina. Tuttavia le sue componenti non sono basate esclusivamente su un rapporto di copia, ma comprendono diverse altre sfumature ben più vivaci dal neutrale “grigio”. Ma la nostra attenzione è stata catturata da un fiore, un semplice elemento che, messo nel posto giusto, è riuscito a far decollare la nostra fantasia.

  • Fra tutti i fiori che potevi scegliere, perché proprio un iris?

E’ un fiore che mi piace in maniera particolare, ma a parte questo volevo un fiore di forma allungata, che potesse finire nascosto nelle pieghe del corpo di Tiffany.

  • In questi ultimi anni il genere erotico ha decisamente preso piede in testa alle classifiche di vendita. Secondo il tuo punto di vista, dal momento che è il pubblico femminile ad essere il principale acquirente, questo fenomeno nasce da una sorta di frustrazione o liberazione?

Liberazione, senz’altro! La possibilità di scrivere, leggere, rivendicare una propria dimensione e dei propri sogni erotico-sentimentali al femminile.

  • Nel tuo romanzo il profumo dell’eros aleggia su molte pagine senza mai diventare eccessivo. Quanto pensi sia sottile la linea di demarcazione fra l’erotismo “soft” da quello “spinto”?

Credo che la linea di demarcazione sia molto sottile, così tanto che me ne sono tenuta volutamente lontana, limitandomi nelle descrizioni e nella frequenza di scene erotiche; sinceramente ho preferito fare così piuttosto che rischiare di essere eccessiva, cosa che avrebbe stonato moltissimo con la tonalità generale della narrazione e con il tipo di personaggio che volevo fosse Tiffany.

  • Dopo tanti racconti, quali difficoltà hai riscontrato nello scrivere un romanzo?

Come ho già detto in altre interviste, una delle mie caratteristiche quando scrivo è la sinteticità, anche quando non è voluta. Ammetto di aver sudato freddo all’idea di strutturare un romanzo; la maggior parte del lavoro di ampliamento della struttura, non solo in termini di lunghezza ma anche di complessità e descrizioni dei personaggi, l’ho fatto in un secondo momento, nella fase di revisione. Credo però che fosse una fase normale dell’evoluzione dal racconto al romanzo: già nella stesura del secondo, a cui sto lavorando da giugno, vedo che la narrazione fluisce naturalmente più ampia e circostanziata.

  • Sappiamo che il tuo “alter ego” si chiama Franca De Angelis, l’angelo custode che alla fine ti ha convinto a realizzare i sogni. Quali argomenti ha usato per farti compiere finalmente il primo passo?

Un giorno al telefono, mentre io continuavo a dubitare di poter scrivere, mi ha detto a bruciapelo: “Scrittrice lo sei già, ma una scrittrice pigra!” Devo dire che la cosa mi ha colpito nel vivo, sia per l’accusa di pigrizia sia per la persona da cui proveniva! Io e Franca siamo amiche da quando avevamo sei anni e ci trovammo in prima elementare ad essere le uniche due bambine a saper già leggere e scrivere. Fummo messe sedute vicine in fondo all’aula, con la facoltà di chiacchierare (purchè a bassa voce) mentre la maestra si occupava degli altri bambini. E’ iniziata così: dopo 44 anni siamo ancora molto legate e la scrittura è una delle tante cose che abbiamo in comune.

  • Quanto conta la psicologia in fase creativa? Ovvero, nel corso della tua esperienza come insegnante, quali sono state le difficoltà che hai riscontrato più frequentemente con i tuoi allievi?

Le stesse difficoltà che ho incontrato anch’io e che ancora ogni tanto incontro: autorizzarsi a scrivere (o, in generale, ad essere creativi), prendersi il tempo e riconoscersi le capacità e il diritto di affermare se stessi attraverso qualche canale preferenziale (come la scrittura), trovare insomma “la propria voce” o, se vogliamo parafrasare la Woolf, “la stanza tutta per sé!”

  • Il tuo contatto giornaliero con il pubblico ti aiuta nel prendere spunto per creare nuovi personaggi?

Certamente! A volte si incontrano persone che sembrano personaggi o si vivono situazioni buffe o inaspettate al punto che la più fervida fantasia non avrebbe potuto crearle dal nulla. E’ vero che la vita ha molta più fantasia di noi!

  • Cosa ne pensi del panorama culturale italiano?

Mi sembra un periodo di grande fermento, con mille esperienze e mille stimoli che a star dietro a tutto è impossibile: anche perché per molte cose non vale la pena! Ma sicuramente selezionando si trovano spunti interessanti di riflessione artistica.

  • Quando Roberta non scrive, come occupa il proprio tempo?

Sto molto con i miei figli, il più possibile, visto che stanno crescendo e tra un po’ avranno altro da fare! Cucino, leggo, chiacchiero a telefono con le mie amiche d’infanzia.

  • Quali sono i progetti per il futuro?

Dal punto di vista narrativo, finire “Floralapazza”, il mio secondo romanzo, e cercare di farlo circolare il più possibile tra i lettori: amo moltissimo questo progetto, mi prende molto e credo molto nell’idea narrativa che sta alla base del testo, quindi cercherò di fare del mio meglio perché “veda la luce”. Per quanto riguarda invece la mia vita privata, vorrei fare un viaggio con un paio di amiche con cui quest’anno ho condiviso un compleanno “tondo”.

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Intervista a Lidia Del Gaudio

Intervista a Lidia Del Gaudio.

Del_Gaudio_EEEIl segreto di Punta Capovento appartiene al genere romantico contemporaneo, non al rosa più classico ma a quella tonalità che colora la tinta di base con altre sfumature. Lidia Del Gaudio, nel suo libro, parla di sentimenti e di passioni, di sconfitte, rinunce, ma anche di quei riscatti che riportano gli animi a ricongiungersi nonostante tutte le avversità. 

  • Come definiresti il tuo romanzo, più sentimentale o più materiale? Ovvero, forse più legato alla concezione romantica di un rapporto a due, oppure immerso in una quotidianità in cui a volte il rosa si dipinge di nero e di rosso?

Il romanzo che propongo parla di sentimenti, ma non lo definirei sentimentale in senso classico. La storia che si racconta è una metafora, quasi una favola per adulti, nella quale i sentimenti devono fare i conti con una realtà non proprio quotidiana, bensì idealizzata e inarrivabile.

  • La tua protagonista passa attraverso situazioni che una normale eroina, di solito, non affronterebbe. Tuttavia, il personaggio resta molto credibile e il suo fascino non viene intaccato dalle vicissitudini, perché hai scelto una strada così controversa?

Perché non mi piacciono le cose troppo semplici, scontate, anche se so che a volte questo può risultare penalizzante. Quando mi domandano il genere delle mie storie non so mai cosa rispondere. Adoro le fusioni e le contaminazioni. Giulia, la protagonista del romanzo, resta uguale a sé stessa per tutto il racconto, ma la sua non deve essere intesa come una sterile mancanza di crescita personale, una incapacità di imparare dai propri errori, bensì come un ideale femminile unico e irripetibile, eletto a custode di un segreto.

  • Tu stessa scrivi: quelli descritti nei romanzi sono luoghi del cuore, a volte irraggiungibili. Preferisci, dunque, quelli reali o quelli dettati dalla tua fantasia?

Mi piacciono e li utilizzo entrambi. Ci sono storie che non hanno bisogno di una collocazione reale e concreta per funzionare, anche perché non esisterebbero delle ambientazioni corrispondenti a quello che si vuole raccontare; in altri casi, invece, il racconto vive proprio in virtù del suo essere calato nella realtà quotidiana di città e strade conosciute e perfettamente riconoscibili. Nel mio romanzo ho cercato di fondere il vero con l’immaginario, riportando alla luce anche luoghi di cui non abbiamo più memoria, ma che sono dentro di noi, nella nostra sensibilità. È lì che la mia protagonista spera di arrivare.

  • Il tuo romanzo ha come filo conduttore una leggenda che trasporta i protagonisti attraverso lo spazio e il tempo, ma Lidia quanto crede nel destino?

Razionalmente direi che non credo nel destino, ma questo fino a quando la mia anima pigra non ricompare e prende il sopravvento. A volte può risultare persino comodo giustificare le nostre mancanze con l’ineluttabilità del fato, mentre tante scelte dipendono unicamente da noi. D’altro canto siamo ostaggio della casualità più incontrollata. Quindi non so, diciamo metà e metà?

  • L’era moderna ha prodotto malattie date per lo più dai propri disagi interiori che da fattori ambientali, nello specifico la depressione diventa uno dei motivi che portano Giulia prima verso il baratro e poi verso il riscatto. In che modo interpreti questo “male oscuro”?

Più innalziamo le nostre aspettative, più siamo a rischio di depressione. Oggi, poi, tutto sembra così facile da raggiungere, denaro, successo, potere ci vengono mostrati di continuo e sembrano lì a portata di mano, ma poi ci sfuggono a vantaggio di altri che, a nostro parere, quasi sempre errato, non lo meriterebbero. E i tanti beni materiali che abbiamo a disposizione finiscono per togliere interesse alla nostra vita. So di dire cose che possono sembrare banali, ma è quello che penso. Una vita più semplice, il saper rinunciare al superfluo, a ciò che abbiamo di troppo, tanto di troppo che non riusciamo neppure a usare, magari condividendolo con chi ne ha bisogno, potrebbe essere di aiuto alla nostra ansia. Solo dedicarsi agli altri può concorrere ad allontanare le preoccupazioni e la nostra ossessiva autoreferenzialità. Ci sono poi dei momenti in cui una sana tristezza diventa un piacevole veicolo di riflessione, la consapevolezza di noi stessi, uno stop necessario in un mondo dove si incontra tanta superficialità e l’imperativo è doversi divertire ed essere felici a tutti i costi. Quando però la depressione prende l’aspetto della patologia, allora occorre avvalersi di ogni aiuto medico e psicologico per cercare di sconfiggerla.

  • I ruoli maschili nel tuo libro sembrano contrapporsi, da una parte il ruolo guida di Capitan Nadir e dall’altra l’atteggiamento impulsivo di Walter e Ted. Pensi che questo atteggiamento sia dettato solo dall’età o da una diversa visione culturale?

L’età c’entra poco, si tratta di una visione culturale. Quella che veniva proprio fuori dalla rivoluzione del ‘68, nel caso del padre, rimasta, almeno in questo caso, fedele a quei principi. Anche Ted e Walter sono figli del loro tempo e di una visione falsata dell’amore e dei rapporti con gli altri.

  • La scrittrice Lidia nasce in realtà dalle vesti di una lettrice cresciuta fra il frusciare delle pagine, quali sono stati gli autori che possono aver influenzato il tuo modo di scrivere?

L’elenco è lungo, anche se realmente penso di non assomigliare (purtroppo) a nessuno dei grandi autori che hanno accompagnato le mie letture. Diciamo qualche nome: l’immancabile Louisa May Alcott (che ho voluto omaggiare col nome del mio protagonista), Burnett, Malot, Salgari, e poi crescendo Moravia, Cassola, Rex Stout, S.King, Zafòn. Ovviamente ho fatto solo qualche nome, ma di tutti, anche dei tanti non citati, mi resta una grande unica ispirazione e uno stile che non saprei diversificare.

  • Detto fra noi, Giulia, Ted e Walter ti hanno lasciata finalmente andare, per cercare nuove storie e altri personaggi? Oppure ti tengono ancorata al largo di Punta Capovento?

Detto tra noi, sì, credo di avercela fatta, di essere finalmente pronta a salpare per altri lidi, anche se questi personaggi me li porto sempre nel cuore e ogni tanto ancora spiego le vele per un giro al largo del promontorio. Mi piacerebbe però che Giulia, Ted e Walter entrassero e rimanessero nel cuore anche dei lettori e che li facessero sognare come hanno fatto sognare me. All’inizio possono apparire anime fredde, ma nel corso della storia rivelano tanta passione.

  • Quando Lidia non scrive, come occupa il proprio tempo?

Ho molti interessi e sono molto curiosa di imparare sempre cose nuove. Un passato di pittrice e tanto amore per la musica. Adoro anche il cinema. Come ogni donna, poi, il tempo da dedicare alla casa e alla famiglia è sempre troppo poco.

  • Quali sono i progetti per il futuro?

Anche se dentro di me resiste un pensiero proiettato in avanti, cerco di vivere con una certa pacatezza, tenendo i piedi ben saldi per terra. L’unico progetto irrinunciabile resta comunque nella scrittura. Ho tante idee e alcuni lavori già abbozzati. Così spero di finire presto almeno un nuovo romanzo. Un thriller, magari.

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Intervista a Maria Scarlata

Intervista a Maria ScarlataScarlata_carusanza

Ben cinque generazioni si susseguono nel libro di Maria Scarlata, Mala carusanza, portando alla ribalta le tradizioni e la cultura che si evolve negli anni, arrivando fino ai giorni nostri. Tuttavia, se da una parte la società ha subito profondi cambiamenti, spesso in modo negativo, dall’altra è rimasta ancorata alle proprie radici e origini. In questo libro, in cui è la Sicilia a essere protagonista, attraverso le vicende di Tina e della sua famiglia, molto resta di un’Italia passata attraverso importanti vicende storiche.

  • Mala carusanza è un’espressione tipicamente sicula, cosa significa e perché hai voluto intitolare il tuo libro in questo modo?

Mia nonna era solita inserire spesso questi due parole per me sconosciute, nei fervidi racconti della sua infanzia, che narrava con un colorito linguaggio misto di vocaboli dialettali. A noi bimbi, tali termini risuonavano incomprensibili, dal momento in cui in casa ci si esprimeva soltanto in italiano. Col passare degli anni, soprattutto queste due parole, si fissarono negli angoli della mia memoria, tornando prepotentemente a galla con il loro senso di incompletezza, in quanto mi era ancora oscuro il loro significato. Fino a quando un giorno, venuta a conoscenza che “caruso” significasse “ragazzo” e “mala”fosse la definizione di “cattiva”, feci di questa assonanza, il titolo del romanzo che desideravo scrivere per omaggiare la tormentata esistenza di una donna tenace e granitica rispetto agli ostacoli del suo esistere. 

  • Hai trattato dei temi difficili e, forse, incomprensibili per le giovani leve di oggi. Come spiegheresti, ad esempio a una sedicenne, il matrimonio forzato di Tina?

Bisogna tenere conto del momento storico di ogni situazione per giudicare le azioni delle persone, anche se spesso sono in antitesi con il nostro pensiero di esseri umani moderni ed evoluti. Certamente alle ragazze di oggi risulta incomprensibile immedesimarsi in una storia come quella narrata, anche perché il contesto attuale è, fortunatamente differente rispetto a quello di un tempo. In una società molto maschilista, come evidenziato dal racconto, simili comportamenti erano quasi usanze consolidate e, venivano tacitamente perpetrate fin dai secoli passati, spesso senza incontrare resistenza anche da parte della persona offesa. In questo caso la protagonista, con la sua ribellione da adolescente indomita, tenta di squarciare la fitta tela delle consuetudini, opponendosi ad un matrimonio riparatore, ma tale atto coraggioso avrebbe avuto ripercussioni sull’esistenza della famiglia intera. Penso sia molto difficile opporsi al ricatto dell’essere responsabili dell’infelicità delle persone che si amano. Credo che per valutare ogni situazione bisognerebbe fare appello a quell’umiltà che ci impedisce di giudicare usando solo il nostro metro di valutazione, ma tenere conto che, si dovrebbe vivere ogni esperienza personalmente, prima di analizzarla in modo superficiale e, guardare sempre alle cose da diverse angolazioni, anche quando si veste il ruolo di lettori.
Le nuove generazioni, possono imparare, attraverso questo tipo di lettura, che quanto di buono oggi può essere da noi goduto, spesso si fonda sui sacrifici e sulle sofferenze di chi ha anticipato i nostri percorsi di vita e, tenere saggiamente a mente che la nostra fortuna è anche dovuta al fatto che i cambiamenti positivi, nella società, avvengono soltanto affrontando le situazioni con coraggio e, perseguendo finalità di comprensione e rispetto reciproco.

  • Le condizioni femminili sono cambiate nel corso dei secoli, tuttavia, alcuni episodi di cronaca confermano che, per certi versi, tanto ancora si deve fare. Quanto senti tua la condizione di donna in questa era moderna?

Le cronache quotidiane ci confermano che molto ancora si debba fare per educare gli esseri umani al rispetto, con un costante impegno, soprattutto da parte delle donne, per arginare l’aggressività e tutte le altre cause che conducono ai fatti aberranti che purtroppo nelle cronache sono sempre più frequenti.
Ogni donna, nella sua funzione di madre educatrice, deve essere portatrice di bellezza e fermezza nel contrastare le fragilità maschili che spesso sfociano in atti violenti. Si tratta di un costante  lavoro che sicuramente darà buoni frutti a lungo termine, ma ciò non può prescindere dal fatto che non si debbano mai perdere di vista quei valori che oggi sembrano essere in disuso.
In quanto donna mi sento felicissima di poter rappresentare questa categoria nella pienezza e completezza del termine, a noi è stato affidato giustamente il compito arduo di generare vite.
Mi avvilisce molto pensare che purtroppo, ancora oggi siano presenti i retaggi di mentalità distorte e retrograde che vogliono vederci confinate in ruoli secondari e che, il dito accusatore sia sempre rivolto nella nostra direzione, mentre l’unica salvezza dell’umanità, a mio avviso, potrà concretizzarsi solo attraverso dolcezza e comprensione, che spesso si connotano nell’essere donna.

  • Dopo il femminismo, la rivoluzione sessuale e il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, quali divorzio, aborto e altro, quanto pensi che siano realmente “forti” le donne di oggi?

Da secoli le donne sono l’emblema di forza e perseveranza. Le donne reggono prove quotidiane di coraggio non solo per le loro esistenze, ma per quelle di tutti gli esseri che sono stati a loro affidati, in primo luogo i figli, uniti da un legame viscerale. In questo consiste la vera forza femminile, connotata generalmente da un altruismo di fondo. Se riusciremo a tenere conto ed a sfruttare al meglio la nostra proverbiale solidarietà, magari in un futuro che mi auspico prossimo, si potrà beneficiare di una società dove tutti gli individui abbiano la stessa considerazione e gli stessi diritti a tutti gli effetti.

  • Oltre alla scrittura un’altra delle tue passioni è la pittura, qual è il tuo stile e cosa ami rappresentare nei tuoi quadri?

Non saprei definire con una connotazione precisa lo stile dei miei quadri. Alcuni li associano al naif, ma a mio avviso sono più dettagliati e più tendenti al realismo. L’uso plastico e materico del colore,  li rende quasi tridimensionali, questa valutazione è riferita a quanto fino ad ora mi hanno manifestato i miei estimatori.
Per quanto concerne il disegno, usando una tecnica paziente e ben dosata della grafite, il risultato è quasi fotografico.
Spazio in soggetti di varia natura ma, soprattutto la natura, in ogni sua manifestazione, è la fonte di ispirazione delle mie creazioni. Mi cimento anche nella ritrattistica, in quanto trovo molto affascinante, scoprire cosa celano i volti nell’istante in cui vengono catturati da una fotografia. Mi gratifica la possibilità di esternare sensazioni attraverso un dono ricevuto e coltivato con passione e dedizione pressoché trentennale.

  • Un libro è come un quadro, le giuste dosi compongono un’immagine perfetta, la mancanza di equilibrio fra i colori e le forme portano a un qualcosa di poco godibile, come vedi questo accostamento?

Direi, in tutta sincerità, che il paragone è perfetto. In qualsiasi forma artistica ci deve essere equilibrio fra i vari elementi perché il risultato sia godibile. Dosi eccessive di un ingrediente di qualsiasi piatto, ne pregiudicano il sapore equilibrato. Esiste comunque un margine soggettivo di tutti i componenti per far si che la fruibilità di un’opera sia sempre personale e mai massificata.
Nell’arte in genere, anche se gli strumenti di base sono gli stessi, il risultato finale non sarà mai identico per ciascun artista e, ciò ci rende speciali e mai imitabili nella nostra unicità.

  • Mala carusanza è il tuo primo libro pubblicato con EEE, editore prettamente digitale, come vivi il rapporto con la tecnologia?

Devo ammettere che con la tecnologia ho un rapporto distaccato e conflittuale. Se da un canto sono consapevole che sia necessario evolversi e far uso corretto di sistemi che ci migliorano l’esistenza, dall’altro rimpiango la poesia che era presente nei vecchi mezzi di comunicazione. Ho un ricordo nostalgico delle lettere, la trepidante attesa nel riceverle, il carattere della grafia, rivelatore di personalità e quant’altro scaturisce da un mezzo per nulla algido come uno schermo.
Conservo comunque l’abitudine di scrivere a mano le bozze dei miei lavori. A tal proposito ho ritrovato dopo un trentennio quella di “Mala Carusanza” che ha sortito in me ricordi sopiti dal tempo e rivelatori della mia giovinezza.
E’ evidente che nulla possa sostituire la praticità della tecnologia.

  • Recentemente sei stata presente al Salone del Libro di Torino, come hai vissuto questa tua esperienza e quali sono le riflessioni che senti di fare, anche se dettate da un approccio neofita?

E’ stata una giornata entusiasmante. Partecipare a questa manifestazione come autrice era quanto di meglio potessi augurarmi nel mio percorso di aspirante scrittrice. La soddisfazione di avervi preso parte è stata immensa, anche per le piacevoli conoscenze che si sono concretizzate nella giornata. Avere a che fare con chi condivide le tue passioni è sempre arricchente.
Erano inoltre presenti alcuni dei miei affetti più cari e sinceri e, la condivisione con chi mi vuole bene ed apprezza, ha reso speciale quel giorno atteso con trepidazione.
Vi ringrazio di tutto cuore per l’esperienza vissuta grazie alla vostra considerazione.

  • Quando Maria non scrive (oltre a dipingere), come occupa il proprio tempo?

Maria è una donna dalle semplici abitudini, fortunatamente incline verso forme artistiche di vario genere. Oltre ad occuparmi del mio lavoro, della casa e dei miei affetti, cucino con passione e, mi dedico al ballo. Canto sempre molto volentieri e, se non posso farlo per diletto altrui, mi esercito in solitudine con la radio, soprattutto con la musica leggera italiana, in quanto mi è più congeniale la comprensione dei testi, necessari per alimentare il mio spirito poetico.
Leggo con trasporto, ma vorrei avere più tempo per poterlo fare assiduamente. Purtroppo le giornate sono troppo corte …

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

A dire il vero sono diventata fatalista, per cui, evito di fare progetti a lungo termine, ma mi piacerebbe proseguire in ciò che faccio alimentando con costanza le mie passioni, tramite mostre di pittura, presentazioni dei miei scritti, che in parte sono già presenti in forma di bozze ed attendono di essere fruibili al prossimo, possibilmente non dovendo più attendere un trentennio per essere pubblicati. Ciò accadrà se persone come voi continueranno nel loro nobile ed apprezzabile intento.

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Intervista a Daniela Vasarri

Intervista a Daniela Vasarri

Maeva_EEEMaeva, la benvenuta è il tuo nuovo libro, molto particolare, dato l’argomento trattato: le adozioni. Mi colpisce questo fatto, la tematica è spesso sottovalutata, se ne parla poco e ancor meno si conosce delle difficoltà che insorgono nel momento stesso in cui si vuole affrontare questo percorso. Oltretutto la tua protagonista, Matilde, non può nemmeno contare sull’appoggio di un partner.

  • Partiamo, dunque, dal titolo, chi è Maeva?

Maeva è una bambina, scampata miracolosamente allo tsunami e dopo essere stata ritrovata all’età circa di due anni, è stata ospitata all’orfanotrofio di Bangkok.

  • Parte dell’ambientazione si svolge in Thailandia, perché hai scelto proprio questo paese, per quanto affascinante e ricco di tradizioni?

Sono stata in Thailandia alcuni anni fa, l’ho visitata fino al nord e ho potuto vederne aspetti anche non turistici. Mi ha affascinata pur nelle sue contraddizioni, ma soprattutto mi hanno dato grandi emozioni i bambini, al punto che avrei voluto “portarli tutti a casa”!

  • Tra l’altro, la tragedia che ha colpito questa terra è stata vissuta in maniera traumatica anche da tanti altri paesi, proprio per il fatto che, essendo la Thailandia una rinomata meta turistica, molti sono stati gli stranieri coinvolti. Tuttavia, questo spunto reale diventa un nodo importante nel tuo romanzo, quanto di quello che hai riportato nasce da un coinvolgimento personale e quanto è tratto dalla tua fantasia?

Come ho detto  sopra il coinvolgimento personale c’è stato, andando nei villaggi ho sentito forte il desiderio di maternità ma anche quello umano e sociale, perché davvero le loro condizioni sono poverissime e così distanti dalle nostre.

  • Come è nata l’idea per il romanzo?

Di quel viaggio ho conservato il ricordo e un giorno al computer è nata Maeva, nella mia fantasia.
La cosa straordinaria è che la mia piccola Maeva è diventata poi reale, perché, appena terminato l’editing del romanzo, una bambina in Corea è stata ritrovata e riconosciuta proprio come io ho descritto nell’epilogo del mio romanzo.

  • In quest’epoca moderna, in cui le donne fanno parte del tessuto sociale a pieno titolo, con tutti gli oneri che questo comporta, quanto pensi che possa ancora sussistere il concetto di “bisogno di maternità”, rispetto a come veniva interpretato nel passato?

Ritengo che il bisogno di maternità, quando bussa prepotente al cuore di una donna, non conosca limitazioni, sociali o economiche. Una soluzione, se davvero si vuole un figlio, la si trova. Chi rimanda per mille motivazioni, spesso si pente oppure arriva ad ammettere dentro di sé che, forse, non si trattava di una vera vocazione.

  • La burocrazia, se da una parte dev’essere complessa, proprio perché si parla di affidare dei bambini a degli sconosciuti, dall’altra diventa ostica e laboriosa. Cosa ne pensi?

Credo prima di tutto che vi debba essere un grosso e serio lavoro di verifica prima di dare in adozione un bambino, ma che, una volta accertate le condizioni favorevoli per l’adozione, si dovrebbe poter contare su tempi più brevi e con minori esborsi economici.

  • Spesso le adozioni riguardano bambini provenienti dall’estero, come mai si predilige un figlio proveniente da culture e mentalità diverse, piuttosto che uno italiano?

Questo è difficile da interpretare, in primis penso che noi, come cultura, non concepiamo di adottare un connazionale, poi credo che i bambini stranieri adottabili versino in condizioni economiche e sociali svantaggiate, quindi l’adozione diventa un gesto di sostegno più importante e gratificante per chi lo compie

  • Alcuni non riescono a fare a meno di porre delle distinzioni fra figli naturali e figli adottati, dimenticandosi che “un figlio” non è soltanto un “prodotto” genetico ma un essere umano che assorbe l’impronta della realtà in cui cresce, anche quella affettiva. Come vedi questa disparità?

La disparità esiste secondo me, ma non dal punto di vista giuridico, bensì da quello psicologico-sociale. Per gli esterni, non per i genitori adottivi, un bambino adottato viene visto purtroppo spesso come un “ripiego”, una consolazione per quella madre adottiva e questo può influenzare negativamente tutti i rapporti futuri del bambino stesso. Personalmente credo che un figlio naturale o uno adottato siano sullo stesso piano, se entrambi sono stati voluti e amati

  • Quando Daniela non scrive, come occupa il proprio tempo?

Leggo molto, mi dedico a letture di esoterismo, filosofiche, sono una curiosa, esploro la vita insomma. Poi di lavoro faccio tutt’altro, ma ho imparato a ben dividere la mia sfera d’interessi da quella lavorativa, che comunque svolgo con grande impegno.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Ritirarmi in Toscana e scrivere, studiare; per ora, dato che sono lontana dalla pensione, sto lavorando a un libro che è un divenire, tratta della ricerca o della conferma personale della fede.

Intervista a Valerio Sericano

Intervista a Valerio Sericano

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Intrecciare due storie contemporaneamente, presagendo un destino comune, non è così facile, soprattutto se le trame vengono intessute su piani differenti, prendendo in considerazioni ambienti e culture diverse dalla nostra. Valerio Sericano ha saputo creare, nel suo Ami dagli occhi color del mare, un romanzo ricco di fascino.

  • Ami dagli occhi color del mare è un titolo molto particolare che, a prima vista, aggiunge subito una nota curiosa al romanzo. Che cosa rappresenta?

Solitamente non ho problemi con i titoli dei miei lavori, perché nascono con la stesura del romanzo e non li cambio più. In questo caso ho invece completato il lavoro con un titolo provvisorio che non mi convinceva per nulla, finché una collega (di fatto, il mio comitato di lettura personale…), dopo aver letto il manoscritto mi ha detto: “Perché non lo intitoli semplicemente Ami?”.
L’avrei baciata. Ho solo aggiunto l’altra frase per meglio distinguere il mio romanzo da lavori già editi.
Non posso tuttavia dire nulla circa il significato di Ami, altrimenti svelerei il finale della storia. Dico solamente che lo si può scoprire avendo la pazienza di leggere tutto fino alla fine, perché la spiegazione del titolo avviene solo nelle ultime righe della vicenda.

  • Come è nata l’idea per il romanzo?

Si tratta di un lavoro contenente molti riferimenti alla mie esperienze di vita e a quelle della mia famiglia, anche se non lo ritengo un lavoro prettamente autobiografico. È risaputo che gli autori esordienti inseriscono molto di se stessi e delle proprie vicende nelle loro storie. Essendo questo il mio secondo romanzo, non ho fatto eccezione alla regola, avendo attinto a personali esperienze di vita. Comunque cito una curiosità, segnalatami da una lettrice, la quale mi ha scritto molto seriamente: “Interessante l’dea di trattare il tema della metagenealogia…”
Io, con molta semplicità le ho risposto: “Temo di non capire… Di che cosa stai parlando?”.
Lei mi ha inviato il link di una pubblicazione: Metagenealogia, di Alejandro Jodorowsky e Marianne Costa, un volume che teorizza come gli eventi passati della propria famiglia incidano sugli individui sotto forma di energia positiva e negativa. Non ne avevo mai sentito parlare, ma a conti fatti, il tema centrale del mio libro si basa proprio su questo argomento, di cui non sapevo assolutamente nulla mentre scrivevo la mia storia. Adesso dovrò leggere quel libro…

  • La tua passione per la terra nipponica scaturisce da ogni riga del tuo scritto, lasciando intendere che sia vissuta anche a livello reale, nella vita di tutti i giorni, come mai?

Non so perché, ma la cultura giapponese mi ha incuriosito da sempre. Soprattutto la storia di quel popolo, che considero unico al mondo. Ho letto molto a riguardo, rimanendone affascinato al punto da scrivere una tesina universitaria e desiderare di visitare di persona il Giappone. Quando finalmente vi sono riuscito, ho provato un’emozione talmente forte da innamorarmene. Conseguenza è stata anche portarmene un pezzettino in Italia, nella persona di mia moglie, giapponese di nascita che adesso vive con me in Italia. Valutando le cose nel loro insieme, non credo esistano al mondo due popoli e due culture più distanti fra loro di quella italiana e giapponese. Quando si dice che gli opposti si attraggono…

  • L’Argentina, terra dalle sfumature più simili alle nostre, è l’altra nazione protagonista del tuo libro, che rapporti hai con questo paese e perché di questa scelta?

L’Argentina non l’ho mai visitata e ho dovuto dar fondo alla mia passione di storico dilettante per creare gli ambienti nei quali calare i personaggi creati nella descrizione della seconda storia, quella riguardante l’emigrazione del primo novecento. Mi scuso per eventuali errori e anacronismi, sempre in agguato per chi si cimenta nel difficile ambito delle ricostruzioni storiche, in questo caso riscontrabili da chi mi leggesse conoscendo bene la realtà argentina, della Pampa in particolare. Tornando al tema della meta genealogia, citata in precedenza (chiedo ancora scusa, adesso che ho imparato una parola nuova ne devo fare sfoggio… ehm), devo dire che sono cresciuto sentendo molto parlare di Argentina dai racconti di mio nonno, la cui figura, abbondantemente romanzata, coincide a grandi linee con il personaggio di Cesco, protagonista della vicenda descritta nella parte di romanzo riguardante la migrazione. Detto ciò, è possibile che ne sia rimasto inconsciamente influenzato

  • Lo tsunami in Giappone ha segnato la storia mondiale a causa delle tante difficoltà e delle tante vittime che ci sono state. Il tuo protagonista, Giaco, lo vive in prima persona. Quanto c’è del tuo vissuto e quanto è scaturito dalla tua fantasia?

Per mia fortuna non ho vissuto in prima persona la tragedia dell’11 marzo 2011, perché non ero in Giappone nel momento in cui si è verificata. Anche mia moglie era già con me, sebbene mi avesse raggiunto in Italia solamente pochi mesi prima di quella fatidica data. Tuttavia, quel disastro terribile mi ha colpito parecchio, perché lei è originaria dell’area di Sendai, dove vive la sua famiglia, la quale fortunatamente non ha subito danni. Ho scritto la parte dedicata allo tsunami raccogliendo proprio le testimonianze di parenti e amici che vivono in quella città, cercando di immedesimarmi più che potevo nei fatti realmente accaduti. Non ho ancora avuto alcun riscontro riguardo ciò che ho scritto, a causa della differenza di lingua e dell’impossibilità di tradurre il mio romanzo in giapponese, ma posso dire di essere stato male per circa una settimana dopo aver scritto il capitolo dedicato alle conseguenze di quel catastrofico tsunami

  • Di solito, pensare a uno scrittore maschile fa venire in mente delle storie basate sull’azione, sull’intrigo o, comunque, generi che nulla hanno a che fare con i sentimenti, più facilmente descritti da autrici donne. Tuttavia, tu hai regalato ai lettori un libro ricco di fascino e di emozioni. Quali sono le difficoltà nello scrivere un romanzo d’amore per un uomo?

Mi fa piacere sentirmi definire un autore legato alla sfera delle emozioni, perché in effetti è dai sentimenti e dalle pulsioni emotive che traggo ispirazione per scrivere. Non sono in grado di dire se in questo campo riesco a raggiungere i picchi che la sensibilità di un animo femminile giunge a toccare, tuttavia ci provo, magari fornendo un punto di vista diverso da quello usuale. Ad ogni modo, per ciò che riguarda la mia esperienza di scrittore, devo dire che il filo rosso che collega ogni lavoro in cui mi sono cimentato finora è proprio la presenza, più o meno importante, di una o più storie d’amore. Non so se per questa ragione posso essere definito un romantico, ma da un punto di vista oggettivo ritengo che la forza dell’amore sia il vero motore che muove il mondo, per cui mi sembra impossibile non scriverne

  • Due storie d’amore s’intrecciano nel tuo libro, in cui entrambe le protagoniste femminili arrivano da oltre confine. Dal momento che si dice “mogli e buoi dei paesi tuoi”, quali pensi che siano le difficoltà che si possono riscontrare nell’approcciare culture così diverse dalla nostra, soprattutto in campo sentimentale?

Avendo affrontato di persona questo tipo di esperienza posso dire che la difficoltà più grande, inizialmente, è rappresentata dalla lingua. Tuttavia ho potuto constatare, cercando anche di descrivere la cosa attraverso i personaggi del mio romanzo, che quando nasce una storia tra persone provenienti da mondi e culture diverse, entra in gioco una sorta di linguaggio universale che azzera ogni difficoltà e si manifesta nei gesti, nelle tenerezze o anche solo negli sguardi che due individui si scambiano per amore. Vivendo in prima persona la mia storia, agli inizi ricordo di aver pensato: “In fondo siamo solo un uomo e una donna che si cercano e desiderano stare insieme, null’altro”.
Tuttavia non si può ridurre tutto quanto alla sola sfera sentimentale, perché sappiamo tutti che la vita è fatta anche di mille altri aspetti che s’intrecciano fra loro. Questo lo capisco soprattutto vedendo mia moglie vivere la propria quotidianità in un mondo diverso da quello in cui è nata e cresciuta, potendo capire, attraverso le sue esperienze, quanto sia difficile la vita di chi si trova da un giorno all’altro immerso da capo a piedi in una realtà sconosciuta

  • L’avvento dell’era tecnologica ha sicuramente facilitato le comunicazioni, anche se le ha rese più superficiali, forse proprio a causa dell’immediatezza con cui si può raggiungere chiunque. Nel passato, invece, l’energia spesa nel poter mantenere un rapporto a distanza demoralizzava, automaticamente, chiunque non fosse seriamente disposto a mantenere vivo tale rapporto. Cosa ne pensi di questo progresso e di questi “rapporti virtuali”?

Si tratta di un altro tema centrale del mio romanzo, perché in esso propongo un confronto diretto fra l’uso delle lettere scritte e quello degli odierni mezzi informatici. Ovviamente si parla di due modi totalmente diversi di relazionarsi, con la bilancia totalmente a favore della tecnologia attuale. Tuttavia, nel valutare un rapporto a distanza, occorre sempre tener conto dell’inevitabile distacco fisico, che non differenzia per nulla un rapporto epistolare da una video chiamata effettuata davanti a una webcam. Nel mio romanzo esprimo questa difficoltà quando descrivo i due protagonisti della mia storia di fronte al ritorno del contatto quotidiano tramite computer dopo essersi incontrati di persona in Giappone e aver stabilito un contatto fisico. Si ritrovano tristi, lontani e separati senza poterci fare nulla, rendendosi conto che il loro rapporto è totalmente diverso da com’era prima dell’incontro reale.

  • Quando Valerio non scrive, come occupa il proprio tempo?

Siccome scrivo per hobby, la maggior parte del restante tempo la dedico al lavoro e alla famiglia. Quando posso mi dedico alle escursioni in montagna e alla mountain bike, che tuttavia richiede un allenamento tale che al momento non mi posso permettere, essenzialmente per ragioni di tempo

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Vorrei cimentarmi in generi letterari diversi fra loro, anche se credo che per un autore l’ideale sia farsi conoscere in un preciso ambito e continuare a scrivere sempre all’interno di una medesima categoria per non spiazzare i lettori faticosamente guadagnati. Purtroppo non è il mio caso perché sotto quest’aspetto sono un istintivo e seguo unicamente l’ispirazione del momento. Non credo neppure di essere in grado di scrivere il sequel di un mio romanzo, perché mi annoierebbe.
Ritengo sia invece una sfida importante quella di creare storie con protagonisti lontani dalla propria identità, soprattutto di genere. Alcuni lettori mi hanno detto che i miei personaggi femminili sono molto vivi e reali. Lo ritengo un apprezzamento importante, perché la cosa più difficile per un autore credo sia quella di dar vita ad un personaggio molto distante da se stesso. Adesso sto scrivendo un noir sentimentale in cui la protagonista è una quattordicenne che vive in una realtà fatta di continue violenze fisiche e psicologiche. Non sono sicuro di farcela, ma nessuno mi vieta di provare e la cosa mi stimola moltissimo. Sono curioso di vedere che cosa riuscirò a creare.

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Intervista a Maria Gabriella Olivi

Intervista a Maria Gabriella Olivi

copertina_ocho_EEEMaria Gabriella Olivi ha vinto il Concorso Teatrale Un Baule di idee, proponendo una pièce brillante, pur tenendo conto delle difficoltà rappresentate dai parametri proposti per il concorso: oggetti di scena e scenografie che dovevano categoricamente entrare all’interno di una valigia da viaggio e un massimo di quattro personaggi. Questa vittoria le ha permesso di pubblicare il testo con EEE e giungere, quindi, al pubblico anche attraverso la distribuzione del libro.

  • Come nasce l’idea per Ocho Cortado?

L’occasione è stata il bando del concorso “Un bagaglio di idee” indetto dalla Federazione Italiana Artisti. I requisiti per partecipare erano intriganti: il numero ristretto di personaggi e, soprattutto, la limitazione che riguardava gli oggetti di scena e le scenografie, che avrebbero dovuto entrare all’interno di una valigia da viaggio. Ho lasciato per un po’ che le idee mi si muovessero dentro, sbucando fuori all’improvviso, sistemandosi in modo da risuonare bene l’una con l’altra: pensavo a un’opera che anche a me sarebbe piaciuto leggere e vedere rappresentata. E se poi il tempo della scrittura è stato rapido, quello della correzione e ri-scrittura è stato invece tormentato. Volevo che il testo risultasse veloce come lo avevo in mente, e per questo ho avuto bisogno di procedere lentamente.

  • A parte la traduzione letterale (otto tagliato) e il riferimento a un noto passo di tango, che cosa rappresenta il titolo?

Nel testo, un uomo e una donna si incontrano, si scontrano, si avvicinano; e nessuno dei due è più importante dell’altro. L’espressione Ocho Cortado porta con sé la suggestione del tango, un ballo davvero di coppia, nel quale la donna ascolta la musica ma soprattutto il suo compagno; in cui lo segue ma non si fa trascinare. In cui nessuno, neanche il più bravo dei due, dà lezioni all’altro, ma danza insieme con lui. In cui ogni volta è diversa da tutte le altre, un piccolo capolavoro irripetibile mentre il codice dei passi è sempre uguale.
Non a caso Logan, uno dei due personaggi femminili del testo, dice: “Il tango non è maschio, è coppia: cinquanta per cento uomo e cinquanta donna”. Anche se, poco più in là, con maliziosa strafottenza rimarca che “il passo più importante, l’otto, lo fa la donna!”. Inoltre, il titolo completo dell’opera è “Ocho Cortado ovvero Un movimento appena iniziato e bruscamente interrotto”, proprio come capita a Jacopo e Maria Beatrice, i due coprotagonisti il cui incontro viene all’improvviso inaspettatamente interrotto.

  • I personaggi sono ispirati a persone reali oppure sono completamente inventati? 

Quando scrivo, assai raramente racconto qualcosa di me o delle persone che conosco. E quando capita, è solo uno spunto per parlare d’altro. Nello stesso tempo, come per tutti, anche se parlo d’altro, in realtà parlo di me: mi dichiaro, al di là delle storie che racconto e talora anche in contrasto con esse.

  • Il suo background letterario riporta a due precedenti pubblicazioni e conducono verso un passato vissuto con gli studenti, questo bagaglio ha influito sui successivi approcci letterari come autore? 

Maria Gabriella Olivi, premiazione (5) (1)Scrivo da sempre o meglio, da sempre leggo, leggo leggo. La scrittura è arrivata dopo, affiancandosi ai libri suggeriti dagli insegnanti; scovati nelle librerie e nelle biblioteche; scelti perché mi incuriosivano magari solo per il titolo o la copertina; e anche quelli lasciati a metà o addirittura dopo le prime pagine. Da ragazzina scrivevo storie e filastrocche che illustravo e rilegavo per mio conto. I lettori erano i miei genitori e mia sorella: produzione e distribuzione a chilometro zero! Al tempo della Scuola Media, arriva il primo testo “professionale”: un racconto pubblicato sul giornalino della chiesa del quartiere. Più tardi, ai testi narrativi si sono affiancati saggi e articoli su temi legati agli interessi professionali – ho insegnato a lungo Lingua e Letteratura Italiana e Latina nei Licei – insieme con la cura di una rubrica di divulgazione letteraria su un mensile e la presenza nel Comitato di Direzione di una rivista sulla Scuola.  E proprio da insegnante, in un bando del Salone del Libro di Torino ho trovato lo spunto per organizzare un laboratorio di scrittura con un gruppetto di allievi. Ne è uscito il testo di narrativa Studenti si nasce, prof si diventa: un testo fortunato per come si è svolto il lavoro di scrittura: gli studenti si sono fidati di me e io ho cercato di assumere il loro sguardo. Fortunato anche per l’interesse che ha suscitato: dopo la vittoria al Concorso, Orietta Fatucci (Edizioni EL) ha deciso di pubblicarlo  e fin dalla prima uscita è stato un susseguirsi di interviste sui giornali e nelle trasmissioni televisive e radiofoniche, di inviti a Convegni e Incontri con l’Autore, e di riconoscimenti. Da lì ha preso slancio la mia attività come scrittrice. L’Editore che investe su di te, i lettori sconosciuti – quelli che scaricano il tuo e-book o che escono dalla libreria col tuo libro tra le mani – e la fortuna ti danno la gioia e la responsabilità di (voler) essere uno scrittore.

  • Questo non è il suo primo approccio in ambito teatrale, come nasce la passione per il teatro?

Al teatro – alla scrittura di testi drammatici intendo – mi dedico solo da qualche anno. Ma, nei luoghi deputati (e non) e sui libri, l’ho sempre frequentato con curiosità e passione, anche da lontano grazie alle dirette live, nelle sale cinematografiche, di opere e balletti che vanno in scena in altri Paesi. Al cinema non è la stessa cosa che essere a teatro, ma nel buio la suggestione dell’Opéra o del Mariinskij rimane tutta. E poi, in qualunque posto tu sia seduto, le riprese ti permettono di assistere allo spettacolo in prima fila; e un giorno sei in Francia, un altro a San Pietroburgo!

  • Che emozione ha provato quando ha saputo di essere la vincitrice del concorso?

OliviUn anticipo della gioia che avrei provato alla proclamazione della vittoria è stata la lettura di un estratto dell’opera durante il XX Festival Internazionale del Teatro Urbano, organizzato da Abraxa Teatro. Con in mente una famosa pubblicità: sentir recitare quello che hai scritto, nella magnifica cornice del Giardino degli Aranci, con sullo sfondo la cupola di San Pietro, in mezzo a celebrati e amati (non solo da me) maestri e artisti drammatici, “non ha prezzo!”. Poi è arrivata la serata della premiazione – i risultati erano stati tenuti segreti fino a quel momento – che si è svolta lo scorso dicembre a Roma, nello storico Teatro dell’Orologio, in apertura della VII edizione della rassegna Exit. Sono felice che “Ocho Cortado” faccia parte del catalogo EEE e conto che la lungimiranza di Piera Rossotti Pogliano, “editore scopritore di talenti”, mi valga come buon augurio per il futuro:  dal momento che un testo drammatico è, per statuto direi, un testo da rappresentare, ora spero e sogno di vederlo messo in scena.

  • Quando Maria Gabriella non scrive, come occupa il proprio tempo?

Si occupa di Gustavo Modena! Mi spiego: non molto tempo fa ho cominciato a seguire le lezioni del corso di Teatro, Musica e Danza del Dams, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Ora, superati gli esami, sono al momento della compilazione della tesi proprio su questo grande attore dell’Ottocento. Solo che il “momento” sta diventando molto molto lungo. Catturata dalla scrittura di un testo narrativo che dovrebbe uscire tra poco nelle librerie e del testo drammatico pubblicato ora da EEE, mi ritrovo con l’imbarazzo di giustificarmi davanti al mio Relatore, quel professor Geraci che, nonostante la sua disponibilità gentile e… la mia superiorità anagrafica, mi intimidisce tanto è bravo. A parte i miei tormenti di studentessa ritardataria e questa ammissione che sembra un tentativo per sollecitare la comprensione del prof – e forse un po’ lo è – il periodo passato nel “mio” Dams, scoprendo mondi e persone, e lasciandomene sedurre, mi ha reso felice.