Intervista a Nino Raffa

Intervista a Nino Raffa

l'amore allo specchioL’amore allo specchio, di Nino Raffa, non si può considerare semplicemente un giallo, anche se ne ha alcune caratteristiche. L’ingrediente principale non è tanto il mistero in sé quanto la ricerca che conduce ad esso. Tipico della migliore tradizione narrativa, l’elemento della “ricerca” esprime tutti gli ingredienti del classicismo epico, in questo caso letto in chiave moderna. Tuttavia, proprio per quella voluta eleganza stilistica, il romanzo ben si accosta anche alla narrativa d’autore, caratteristica dei più grandi scrittori siciliani.

Partendo dal fattore basilare, cosa spinge un autore a utilizzare l’elemento “ricerca” per distinguere il proprio testo?

Intanto la ringrazio per l’accostamento ai grandi scrittori siciliani. Lei ricorderà una famosa foto di Sciascia, Bufalino e Consolo che ridono insieme di gusto, seduti in un giardino: credo che tutti e tre, nel giardino del paradiso, avranno accolto il suo generoso giudizio con la stessa ilarità!

Riguardo alla domanda, Borges riconduceva tutte le nostre narrazioni a quattro esempi fondamentali: le storie di Troia, di Ulisse, di Giasone e di Cristo; ovvero l’assedio, il ritorno, la ricerca e il sacrificio. Nonostante gli sforzi d’inventare qualcosa di diverso, le trame possibili sembrano ristrette a questa lista striminzita. Quanto agli esiti della ricerca, lo stesso Borges nota che gli antichi potevano conquistare il Graal o il Vello d’Oro, mentre noi moderni siamo condannati all’insuccesso. Achab e Josef K. sono ontologicamente destinati alla distruzione e al fallimento: un destino diverso li renderebbe falsi ai nostri occhi disillusi e smaliziati.

L’Amore allo specchio rientra in questa regola. In più ho tentato una storia in cui, l’ordinaria sconfitta pretesa dai nostri tempi, covasse in sé il seme ribelle di un riscatto. Ho immaginato un normale progetto umano – disegnato d’ingenuità, miopie ed errori – che oltre, e contro, le intenzioni dei suoi stessi artefici contenesse una vittoria più importante.csgp_10_Sciascia_Consolo_Bufalino.jpg.

I protagonisti del suo romanzo sono alcuni abitanti di una casa di riposo per anziani, ci può spiegare il perché di questa scelta?

Ho scelto ambientazione e tipi in qualche modo familiari. Gli anziani hanno avuto un ruolo importante nella mia vita e la narrazione è scaturita da certe figure che porto dentro. In particolare un bisnonno burlone e scioperato ha ispirato l’idea di fondo del romanzo.

Personaggi non propriamente giovani apportano dei valori aggiunti in quella che è la propria caratterizzazione, come saggezza ed esperienza. Questa scelta può controbilanciare le ovvie limitazioni fisiche dovute all’età?

In generale, non sono sicuro che la vecchiaia garantisca saggezza o esperienza. Mi sembra piuttosto un affinamento – nei casi migliori – o un’esasperazione – nella norma – di certe proprietà personali, magari risalenti all’infanzia. Chi è stato stupido da giovane proseguirà volentieri sulla stessa linea fino a cento anni e oltre.

Sul piano personale invece sono stato fortunato con i miei vecchi. Devo loro un certo distacco dalle contingenze, insieme all’inclinazione a guardare sotto la superficie delle cose. Nel romanzo amplifico e deformo questi caratteri nella figura di Pirri, ex professore di filosofia ultranovantenne, che quasi immobile nella sua cameretta costituisce il principale motore dell’azione. Dubito comunque che l’eventuale affinamento di certe qualità mentali dovuto agli anni, possa compensare il declino fisico. Siamo fatti troppo di carne per assistere impassibili alla nostra distruzione materiale: saggezza ed esperienza possono darci solo limitata consolazione.

I personaggi di Pirri e Miriam sono certamente centrali per la narrazione, ci può dire come sono nati?

Pirri e Bonanno si rifanno ai miei nonni: uno prudente e riservato, l’altro straordinario trascinatore, animato da un entusiasmo talvolta incauto. Ma più in profondità Nino Pirri è una versione invecchiata e incattivita del suo autore. Scrivere di lui è servito a conoscermi, e un po’ a guardarmi dalle possibili derive di me stesso. Nella battuta finale del romanzo approfitto del comune nome di battesimo per giocarci su.

La piccola Miriam è la persona ideale per una miracolosa guarigione. In più con le sue domande semplici e spietate sui miracoli, incarna una certa purezza di mente e di cuore originaria; ovvero la possibilità, che si perde crescendo, di guardare ai fatti senza pregiudizi di educazione, di parte, d’ideologia o di religione.

Il mio personaggio preferito – quello in cui più ho versato il mio carattere, insieme ai dubbi e alle speranze – rimane comunque Caruso, il becchino. Figura peraltro direttamente ispirata a una persona esistente.

Nel suo romanzo ritroviamo molti aspetti “quotidiani”, come il bisogno della gente di credere in un qualcosa che vada al di là del puro esistenzialismo. Tuttavia, un aspetto di questa necessità diventa controverso quando si affronta un tema come i miracoli, da un lato esiste la fede e dall’altra la brama di trarne profitto, cosa l’ha spinta a voler ritrarre questo scorcio sociale del nostro paese?

Forse più che in altri tempi recenti la cronaca di questi giorni registra il lacrimare o il sanguinare d’immagini sacre, e non serve neppure entrare nel merito della loro autenticità. Quando le illusioni di ricchezza, bellezza, gioventù e salute, insite nel materialismo e propagandate dalla pubblicità, vengono smascherate, diventa naturale cercare rifugio in qualcosa di più profondo. La fede sul versante religioso, come alcune filosofie su quello laico, rientrano tra gli strumenti cui ci rivolgiamo per ridurre la frattura tra noi stessi e il mondo che sentiamo ingiusto e minaccioso. Ma anche qui scontiamo l’essere spiriti incarnati: abbiamo bisogno di segni visibili. Il miracolo, vero o presunto, s’inserisce in questa condizione sofferente di ricerca ma anche di smarrimento. Normale, almeno secondo il corso di questo mondo, che le forze opposte del denaro e del potere s’insinuino nella nostra fragilità per i loro scopi abietti. Ancora più normale che ciò avvenga in questi momenti di crisi collettiva.

Da un suo punto di vista personale, quanto peso può assumere un “miracolo” nella solidità della fede di una persona?

Ho sempre creduto alla possibilità del miracolo, sembrandomi perfettamente ragionevole l’intervento soprannaturale di Dio nel mondo, per il nostro bene e come segno del suo amore. Da giovane però, forse confuso da certi eccessi di credulità, pensavo che aggiungesse poco o nulla alla fede. Il miracolo in termini razionali o scientifici non prova nulla: è sempre possibile ridurre anche i casi oggi più inspiegabili alle ordinarie conoscenze umane del futuro.

Adesso sono più prudente, riconoscendo l’effetto positivo di un segno straordinario nello scuotere la nostra fede, spesso asfissiata dalla sua immersione nell’ordinario. Rimane l’assenza di prova. I teologi individuano una specie di circolarità: i miracoli confermano la fede, ma per riconoscerli serve una predisposizione personale, che magari non è ancora fede affermata ma è già uno stato positivo di accoglienza verso l’amore di Dio. La fede è quindi sia condizione che effetto del miracolo. Ma credo ci sia un altro aspetto importante: di solito ci concentriamo su certi effetti materiali, come una guarigione fisica, dimenticando che il primo scopo del miracolo è la nostra salvezza spirituale. Se pensiamo ai miracoli per eccellenza – quelli di Gesù – notiamo che sono associati alla conversione, ovvero a un radicale cambiamento della persona che lo riceve e di coloro che ne sono testimoni. In certi passi del romanzo, e in particolare nell’ultimo dialogo tra Bonanno e Caruso ho cercato, con tutti i miei limiti letterari e soprattutto di fede, di richiamare – direi meglio, d’indagare, prima di tutto per me stesso – questa valenza del miracolo, meno eclatante ma più fondamentale.

Il vero valore di una reliquia risiede nella sua autenticità, oppure nel suo essere simbolica, anche se, magari, non vera? E può diventare comprovante di un determinato avvenimento storico, a prescindere dal fattore religioso?

Innanzi a una reliquia cristiana confidiamo in qualche modo nel potere di Cristo o nell’intercessione della Madonna o di un Santo, ma l’oggetto, a prescindere dalla sua autenticità, non ha valore in sé. Penso che l’efficacia della reliquia stia nella preghiera sincera e profonda che accompagna il culto. Si torna alla circolarità tra miracolo e fede. Nel libro è la preghiera disperata di Rosetta, rafforzata dalla fiducia nel presunto capello della Madonna, a realizzare la possibilità del miracolo.

Le reliquie hanno pure un valore di testimonianza storica indipendente dalle loro implicazioni mistiche. Sullo stesso piano esistono anche oggetti di culto laico, come il cervello sotto spirito di uno scienziato, la chitarra di un cantante o le carte di uno scrittore. Naturalmente a questo livello parliamo di cose che interrogano la memoria e non più la coscienza.

Come ha sviluppato il lavoro di ricerca storica che fa da corollario al romanzo, in particolare per la lettera della Madonna?

La documentazione è stata facile da reperire in biblioteca; compreso il famoso Viaggio degli ambasciatori di Messina mandati alla Gran Madre di Dio in Gerusalemme congetturato e contemplato da mente devota… eccetera, eccetera… che nel romanzo definisco con sincera ingratitudine polpettone. Su qualche testo latino, grammatica e vocabolario alla mano, sono ricorso con alterne fortune alle sbiadite reminescenze dei già distratti studi liceali. A parte questi affanni, ripercorrere le vicende della Sacra Lettera lungo la storia è stato altrettanto divertente che inventargli attorno un racconto.

Quando Nino Raffa non scrive, come occupa il proprio tempo?

Nino Raffa, come il suo bisnonno Peppino Papa arruolato nel romanzo, sarebbe commerciante. E come lui non prende troppo sul serio il suo lavoro. Quando non scrive e traffica gli piace dilettarsi d’architettura. Lo vedo come un uomo di tante curiosità e nessun mestiere.

Quali sono i progetti futuri?

Sto riordinando, non senza fantasia, certi diari giovanili, in una specie di autobiografia non autorizzata. Lavoro pure da qualche anno con intermittenza a una faticosa riscrittura della Genesi, assumendo come punto di vista privilegiato i rapporti tra donna e uomo.

Mi preme in chiusura ringraziarla per aver potuto discutere insieme di vecchiaia, teologia e libri polverosi. Nonostante mi sia guardato dal nominare San Paolo, la doppia predestinazione e Sant’Agostino – ulteriori argomenti di grande richiamo – sospetto che la nostra conversazione non sia stata ideale per spingere il romanzo. Mi chiedo con preoccupazione cosa ne penserà il mio editore. Ma come mentiamo sempre, non si scrive per vendere… ma per se stessi!

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Intervista a Leonora Signifredi

Intervista a Leonora Signifredi

fuilles d'albumFeuilles d’album pare un romanzo quasi anacronistico, vista la scelta di voler comporre la trama attraverso uno scambio di missive che svelano, volta per volta, tutto l’intreccio che porta al colpevole. Tuttavia, da Goethe a Foscolo, molti scrittori affermati hanno utilizzato questo escamotage per penetrare nell’anima del lettore attraverso gli occhi dei protagonisti.

  • Dunque, perché Leonora Signifredi ha utilizzato proprio questo stile per il proprio romanzo?

Ho sempre trovato affascinanti i romanzi epistolari, per il particolare equilibrio che vi si respira, anche se non avevo mai immaginato si scriverne uno. La scelta è stata piuttosto improvvisa: quando ho iniziato a progettare il racconto, scegliendo l’epoca di svolgimento, mi è venuto “naturale” immaginarla sotto la forma di una serie di epistole.

  • Vi sono particolari difficoltà nello svolgere una trama in questa forma?

Delle difficoltà mi sono resa conto quando ho iniziato a scrivere le prime lettere. Essendo un giallo occorreva aver ben chiaro le informazioni scritte dai tre personaggi narranti, ma forse la difficoltà più grande è stato tentare – e spero di esserci riuscita – di dare un tono diverso, una personalità diversa allo stile delle lettere dei tre personaggi narranti.

  • L’ambientazione particolare riporta alla mente gialli storici molto seguiti. Un esempio classico: Il nome della rosa. Dunque, perché ambientare un giallo nel 1800?

La motivazione più banale è la mia totale ignoranza in fatto di medicina legale e dei vari tempi tecnici che occorrerebbero in un’indagine contemporanea. Partendo da questo fatto, mi sono direzionata verso il passato. Avendo studiato la Francia della seconda metà del XIX secolo per la tesi di laurea specialistica, mi è venuto naturale concentrarmi su quel periodo.

  • Sia per lo svolgimento della trama che per l’accuratezza della descrizione dell’epoca, la ricerca quanto tempo ha portato via?

Sicuramente il materiale che avevo già raccolto per la tesi di laurea, di cui parlo poco sopra, mi ha aiutato molto, ma ho comunque trascorso diverse interessanti giornate a leggere cronache sui quotidiani francesi del periodo e rileggere alcuni libri di storia e di storia del costume durante il Secondo Impero.

  • I personaggi, benché d’epoca, possono essere ricondotti a personaggi odierni? E hanno una qualche connotazione con persone realmente esiste o esistenti?

Credo che alcune tematiche siano universali e possano essere ricondotte a tutte le epoche, per quanto i personaggi da me immaginati abbiano un modo di intendere la vita e di comportarsi tipico della loro epoca.

  • Da cosa ha tratto ispirazione per la trama?

Da un viaggio in Alvernia. Il castello descritto nel romanzo, ed è l’unica ispirazione presa dal mondo reale, è ispirato al castello di Anjony a Tournemire che ho avuto l’occasione di visitare durante quel viaggio. Poi la fantasia ha fatto il resto.

  • Quanto diventa incisiva la “speranza” in una trama dalle tinte fosche?

Molto, per quanto possa sembrare lieve e flebile. E forse può diventare più incisiva in situazioni particolarmente fosche.

  • Feuilles d’album  è stato segnalato nel I Concorso indetto da EEE, quali sono state le sensazioni derivate da questo splendido piazzamento?

Stupore e gioia. Poi la seconda ha preso decisamente il sopravvento sulla prima.

  • Quando Leonora Signifredi non scrive, come occupa il proprio tempo?

Lavoro nell’azienda di famiglia. Leggo molto e di tutto. E coltivo la mia più grande passione: vado all’opera e ai concerti.

  • Quali sono i progetti futuri?

Al momento spero di riuscire a ripetere la magnifica esperienza dell’anno scorso, dove ho seguito un progetto sulla musica a scuola. E di continuare a scrivere.

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Intervista a Alessandra Ponticelli

Intervista a Alessandra Ponticelli.

un solo colpevole

Un tassello alla volta, un particolare e poi un altro, fino ad arrivare a svelare la trama finale. Questo è il tessuto che compone Un solo colpevole scritto da Alessandra Ponticelli. Un giallo molto classico, che richiama le atmosfere proposte da Agatha Christie e l’arguzia investigativa di un Hercule Poirot. Sotto le abbaglianti luci solari della riviera romagnola, si alternano misteri e delitti, vicende che, tornando dal passato, si riflettono in un presente non privo di colpe e di colpevoli. L’intera storia parte dall’intrecciarsi simbolico fra le vicende di una madre e una figlia, Teresa e Adele, personaggi singolari, decisamente fuori dal comune intendere.

  • Come mai hai scelto delle figure così complesse come protagoniste per il tuo romanzo?

Mi ha sempre affascinato l’universo femminile, in particolare i rapporti, spesso conflittuali, che possono nascere tra madre e figlia. La scena primaria, quella del duplice omicidio, ha costituito il punto da cui partire per tracciare un percorso simbolico, rispetto alle nostre piccole/grandi tragedie, ai “traumi” che, comunque, la vita non risparmia a nessuno, e con i quali, prima o poi, siamo chiamati a confrontarci. Naturalmente la storia è completamente inventata, essendo solo frutto della mia fantasia

  • Oltre alle protagoniste femminili, il tuo libro riporta diversi interpreti maschili, come ad esempio Giuliano Belli e il Maresciallo Caputo. Tutti i tuoi personaggi sono ben caratterizzati, al punto da sembrare estremamente reali. Questa scelta nasce dalle proprie conoscenze personali oppure è solo il frutto di una capacità narrativa ben sviluppata?

Come sai, quando si scrive, non c’è mai un confine netto tra immaginazione e vita vissuta. C’è sempre qualcosa di noi in ciò che narriamo, nei personaggi a cui diamo vita, perfino in quelli che non ci assomigliano per niente. Posso solo dire di essere particolarmente affezionata al personaggio di Giuliano. Un giovane pieno di sogni e sempre alla ricerca della verità. Un ragazzo che crede fermamente nella giustizia, malgrado tutto. Convinzioni, queste, che costituiscono il pilastro sul quale ho costruito anche la figura del Maresciallo Caputo. Seppure molto diversi tra loro, infatti, i due personaggi si completano l’uno con l’altro, finendo quasi per sovrapporsi. Appartengono a generazioni diverse, diverse sono le circostanze che hanno caratterizzato le loro vite, ma uguali sono gli ideali in cui credono. Entrambi rappresentano quella parte positiva di Italia che non si rassegna alla corruzione dilagante, ai soprusi, alle menzogne, alle ruberie. Quanto a Caputo, nel costruire il suo personaggio, ho voluto rendere omaggio, in particolare, all’Arma dei Carabinieri e, più in generale, a tutte le Forze dell’Ordine. Alle tante persone perbene che, in silenzio, senza clamore, svolgono quotidianamente con rigore e onestà il loro dovere

  • Una delle particolarità di questo libro è l’aver costruito un antagonista, al personaggio principale, decisamente diverso dal solito. Differentemente dalle trame più usuali, in questo caso non è un’unica entità a costituire la parte avversa, ma un intero paese, in cui l’omertà e i pregiudizi diventano un particolare fondamentale per comprendere la vicenda. La decisione, di optare per una soluzione di questo tipo, è nata spontaneamente nel corso della stesura della trama, oppure sorge da delle necessità ben specifiche?

Purtroppo, quasi ogni giorno, televisione e quotidiani ci raccontano di una provincia italiana ancora molto chiusa su se stessa e piena di pregiudizi. Quella che emerge è una realtà dalle dinamiche complesse, spesso indecifrabili, nella quale si nascondono grandi segreti e, spesso, tanta omertà. Mi riferisco, soprattutto, ai numerosi casi di femminicidio riportati anche dalla cronaca recente. Si fa fatica a credere che dietro situazioni familiari, apparentemente normali, possa annidarsi tanta violenza senza che nessuno se ne accorga. Violenza, oltretutto, perpetrata quasi sempre nei confronti di donne o di minori.

  • La vicenda si svolge in Romagna, un’ambientazione particolare per descrivere la mentalità ristretta e ottusa di certi paesi di campagna. Come mai questa scelta?

Ho voluto ambientare la storia in Romagna perché è una  terra che adoro e che conosco molto bene. Essa fa parte integrante di me, del mio vissuto. Una terra piena di sole, ma anche di nebbia. Un territorio al quale sono legata, emotivamente, da ricordi bellissimi e, insieme, malinconici. Non so se esista davvero “il mal di Romagna” di cui parla Teresa nel romanzo, l’unica cosa certa è che i luoghi narrati in “Un solo colpevole” hanno davvero qualcosa di onirico, di surreale. E’ per questo motivo che amo molto il cinema di Fellini.

  • Nel corso della lettura, si evidenzia una forte influenza francese, sia nelle citazioni, che nella struttura umana che caratterizza la protagonista più giovane, questa impronta deriva da una particolare propensione verso la letteratura francese?

Sono nata e vissuta, fino all’età di diciannove anni, in un paese della provincia di Arezzo, nel quale l’unico svago, specialmente d’inverno, era rappresentato dalla lettura. Sono cresciuta leggendo Flaubert, Balzac, Maupassant, Zola. Finito il liceo, mi sono iscritta alla Facoltà di lingue e letterature straniere di Firenze, dove mi sono laureata proprio in lingua e letteratura francese, materia che ho poi insegnato, per molti anni, nei licei. Conosco bene la Francia, avendoci soggiornato a lungo per motivi di studio. Sì, lo confesso: ho una grande passione per tutto ciò che è francese. Compresa la cucina!

  • Lo stile è molto particolare. Diverso da quelli che sono i canoni polizieschi moderni, in cui tutto è azione e lo splatter diventa il sottofondo di ogni situazione, Un solo colpevole si distingue per l’eleganza della scrittura e per il coinvolgimento deduttivo che si richiede al lettore, è una tua caratteristica, come autrice, oppure è stata una scelta voluta espressamente per questo libro?

No, non è stata una scelta voluta per questo libro. Si tratta proprio del mio modo di scrivere. Credo che la qualità di un buon libro la si misuri dal giusto rapporto tra azione e descrizione. Le location devono arrivare al lettore in modo vivido, senza eccessi da parte del narratore.

  • Quali difficoltà hai riscontrato nello scrivere il tuo romanzo e quanto tempo ha richiesto la sua stesura?

Per scrivere il romanzo ho impiegato quasi tre anni. Dopo una prima stesura, sono passata a quella che io chiamo la fase di “potatura”. Di solito, rileggo ciò che ho scritto almeno dieci, quindici volte. Il mio motto è: tagliare. Non amo la scrittura ridondante e mi piace scrivere in modo piano, pulito, senza eccedere con aggettivi, avverbi o metafore. La caratterizzazione dei personaggi di contorno è quella che mi ha impegnato di più. Essi sono il frutto di un grande lavoro di tratteggio.

  • Un solo colpevole si è classificato terzo nel concorso indetto da EEE, inerente la sezione Gialli, Thriller, Noir, questo importante riconoscimento come è stato vissuto?

All’inizio, non mi sembrava vero. Una notizia bellissima e inaspettata, arrivata tra l’altro in uno dei momenti più difficili della mia vita. Ringrazio la Dottoressa Piera Rossotti e tutti coloro che hanno voluto premiare il mio romanzo.

  • Quando Alessandra Ponticelli non scrive, come occupa il proprio tempo?

Leggo molto. Quando ho del tempo a disposizione, mi piace andare per mercatini alla ricerca di vecchi libri o di piccoli oggetti di antiquariato.

  • Quali sono i progetti futuri?

Ho già iniziato un nuovo romanzo. Speriamo bene.

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Intervista a Mario Nejrotti

Intervista a Mario Nejrotti, autore di “Fino all’ultima bugia”

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Fino all’ultima bugia è un libro particolarmente complesso. La trama s’intreccia e si dipana su più livelli conducendo i protagonisti verso quello che pare essere un baratro senza fine. Un abisso nel quale la realtà viene distorta dagli effetti deleteri e pericolosi indotti dagli stupefacenti e dai trafficanti di droga. Mario Nejrotti non affronta il tema della menzogna nel più classico dei modi, ma i suoi omissis, alla fine influenzano le scelte che i suoi personaggi sono costretti a compiere.

  • Secondo te, c’è molta differenza fra una bugia e l’omissione di una verità?

Mentire necessita di una certa dose di fantasia e creatività, se pure negativa. Chi mente sfugge una realtà scomoda o pericolosa e ne crea un’altra più consona alle proprie o altrui aspettative. Chi mente per abitudine o per mestiere, come uno dei miei personaggi, il maresciallo Bonocore, infiltrato nell’organizzazione criminale, sa quanto è faticoso reggere il proprio gioco e non tradirsi. L’omissione della verità è un modo di mentire più subdolo e forse più meschino, che lascia sempre una via di scampo: “Io non l’ho mai detto” è l’ancora di salvezza di chi non dice la verità spesso anche a se stesso.

  • Data la complessità della trama, quanto tempo ha richiesto la stesura del libro?

Quando ho scritto questo romanzo non avevo nessuna esperienza di storie, per così dire, lunghe e organizzate. Avevo scritto in passato di argomenti scientifici, articoli e qualche racconto, ma niente di più. In realtà non avevo mai pensato di fare lo scrittore. Per cui quando è nato in me l’embrione di questa storia ho scritto l’incipit che non è mai stato modificato. In quel: “Non l’avrebbe mai più presa, adesso lo sapeva. Ne era sicura…” c’è tutta la storia, di lì la scrittura è venuta piuttosto velocemente, credo di averci messo sei mesi circa a terminare. Non ho mai scritto scalette o prospetti, ho raccontato e mentre raccontavo a me stesso la storia, scrivevo.

  • Quanto tempo hai speso nelle ricerche dei meccanismi inerenti il traffico di stupefacenti?

Diciamo che il mio mondo professionale mi ha aiutato molto e ho potuto assorbire, anche dal vivo, molte conoscenze che ho poi trasposto nel romanzo. Le Forze dell’Ordine hanno una documentazione infinita su questo argomento e raggiungere le fonti non mi è stato poi così difficile.

Comunque storia e ricerche sono andate di pari passo e quindi il tempo è lo stesso.

  • L’ambientazione, soprattutto quella parte che riguarda l’isola di Lissa, è molto accurata; anche questo è frutto di ricerca o di esperienza personale?

Il romanzo è nato proprio a Lissa, forse un po’ complice lo splendido vino locale, offerto con generosità dai croati, insieme ai loro racconti. L’isola è stupenda e capisco benissimo perché Chiara e Matteo, i miei personaggi, abbiano deciso di andarci, ognuno per i propri oscuri motivi. A parte gli scherzi, l’isola è un sogno adagiato davanti a Spalato e le descrizioni sono assolutamente realistiche. Un mio lettore ha commentato, dopo aver letto il libro, che si era stupito di quanto rapidamente i due ragazzi si fossero innamorati, ma a Lissa è proprio difficile non innamorarsi!

  • Il fatto che parte del libro si svolga proprio sull’isola, influenza le interazioni dei personaggi, in questo caso è stata scelta prima l’ambientazione o i personaggi?

L’isola è rifugio, è luogo difeso e nello stesso tempo isolato dal mare. Trattando di una ragazza in fuga da se stessa e dai suoi nemici veniva naturale ambientare parte della storia su un’isola. In effetti se seguiamo i personaggi tutti cercano o hanno cercato in qualche momento, magari per violarlo, un rifugio. Quindi isola e personaggi si sono integrati benissimo, mentre la storia si costruiva nella mia mente.

  • I personaggi sono molto ben costruiti, sono completamente frutto di fantasia o si basano su persone che realmente conosci?

La storia e i personaggi sono di fantasia, come sempre si deve dire. Ma nel mio mestiere si viene in contatto con un’infinità di situazioni e persone sia del mondo dei buoni sia di quello dei cosiddetti cattivi e dopo tanti anni che li ascolto, il confine tra i due universi mi sembra sempre più sfumato. In questo romanzo il limite tra realtà e fantasia è anch’esso sfumato. Ma non ti dirò di più, neanche sotto tortura …

  • Uno dei protagonisti è un medico, quanto del tuo bagaglio culturale ed emozionale hai messo in questo personaggio?

Il vissuto della medicina non può non influenzare il carattere e l’emotività di chi pratica questo mestiere e quindi in Matteo, c’è parte di me e di una delle mie molte esperienze professionali. Ma se intendi chiedermi se nel giovane dottore in crisi c’è qualche cosa di autobiografico, ti rispondo di no. C’è l’essere medico, di cui non mi voglio disfare, ma la mia esperienza è completamente trasfigurata nel personaggio. Credo che nei miei romanzi futuri ci saranno ancora altre figure di medico perché questo permette un’osservazione delle situazioni e delle emozioni del tutto privilegiata e credo che le storie che racconterò possano giovarsene.

  • La protagonista riesce, con ricerca e intuizione, a capire alcune manovre e collusioni del grande giro del traffico internazionale di droga, per diventarne prima vittima e successivamente superstite in fuga. Chiara è descritta a tratti in modo coraggioso, anche se a volte ingenuo. Mentre il giovane uomo che l’accompagna, Matteo, è un inconsapevole eroe in lotta con i suoi fantasmi. Qual è secondo te l’importanza di fuggire da un problema, anche se solo per riprendere fiato, e come influisce l’introspezione nel periodo attuale?

La sensazione di consolazione che si ha allontanandosi dai propri “fantasmi” e dai problemi che non si possono o non si vogliono risolvere, è sicuramente riposante. Ma è un’inutile bugia detta a se stessi, la tregua, non è mai la fine di una guerra, ma precede sempre una battaglia più dura e faticosa. L’unico modo di affrontare un nemico è combatterlo e anche Chiara sull’isola si accorge che non potrà sempre fuggire da Dante, il suo inseguitore, ma dovrà trovare il coraggio di affrontarlo.

  • Quando Mario Nejrotti non scrive, come occupa il proprio tempo?

Faccio ormai da quasi quarant’anni il medico di famiglia a Torino, sono giornalista  e Direttore responsabile dei media  del mio Ordine Professionale Provinciale. Direi che quando non scrivo non occupo il tempo, è lui, disgraziato, che occupa me.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Oltre a stare a guardare il cammino di “Fino all’ultima bugia”, ho vinto il Concorso per il romanzo storico dell’Edizioni Esordienti Ebook con il mio libro “Il piede sopra il cuore”, che presto sarà pubblicato dalla stessa casa editrice.
Ho appena finito di scrivere un altro romanzo giallo, che stiamo ancora limando e poi si vedrà: scrivere è una malattia da cui è veramente difficile guarire.
Volevo cogliere l’occasione per ringraziare Piera Rossotti per come ha costruito e portato avanti la sua casa editrice, perché credo che solo un lavoro di squadra tra editore e autori, soprattutto emergenti, possa dare una maggiore forza reciproca e credo che se andremo avanti come ha indicato la professoressa, si percorrerà una strada nuova e positiva in un mondo troppo difficile e spesso dai contorni poco chiari.

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Intervista a Danae Lorne

Intervista a Danae Lorne

il canto delle cicaleIl canto delle cicale è un libro che porta indiscutibilmente alla riflessione. Nonostante sia l’eros la componente primaria, certi passaggi che intrecciano la trama, come la ricerca di se stessi, diventano la base su cui iniziare un percorso interiore e sono insiti nella vita di tutte le persone. Giulia insegue un proprio equilibrio attraverso presunti amori, i quali dovrebbero portarla a trovare la felicità.

  • In questi tempi frenetici, secondo te, quanto è difficile trovare la consapevolezza di sé?

E’ difficilissimo perché la gente è troppo presa a “sopravvivere”, non ha il tempo per fermarsi e pensare, o semplicemente per guardarsi intorno. Poi ci pensano anche i media a bombardarci di messaggi che ci disorientano e ci riempiono la testa di inutilità. Tutto questo chiasso non fa altro che allontanarci da noi stessi. Viviamo in un mondo che tenta in tutti i modi di disumanizzarci, e renderci consumatori innocui e gestibili. La cultura e il contatto con la natura sono gli unici mezzi che abbiamo per svegliarci e prendere coscienza di noi stessi e del mondo che ci circonda.

  • Pensi che la causa di molti rapporti, che falliscono, sia dovuta alla mancanza di un equilibrio interiore?

Credo proprio di si. Molte persone si accontentano di stare insieme soltanto per colmare bisogni che non hanno nulla a che vedere con l’amore.

  • La trama introduce anche l’argomento del rapporto conflittuale che a volte s’instaura con i genitori. Pensi che essi possano portare a non saper vivere serenamente le interazioni adulte con altre persone?

Pare che i primi 5 anni di vita siano quelli decisivi, sono gli anni in cui si forma il nostro carattere. E i genitori sono le nostre guide. “Tutto” quello che saremo da adulti dipenderà dal rapporto che avremo instaurato con loro.

  • Quanto pensi si possa imparare a conoscere una persona attraverso il sesso?

Gli impulsi sessuali sono impulsi dettati dall’inconscio, ovvero dalla parte più vera di noi. Lì le maschere e le sovrastrutture socioculturali non hanno terreno fertile e le persone sono autenticamente vulnerabili e prive di difese.

  • Nel tuo libro la maggior parte delle interazioni avviene in estate mentre la ricerca dell’equilibrio comincia con l’autunno. Sei dell’opinione che il clima estivo possa portare a una maggior leggerezza nei costumi personali, mentre il clima autunnale porta a una maggiore introspezione?

Assolutamente si. Sono convinta che il clima abbia una grande influenza su di noi. L’estate, il sole, la vita all’aria aperta e le lunghe giornate di luce ci rendono più attivi e meno inclini al pensiero. L’autunno è una stagione di passaggio, e come tutte le cose transitorie, ci trasmette il senso del passare del tempo e quindi tutto diviene prezioso, e degno di attenzione.

  • La tua protagonista Giulia è un’artista: scrittrice, pittrice, fotografa. Quanto c’è di inventato e quanto di reale?

Bè in questo senso la mia Giulia mi somiglia molto. Sono una donna molto creativa, amo ogni forma d’arte, ritengo sia l’espressione più nobile dell’anima umana. Mia madre era una grande pittrice e scultrice ed io sono cresciuta accanto ai suoi colori, e alla sua capacità di vedere il bello ovunque. E’ stata una grande maestra di vita, artisticamente e umanamente.

  • Da dove trai l’ispirazione per le tue storie?

Dalla vita, mia e di chi mi circonda. Dalle emozioni che mi suscita un bel film, un libro, un tramonto, un quadro, le parole di un amico… etc.

  • Nel panorama letterario mondiale vi sono degli scrittori che prediligi? O generi particolari di lettura?

Ho una formazione classica, perché ho frequentato il liceo. Anche se a quell’età non riesci ad apprezzare veramente quello che leggi e impari. Fortunatamente qualcosa mi è rimasto incastrato in maniera indelebile. 🙂 “Da grande” quindi ho attraversato l’iter di molte adolescenti, divorando i classici della letteratura inglese. Ho amato, come molte, la passione e lo struggimento delle sorelle Bronte e l’umorismo della Hausten. Sono rimasta affascinata dalla delicata sensibilità di Hesse e poi sono passata ai classici Francesi e Italiani ovviamente. Moravia mi ha segnata, la sua cruda schiettezza mi ha affascinata e da lì in avanti ho cominciato a prediligere letture meno romantiche e più volte alla scoperta dei moti dell’anima e della carne. Amo la psicoanalisi, amo comprendere il perché delle nostre azioni quindi molte mie letture si sono rivolte a questo ambito. Aldo Carotenuto mi ha illuminata in momenti particolarmente difficili. E poi… ho letto di tutto, dai romanzi della Nin ai fumetti della Bonelli ai romanzi di Stephen King etc etc. Insomma amo leggere. 🙂

  • Quando Danae Lorne non scrive, come occupa il proprio tempo?

Ho una smodata passione per il buon cinema, quindi quando gli impegni familiari me lo consentono, mi gusto un buon film, o leggo, o disegno. Come “Giulia” realizzo ritratti su commissione, ho un sito mio che è in via di aggiornamento (allendesign.it) e una pagina su Facebook.

  • Quali sono i progetti futuri?

Sicuramente ho intenzione di “crescere” come scrittrice, magari frequentando dei corsi di scrittura creativa etc. Amo questo mestiere, mi gratifica perché prima che per gli altri lo faccio per me stessa, per un mio profondo bisogno di evasione e di condivisione.

 

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Intervista con Iano Lanz

Intervista con Iano Lanz.

Iano Lanz è lo pseudonimo di un autore molto particolare. Uno scrittore che non segue filoni prettamente commerciali, ma predilige l’aspetto umano, soprattutto legato alla maturità e alla condizione fisica, quando il corpo si accorge del tempo che passa. Specialista in patologie osteo-articolari della terza età, Iano affronta le tematiche, che coinvolgono l’essere umano in questa fascia d’età, in modo delicato, ironico, a tratti surreale, lasciando sempre aperta la porta alla speranza e alla certezza che la vita vada vissuta fino in fondo, traendo beneficio da ogni attimo. Da Un gaio cecap a Tris di dame vs Alzh è la nemesi clinica a fare da filo conduttore, portando i protagonisti a compiere scelte controcorrente, spesso alternative, che richiamano alla vita e a quei sentimenti che donano vitalità al corpo e allo spirito.

  •  Come mai ha scelto di trattare proprio queste tematiche?

Sono quelle più congeniali alla mia attività di esperto di attività motorie e riabilitazione.

  • Spesso le persone, che raggiungono una determinata soglia, pensano di essere arrivati al capolinea, nei suoi romanzi viene raccontato l’esatto opposto, il suo è un messaggio decisamente voluto?

Nel mio libro d’esordio, Lanziano e le divine compagnie, introduco una dedica: Agli anziani fantasiosi e in buona forma. Finché saranno impegnati in animate vicende di vita, specialmente sentimentali, e fino a quando riusciranno a indossare i pantaloni in piedi senza appoggioessi non diventeranno vecchi.

  • Anche l’amore, sentimento spesso visto come retaggio esclusivo dei “giovani”, diventa protagonista e offre degli appigli insperati ai personaggi descritti nei suoi libri, ma c’è ancora spazio per l’amore in età matura?

Le rispondo attraverso tre Autorevoli testimonianze:

Gabriel Garcia Marquez: Agli uomini proverei quanto sbagliano al pensare che smettono d’innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono d’innamorarsi.

La poetessa giapponese Toyo Shibata: Anche se ho 98 anni, mi innamoro ancora. Sogno di cavalcare una nuvola.

Infine, il regista Manuel De Oliveira, in un intervista al compimento dei 102 anni, alla domanda: Maestro, c’è una dieta che rende longevi? Rispondeva: Mi creda, il cibo migliore sono le donne, con la loro presenza, i loro sorrisi.

  • In Tris di dame vs Alzh troviamo diverse figure femminili, esse traggono spunto dalla realtà o sono personaggi che derivano solo dalla fantasia?

Sono l’esperienza diretta di incontri e avvenimenti trasmutati in un tentativo di letteratura.

  •  Da dove trae l’ispirazione per le proprie storie?

In aggiunta alle esperienze trattate nella prima domanda, altri spunti nascono da un’attività folklorica svolta a livello nazionale e internazionale per un lungo periodo.

  • Vivendo quotidianamente a contatto con l’invecchiameno, e il conseguente declino fisico, quanto realmente può spaventare lo scorrere del tempo?

In Un gaio cecap individuo tre tipologie d’invecchiamento:

– Invecchiamento associato a malattia, purtroppo il più diffuso

– Invecchiamento usuale: è quello che si riscontra nella maggior parte degli individui in assenza di malattia

– Invecchiamento di successo: è quello proprio di soggetti che, in assenza di malattia, hanno in età molto avanzata prestazioni fisiche e mentali non dissimili da soggetti di età giovane-adulta.

Un suggerimento del Prof.Vincenzo Caretti, psicologo: per fronteggiare gli urti della vita quotidiana e diventare più resistenti, occorre incrementare l’intelligenza creativa utilizzando al meglio la vita affettiva e il rapporto con il corpo.

  • Quanto pensa che le istituzioni potrebbero fare per gli anziani e le famiglie?

La cosa più urgente è l’aumento delle pensioni minime per le famiglie di anziani, ridurre così l’aspra lotta per la sola sopravvivenza e prospettare un avvenire migliore e più attivo.

  • Nel panorama letterario mondiale, vi sono degli scrittori che predilige? O generi particolari di lettura?

In una recente “lettera aperta al mio Editore” dichiaravo alla nostra cara Prof.ssa Piera Rossotti che trovavo indispensabili i suoi periodici interventi, ultimo quello su Voltaire. Confesso che il mio zaino culturale non è così greve e molti suoi scomparti risultano desolatamente inconsistenti. Mi trovo nella situazione simpaticamente rivelata da un Autore che conosco bene attraverso i suoi libri. Gianrico Carofiglio, ne “La manomissione delle parole” rivela: … presi tra le mani L’uomo senza qualità, lo sfogliai, ne lessi qualche pagina, lo rimisi a posto. È una cosa che faccio da molti anni. Da sempre in realtà. Con Musil e soprattutto con L’Ulisse di Joyce. Ogni volta mi confronto con la mia ignoranza e penso che dovrei leggere questi libri.

Attualmente leggo “Le lacrime degli Angeli” e “Luce d’estate ed è subito notte” di Jon Kalman Stefansson, un autore islandese dalla trama scorrevole incredibilmente poetica.

  • Quando Iano Lanz non scrive, come occupa il proprio tempo?

Con il lavoro e con letture differenziate.

  • Quali sono i progetti futuri?

Vedere pubblicato “Lanziano e le divine compagnie” sotto l’egida EEE, in una nuova edizione , come si diceva una volta,”riveduta e corretta”.

Intervista a Giancarlo Ibba

Intervista a Giancarlo Ibba

l'alba del sacrificioL’autore possiede uno spiccato humor nero, ovvero una vena altamente ironica che riesce a inserirsi perfettamente in contesti del tutto insospettabili. Il grottesco diventa narrativa quando, un autore come Ibba, decide di creare una delle sue opere prendendo spunto da fatti decisamente tragici. Nel suo primo libro: La vendetta è un gusto, già traspariva il paradosso in cui il protagonista, pur vivendo al centro di una vicenda macabra, riusciva comunque a far sorridere il lettore attraverso citazioni e battute al limite del surreale. In questo secondo libro, L’alba del sacrificio, Giancarlo Ibba supera se stesso, affrontando una prova che si dipana negli anni, arrivando finalmente al suo degno finale.

  • Vuoi raccontarci il percorso che il tuo libro ha compiuto?

Innanzitutto vorrei ringraziarvi per l’opportunità che mi date di parlare un po’ di me e della mia scrittura. Il percorso del mio libro? E’ stato lungo, tortuoso e pieno di ostacoli. Come si può leggere nella mia postfazione, è una storia che ho scritto a più riprese, dal 1990 al 2013. Come mi succede abbastanza spesso, l’idea centrale è derivata da un sogno che ho fatto da ragazzino, a sua volta influenzato dai film che guardavo e i libri che leggevo in quel periodo. In realtà, si trattò di un sogno dentro un sogno, dai contenuti molto simili a quelli poi descritti nel romanzo. Da quel germoglio iniziale, poi, è cresciuto uno strano albero dalle molte biforcazioni. Da quei rami, però, i frutti sono spuntati solo dopo aver inviato il manoscritto alla EEE, che aveva già pubblicato il mio romanzo d’esordio, La vendetta è un gusto. Dopo la lettura, Piera Rossotti ( fondatrice ed editor della EEE, N.d.r.), mi ha caldamente consigliato di ambientare la vicenda in Sardegna (in precedenza le location erano San Francisco e dintorni), per darle un tocco di originalità in più. Devo ammettere che, al principio, non ero convinto… ma, in seguito, questa traslazione ha prodotto parecchie variazioni nella trama originale e anche qualche spunto davvero interessante. Alla fine, l’intreccio è risultato più avvincente, i personaggi più empatici e l’ambientazione più esotica.

  • La trama si dipana su più livelli, affrontando addirittura elementi tipici della letteratura fantascientifica, cosa ti ha spinto a scrivere una storia così complessa?

In realtà non è stata una mia decisione cosciente. La complessità della trama, multistrato e contaminata da diversi generi, deriva principalmente da due fattori. La complessità è dovuta soprattutto alla genesi di questo romanzo, composto da tre storie interconnesse, ma scritte in periodi diversi, con stili differenti, amalgamate in un’unica storia. Lo sforzo creativo di unire un prequel, la vicenda centrale e un sequel nella stessa trama a prodotto inevitabilmente una trama a più livelli. Per quanto riguarda, invece, il mix di elementi… ciò dipende dalla mia passione onnivora per ogni genere letterario e cinematografico. Mi piace inserire nelle mie storie situazioni di origine eterogenea, specialmente se contribuiscono a migliorare l’atmosfera narrativa.

  • Per quanto determinate scene siano particolarmente raccapriccianti, il tuo non può essere definito horror puro, in quanto vi sono degli elementi che traggono origine sia dal noir che dal giallo, quindi come definiresti tu, il tuo genere?

Non saprei come definirlo. Davvero. Molti lettori mi dicono che la mia scrittura è facilmente riconoscibile. La verità è che, quando mi metto davanti alla tastiera, più che cercare di creare uno stile di scrittura, mi piace raccontare la storia che ho in testa… nel modo migliore possibile. Le parole e le frasi che uso non sono calcolate al millesimo. Tuttavia, a livello inconscio, immagino esista un serbatoio di immagini riempito nell’arco di una vita, da cui attingo a piene mani. Di certo, nelle mie storie ci sono sempre scene horror, noir, gialle e fantascientifiche. Sono i generi che mi piacciono e leggo di più. E’ inevitabile per me, credo, miscelarli insieme in forme diverse.

  • Noi, affettuosamente, abbiamo battezzato il tuo genere come New Gothic, al pari di grandi autori come Clive Barker, Stephen King o un moderno Poe, a quali scrittori vorresti assomigliare?

Mi piace questa definizione. In effetti, per un certo periodo della mia adolescenza, (come lettore) ero fissato con il genere gotico classico. Mi intrigano molto quel genere di atmosfere e racconti. Ovviamente conosco bene Barker, King e Poe (dei quali ho letto praticamente tutto), ma, nonostante l’ammirazione, non vorrei assomigliare a nessuno di loro. Certo, mi piacerebbe avere lo stesso loro numero di lettori! Scherzi a parte, ognuno di loro ha delle caratteristiche eccezionali e dei piccoli difetti. Barker mi affascina per la sua fantasia perversa, King per la sua capacità di narrazione mainstream, Poe per le qualità di sintesi. D’altra parte, mi “irrita” l’eccesso di intellettualismo del primo, la debolezza dei finali del secondo e il vago sentore di inconcludenza del terzo. Ovviamente, sono in debito con loro per tutto quello che ho scritto finora e che scriverò.

  • Hai uno stile ben riconoscibile, secondo te è meglio essere un Ibba o un erede di King? Ovvero, preferisci essere il “nostro” G.C.Ibba, autore italiano, emerso e riconosciuto, oppure un semplice emulo di uno scrittore americano famoso?

Erede di King? Sì, magari… Però questa trovata del “New Gothic” e G.C. Ibba comincia a intrigarmi. Detto questo, preferirei essere il “vostro” Giancarlo Ibba, autore italiano, emerso e riconosciuto (non per strada, però, sarebbe imbarazzante!)… ogni volta che si fanno questi discorsi, tuttavia, mi viene in mente una massima: la speranza è l’ultima a morire, ma la prima ad ammalarsi. Comunque sognare è un po’ come guardare le vetrine dei negozi… non costa nulla.

  • In questo libro parli del senso di colpa come molla per obbligare uno dei protagonisti a compiere la sua missione. Cosa pensa Giancarlo del senso di colpa come spinta motivazionale?

E’ un argomento complesso e delicato, su cui ho riflettuto parecchio durante la stesura de L’alba del sacrificio. In verità, la “colpa”è il tema centrale di questo romanzo… il primo motore dell’azione, potrei dire. Le colpe dei padri non devono ricadere su figli, la colpa come peccato da espiare, la colpa come ricatto morale, la colpa come catarsi emotiva, eccetera…  Retaggio culturale cattolico? Certamente. Senza contare che, ai tempi della mia infanzia, quasi tutta l’educazione (in Sardegna, perlomeno) era veicolata tramite il “senso di colpa” e la vergogna. A parte questi discorsi pseudo-intellettualoidi, nella mia storia ho cercato di trovare motivazioni credibili e “realistiche” per ogni personaggio. Non ci sono eroi. Solo persone qualunque.

  • Nel caso un lettore volesse cercare le citazioni che hai inserito all’interno del libro, sai quante sono?

Non ne ho assolutamente idea! Centinaia di sicuro. Se qualcuno riuscisse a elencarle e classificarle tutte, prima di venire internato, gli regalerei una copia del mio prossimo romanzo. Così potrebbe ricominciare il gioco da capo! Vado matto per le citazioni e i riferimenti, sia come autore che come lettore. Ogni volta che trovo qualcosa che mi attira, nelle opere degli altri, prendo un appunto.

  • Leggi molto? E cosa?

Leggo molto. E leggo di tutto. Non ricordo un giorno in cui non ho dedicato almeno qualche minuto alla lettura. Ho sempre a portata di mano qualche libro. Mi piace ogni genere, purché sia interessante e ben scritto: storia, geografia, scienza, filosofia, avventura, fantascienza, antropologia, archeologia, thriller, mistery… insomma, qualsiasi cosa venga stampata. Il genere che più fatico a digerire, lo ammetto, è il paranormal romance… ma leggo comunque anche quello, perché non mi piace criticare quello che non conosco. E poi, ogni tanto, si trovano delle pregevoli eccezioni alla regola. Adoro scoprire un autore bravo e poco conosciuto dalle masse.

  • Quando Giancarlo non scrive come occupa il proprio tempo?

Intendi il tempo libero? Beh, faccio più o meno sempre le stesse cose da una vita: leggo, guardo film, ascolto musica. Qualche volta tutto insieme. Di solito inizio otto o dieci libri per volta, compro più film di quanti ne guardo e conservo Cd da ascoltare in futuro quando sono ispirato. Cerco di distribuire il mio tempo equamente tra i vari interessi, ma è difficile. Normalmente, come ho già detto, leggo ogni giorno; film quasi ogni sera; musica almeno una volta alla settimana. Attualmente mi sto dedicando parecchio a recensire tutto quello che leggo e guardo. E’ un bell’impegno, però sono da poco riuscito a entrare nella TOP 100 dei recensori Amazon. Scrivere recensioni oneste non è un esercizio semplice, ma affina le capacità di analisi e sintesi. Qualcos’altro? Mi piacerebbe viaggiare di più, ma, il mio odio per la guida e l’allergia alla folla supera il desiderio di esplorazione. Questo è un mio grande difetto. Cerco di compensarlo guardando i documentari!

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

I progetti sono diversi. Ho nel cassetto qualche storia che mi piacerebbe riprendere in mano, con più attenzione, per poterle adattare a una futura pubblicazione. Vorrei riuscire a scrivere una storia  per ogni genere narrativo, a mio modo naturalmente, prima di appendere la tastiera al chiodo. Spero di riuscirci, lavoro permettendo. Per ora ho tirato fuori un giallo-noir (La vendetta è un gusto) e un thriller-horror (L’alba del sacrificio). Attualmente sto lavorando alla revisione dello spin-off di quest’ultimo. E’ un opera abbastanza ambiziosa, ambientata ancora nel “Profondo Sulcis” (come lo chiamo io), che vuole essere scritta a tutti i costi… probabilmente sarà l’ultimo enigmatico tassello della mia trilogia New Gothic! Lo scoprirete solo leggendo!

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Intervista a Elena Moscardo

Intervista a Elena Moscardo, autrice di “I nostri scarponi sulla via MOSCARDO_ESTERNAFrancigena”

I nostri scarponi sulla via Francigena è un libro singolare, un diario di viaggio, che percorre il tragitto fra Modena e Roma, che i protagonisti hanno compiuto nell’anno Giubilare del 2000 per arrivare fino alla Capitale. Un pellegrinaggio vissuto in quest’epoca moderna in cui l’effimero pare abbia preso il sopravvento sulle nostre vite e in cui le scelte facili sono diventate il mal costume comune, Elena Moscardo, autrice del libro, racconta questa esperienza condivisa con il marito Alessandro.

  • Innanzi tutto, tu e tuo marito siete avvezzi camminatori e la comune passione per i viaggi a piedi vi ha portati a percorrere diversi tragitti, come nasce la scelta di raccontare al pubblico proprio questa vostra esperienza?

L’idea e la voglia di raccontare agli altri questa esperienza, non mi è venuta subito, ma quasi 10 anni dopo averla vissuta. Il tutto è iniziato quando, raccontando ai nostri figli o agli amici i vari fatti che erano accaduti, ho iniziato ad accorgermi che la mia memoria cominciava a fare capricci: le tappe, gli incontri, le sensazioni che avevamo provate durante il viaggio spesso si sovrapponevano e confondevano. Sono allora ritornata a prendere in mano il diario di viaggio che avevo scritto allora, e rileggendolo mi sono accorta delle tante cose descritte che già non ricordavo più e delle tante altre, invece, che mi tornavano in mente ma non avevo scritte. E’ allora che ho deciso di iniziare questo libro, perché fosse anzitutto un ricordo ed una testimonianza per me, per mio marito e per i nostri figli, ma poi anche per tutti coloro che avrebbero avuto voglia di leggerlo e di ripercorrere quei sentieri assieme a noi. Perché quando si vive un’esperienza di vita bella è proprio un peccato non condividerla!

  • Gli equipaggiamenti si discostano notevolmente da quelli usati in tempi meno recenti, che cosa c’era dentro nei vostri zaini e cosa cambieresti ora, a distanza di qualche anno?

Nei nostri zaini c’erano poche cose, perché dovevamo tassativamente rientrare nel peso di 11-12 kg consigliato a chi cammina per tratte di circa 10 giorni. Tra gli oggetti indispensabili: i bastoncini da trekking, una mini-guida cartacea fatta da Alessandro, alcune carte IGM delle località attraversate, una bussola, la torcia, la cassetta di primo-soccorso e pochi medicinali essenziali, un coltello serramanico multiuso, la macchina fotografica e un diario. Come capi di abbigliamento: due magliette, un micro-pile, due pantaloncini, due pantaloni lunghi, una mantella per la pioggia, un fazzoletto da usare come copricapo, gli scarponi e un paio di sandali da cammino. In aggiunta solo un po’ di biancheria, un asciugamani e un pezzo di sapone, per tenere rinfrescato questo ristrettissimo guardaroba.
Se dovessimo ripartire adesso riprenderei con me esattamente le stesse cose, purtroppo non gli stessi scarponi, a cui ero affezionatissima, perché sono durati per solo poche altre uscite dopo quel lungo viaggio! Unica cosa in più, non in sostituzione, sarebbe un buon telefono con riferimenti GPS, per avere a disposizione tutte le mappe e le indicazioni sulle varie tappe in tempo reale. Tuttavia il nostro navigatore per eccellenza resterebbe una buona mini-guida preparata con cura e su misura per noi nel periodo precedente alla partenza. Realizzarla è una delle cose più divertenti dell’avventura!

  • Per una donna, affrontare un viaggio del genere comporta diverse difficoltà, anche da un punto di vista puramente pratico, come hai affrontato il tuo personale pellegrinaggio?

Devo confessare che grazie alla mia buona capacità di adattamento anche in condizioni difficili, quando sono a disposizione pochi confort, non ho incontrato particolari disagi, o comunque non tali da non riuscire, in qualche modo, a trovare una strategia per affrontarli e superarli. Sono una donna forte, questo devo riconoscermelo! Per me le maggiori difficoltà sono state quelle psicologiche come quella di imparare a gestire lo scoraggiamento, che a volte mi ha presa, dovuto alla momentanea perdita della motivazione che mi aveva portato a fare quello che stavo facendo. E senza un buon sostegno motivazionale è più difficile affrontare tutto: la fame, la sete, il freddo, il caldo e la fatica fisica.
Il mio personale pellegrinaggio è stato un’ottima scuola per imparare a conoscere i miei limiti, ad accettarli e a conviverci. E forse la cosa tra tutte più importante che ho imparato da questa esperienza è stata quella di sapermi affidare. Questo per me significa accettare con umiltà e con Fede che le cose, dalle più piccole e quotidiane a quelle importanti, a volte non vanno come vorresti, e si divertono a sconvolgere i tuoi piani, ma se le accetti così come vengono ti fanno quasi sempre arrivare ad un risultato inaspettato ben al di sopra delle tue aspettative.

  • Come ogni buon diario che si rispetti, fra le pagine vi sono raccolti momenti d’intensa emotività dovuti ai più svariati motivi, sia personali che esterni, vi è stato un episodio che, a distanza di tempo, rammenti più di altri?

In realtà tutti sono stati episodi belli e significativi per aspetti diversi, e non vorrei dimenticarne nessuno. Se proprio dovessi sceglierne uno solo da raccontare, sceglierei l’episodio del nostro incontro con il cane Mezzo-Husky sulla strada verso Larciano Castello. E’ stata un’occasione importante per riflettere su argomenti come l’amicizia, la fedeltà, il senso del dovere… Credo che quel cane, nell’accompagnarci per un tratto della nostra strada, ci abbia donato gioia e sicurezza, e soprattutto con la sua presenza ci abbia distratto dalla fatica e dalla noia delle tante ore di cammino.

  • Qual è stato il momento più difficile sia da descrivere nel libro che da affrontare durante il percorso?

Il momento più difficile da affrontare nel percorso è sicuramente stata la discesa dal Rifugio Duca degli Abruzzi a San Marcello Pistoiese sotto la piaggia, il vento ed immersi in una fitta nebbia che impediva di vedere dove mettevi i piedi. Lì ho dovuto veramente tirare fuori tutta la mia volontà.
Il momento più difficile da descrivere, invece… probabilmente la sofferenza di Alessandro per la sua borsite al tallone durante gran parte del viaggio; credo di non essere riuscita a rendere veramente quanto questo inconveniente abbia pesato su di lui fisicamente e psicologicamente. Lui è stato molto forte e tenace!

  • I momenti di difficoltà vissuti hanno sicuramente rinsaldato il vostro legame, tuttavia, considerando la vostra come una prova per misurare singolarmente voi stessi, pensi che gli ostacoli intercorsi siano stati creati appositamente anche per verificare la solidità dei vostri intenti?

Sicuramente, di questo ne sono convinta. Niente succede per caso, ed anche le prove, le difficoltà che si sono poste sul nostro cammino sono servite per farci riflettere sui nostri limiti, sulle nostre debolezze, perché è solo vedendole faccia a faccia che siamo riusciti ad affrontarle e a superarle. E poi, non si dice forse che: ‘…quando il gioco si fa duro… è lì che i duri cominciano a ballare!’ ?

  • Questa esperienza che cosa ti ha lasciato, oltre agli evidenti e splendidi ricordi che descrivi nel tuo libro?

Domanda difficile… non è facile spiegare una cosa così ‘intima’, ma proverò a rispondere. Questa esperienza mi ha lasciato tante cose, ed oggi non sarei la donna, la moglie e la mamma che sono se non l’avessi vissuta. E la cosa più importante che ho imparato è stata quella di saper accettare con umiltà che le cose non vadano secondo i miei programmi. E per una persona razionale, programmatrice e meticolosa come sono io, è stato un vero dono. Non è una cosa che ho imparata per sempre ed ora mi comporto di conseguenza… sarebbe troppo facile! E’ invece un pensiero che si è insinuato nel mio animo e nella mia mente e si ripresenta ad ogni occasione, come un monito, una voce interiore che non posso più far finta di non sentire, anche se ancora, a volte, mi infastidisce. Questo monito mi dice che, come lungo un sentiero, tutti i bivi di strada che si presentano nelle mie giornate sono importanti, perché da lì la strada prende direzioni completamente diverse, e che ce ne saranno sempre tanti, senza tregua, senza sosta, da affrontare in qualunque condizione, anche quando sarò stanca, demotivata o delusa. Mi ricorda che il modo migliore per continuare a camminare, superando questi bivi e scegliendo la via giusta per il mio cammino è quello di non credere superbamente di doverlo fare da sola, ma di sapermi affidare…e sapete, non è affatto facile per una come me che si considera una buona camminatrice, accettare, a volte, di farsi portare in braccio!

  • Una curiosità, quando siete finalmente giunti a Roma, qual è stato il tuo primo pensiero e che cosa hai fatto per prima cosa?

Ad essere sincera, il mio primissimo pensiero è stato: ‘E’ finita, finalmente…Ce l’ho fatta!’. Il secondo pensiero è andato alla strada percorsa, alle difficoltà, ma anche alle tante gioie vissute, agli incontri, ai paesaggi, a noi stessi e a tutte le persone che amiamo.
La prima cosa che ho fatto arrivata a Roma è stata quella di chiedere ad un passante di scattarci una fotografia davanti alla Basilica di San Pietro. Volevo avere una prova concreta che eravamo lì, finalmente giunti alla tanto desiderata meta, mio marito ed io insieme, un istante bloccato nel tempo, da tenere per sempre come ricordo.

  • Hai affrontato numerose presentazioni in questo periodo, le quali ti hanno portato a contatto con persone diverse, qual è la domanda che ti senti rivolgere più spesso e, ovviamente, tu cosa rispondi?

La domanda che le persone mi rivolgono più spesso è ‘Che cosa te l’ha fatto fare?’ e la mia risposta è sempre la stessa. Abbiamo intrapreso quel viaggio a piedi di 380 km sulla Via Francigena con la voglia di fare un’impresa impegnativa, non tanto fisicamente, ma più per la ricerca del senso delle cose e di noi stessi, e per questo indimenticabile. Volevamo metterci alla prova fisicamente e psicologicamente, e vedere se, alla fine, ci saremmo riusciti. Sapevamo, per sentito dire, che il pellegrinaggio è un’esperienza che ti cambia nel profondo, e abbiamo voluto provarlo sui noi stessi. Il desiderio di fare questa esperienza insieme a mio marito è perché, allora inconsciamente oggi coscientemente, desideravamo che qualunque cambiamento fosse avvenuto in noi durante quel viaggio, doveva essere nella stessa direzione.

  • Il ritmo che impone una camminata permette di poter godere della natura circostante, in quanto esperta nell’ambito zoologico-naturalistico, come reputi che sia lo stato di salute della nostra fauna?

Dici proprio bene, perché veramente è solo il lento camminare che ti permette di accorgerti di quello che hai intorno, di sentire i rumori della natura e di cogliere le tracce del passaggio di qualche animale, che vive lì accanto, ma tende ad essere molto riservato. Ritengo che il paesaggio, le bellezze naturali come la fauna e la flora della nostra penisola risentano di un’eccessiva antropizzazione e che alle poche isole-riserve naturali sia data troppa poca valorizzazione e quasi nessun finanziamento perché possano sopravvivere. Il fatto è che lo Stato per primo, ma anche il modo diffuso di pensare della gente, purtroppo, le considera territorio perso per l’economia di mercato anziché, come dovrebbe essere, una risorsa enorme su cui creare un’economia sociale e solidale che coinvolga tutta la popolazione.

  • Quando Elena non scrive, come occupa il proprio tempo?

Attualmente oltre a cercare di fare al meglio la mamma e la moglie, collaboro con varie Associazioni Onlus e con il Museo di Storia Naturale della mia città per progetti nell’ambito culturale e della valorizzazione e salvaguardia ambientale-naturalistica del territorio intorno a Verona. E quando mi rimane un po’ di tempo ancora, naturalmente, cammino! Perché fermare una come me, è veramente difficile.

  • Quali sono i tuoi progetti letterari per il futuro?

Desidero scrivere ancora, questo è sicuro. In realtà sto già scrivendo un nuovo racconto i cui personaggi-protagonisti sono gli animali che ho avuto nella mia vita e con i quali ho condiviso intensi momenti di amicizia; in questo testo emerge preponderante la biologa-etologa che è in me, il mio amore per la natura, per gli animali ed il loro comportamento. Posso dire che scrivo anzitutto per raccontare le cose che vedo, che sento e che provo, soprattutto quelle che per me hanno significato molto e, pertanto, desidero condividerle anche con chi avrà voglia di leggerle.
Per il momento, quindi, come scrittrice resto legata al genere autobiografico, di cronaca e saggistica, ma non voglio escludere che nel futuro potrò spaziare anche in altri genere letterari, perché, come è nel mio carattere, mi piace mettermi alla prova!

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Intervista a Eugenia Guerrieri

Eugenia Guerrieri, autrice di Deathdoc.Intervista a Eugenia Guerrieri, autrice di Deathdoc.

Deathdoc è un libro diverso, così diverso che difficilmente una trama come questa vi verrà riproposta con la stessa dose di humor, sarcasmo e incredibile realismo. Molto si cela dietro a un cadavere e non stiamo parlando del classico omicidio in cui il filo s’interrompe con la scoperta del colpevole, bensì di quello che accade “dopo”. Dopo che un corpo passa dallo stato di “vivo” a quello di “morto”, piombando nel caos burocratico e cinico che ruota intorno a qualsiasi salma. Ed è esattamente su questo che si basa il libro scritto da Eugenia Guerrieri, giovane scrittrice emergente, che ha fatto del macabro il suo punto di forza.

  • Innanzi tutto, questo non è il tuo primo libro, Eugenia, e Deathdoc non è un nuovo personaggio inventato appositamente per questa storia, vuoi raccontarci come nasce e da dove prende il suo soprannome?

È un personaggio già presente nella mia saga “La Bella Gioventù“, ambientata a Velletri, una cittadina della provincia di Roma, situata nella famosa zona dei Castelli. In origine era semplicemente il custode del cimitero, l’uomo stravagante che a dispetto del suo carattere scontroso, fa amicizia con uno dei protagonisti della saga, un ragazzo geniale (e per questo, solitario per natura) che, appena trasferito con la famiglia, prende a frequentare il cimitero “per avere un posto dove rifugiarsi quando ne ha abbastanza”. Nella bozza de “La Bella Gioventù” il custode del cimitero aveva un ruolo piuttosto marginale, solo in seguito – dietro pressione di un appassionato della mia storia – ho sviluppato la sua storia, finendo per scrivere un romanzo su di lui. Il perché di quel soprannome, che è anche il titolo del romanzo? Lo dirà la storia stessa.

  • Paolo Grandi, il nome fittizio dietro il quale si cela il tuo protagonista, è un uomo molto particolare, fuori da qualsiasi schema che lo possa identificare come eroe, che cosa ha ispirato questa tua scelta, perché proprio un uomo con questi determinati tratti caratteriali?

Paolo Grandi, il cui vero nome è Giovanni Di Micco, infatti, non è un eroe. Anzi, possiamo dire che i suoi guai se li è anche andati a cercare. Laureato con il massimo dei voti in Medicina e Chirurgia, appassionato di Medicina Legale, ha rinunciato alla sua vera passione apparentemente perché “allettato” dalla promessa fattagli dal suocero Piergiorgio Mazzone di un posto di elite nel suo reparto, quello di Rianimazione e Terapia Intensiva, in uno dei più importanti poli ospedalieri della capitale.
Giovanni, atterrito dall’idea dell’infermità permanente, dalla vita-non vita a cui vanno incontro le persone con malattie incurabili o gravemente invalidanti, era un giovane medico tendenzialmente favorevole all’eutanasia. Un’ideologia che il suocero, un uomo totalmente privo di qualsiasi scrupolo, andava cercando come requisito fondamentale nella scelta del personale medico che entra a far parte della sua squadra allettato dalle promesse di lauti guadagni. Diversamente, Giovanni non sarebbe mai stato preso in considerazione dall’avido primario.
Una cosa che mi ha fatto molto piacere è stato sentirmi dire, da chi ha già letto DEATHDOC, che è impossibile odiare il protagonista nonostante la sua cattiva fama e il suo carattere un po’ asociale, sarcastico e spigoloso. Magari le lettrici sono anche positivamente influenzate dal fatto che sia un bell’uomo?

Il perché di questa scelta, cosa me l’ha ispirata? Più che altro mi è stata suggerita per filo e per segno dallo stesso, appassionato lettore che ha tanto insistito affinché sviluppassi il personaggio di Paolo/Giovanni. «Rendiamolo interessante», ha detto. Ovviamente lui mi ha dato le linee guida, il resto ce l’ho messo io. Ascolto sempre volentieri i suggerimenti dei miei lettori, poi sta a me decidere se siano fattibili o no.

  • Ambientare una storia in un cimitero non è esattamente una scelta usuale, perché una giovane donna ha scelto proprio questo genere per comunicare con il pubblico?

Perché non avrei dovuto sceglierlo? Non mi piacciono le storie romantiche e/o sdolcinate, inoltre negli ultimi tempi sul mercato letterario c’è un’inflazione di fantasy (non che non mi piaccia il genere, ma personalmente sono un po’ stufa di vampiri, demoni, eccetera); e poi Patricia Cornwell e Kathy Reichs sono donne, eppure hanno scritto romanzi su un medico legale e su un’antropologa forense.

  • Oltre ad aver caratterizzato fino all’esasperazione i vari personaggi, di cui parleremo dopo, hai anche reso perfettamente l’idea del mondo che gira intorno a una qualsiasi morte, aspetti che non tutti sanno e che spesso, proprio a causa del momento emotivo, le persone non comprendono. Quante ricerche hai svolto per ottenere tante informazioni e quali ostacoli hai trovato nello svolgimento di tale ricerche?

Colui che ha tanto insistito affinché sviluppassi e approfondissi quel personaggio, è un giovane medico legale che lavora al cimitero. È stato lui a darmi un valido aiuto, presentandomi i suoi colleghi, permettendomi di fare tutte le domande che volevo e di vedere tutto ciò che era necessario vedere affinché potessi rendere la storia credibile. Oltre a quello, mi ha suggerito un sito internet su cui trovare gli approfondimenti delle normative che regolamentano quel mestiere che in molti nemmeno considerano, o sottovalutano. Perciò di ostacoli non ce ne sono stati; posso però affermare con sicurezza che se anche non avessi avuto il suo supporto, avrei ugualmente sviluppato una storia ambientata in un cimitero, ma senza entrare nel tecnico. Anzi, l’ho già fatto e il risultato mi soddisfa: è un romanzetto intitolato “OGGI RICORRONO I MORTI (SPERIAMO VINCA MIO NONNO)“, incentrato interamente sulla giornata del 2 novembre. Lo consiglio sempre a chi è curioso di leggere una delle mie storie particolari ma si impressiona per certi dettagli.

  • Come dicevamo, i personaggi, che ruotano intorno al cimitero, hanno tutti in comune la caratteristica di divenire grotteschi ed esaltano quegli aspetti che, per assurdo, li rendono ancora più umani. Hai tratto spunto da persone reali?

Per incontrare personaggi grotteschi basta andare in giro e osservare la gente nella vita di tutti i giorni. In ogni caso, quando qualcuno mi fa particolarmente innervosire, lo “uccido” e lo faccio diventare un ospite del cimitero del protagonista. È anche un’ottima valvola di sfogo! Queste persone non immaginano che se sorrido invece di mandarle al diavolo come meriterebbero è solo perché nella mia infinita fantasia scribacchina le ho già collocate orizzontalmente in una graziosa tomba…

  • Nel tuo libro vi sono menzionati diversi episodi in cui il filo conduttore è alla fine qualcuno su cui piangere, quanti di questi episodi sono reali e quanti inventati?

La storia personale del personaggio è tutta inventata. Gli episodi al cimitero, invece, mi sono stati raccontati oppure vi ho assistito personalmente.

  • La vena di humour macabro è una parte insita del tuo carattere oppure insorge nel momento stesso in cui, calandoti nella storia, emerge improvvisamene lo scrittore che è in te?

Lo ammetto: la vena macabra è insita nel mio carattere. E non mi importa cosa gli altri pensino di me. In ogni caso, cerco sempre di buttarla un po’ sul ridere.

  • La cultura occidentale identifica il cimitero come un luogo di morte e sofferenza, mentre la cultura orientale tende a renderlo un luogo in cui la pace dello spirito influisce anche sull’animo delle persone. Due concezioni diametralmente opposte, tu come vivi questo luogo?

Direi che abbraccio pienamente la cultura orientale, al cimitero mi sento veramente in pace.

  • Per offrire un’alternativa diversa al lettore, non avresti voglia di scrivere un libro scritto dal punto di vista del morto?

Chi ti dice che io non l’abbia già fatto? Aspetta di leggere il seguito di DEATHDOC! Certo, per scrivere ciò ho usato molto la fantasia, dando anche alla storia delle mie personali libere interpretazioni, perché ovviamente nessuno è mai tornato indietro a raccontarmi come sia il punto di vista di un morto. Anche se, dovendo scegliere, preferirei mi desse i numeri vincenti del Super Enalotto…

  • Quando Eugenia non scrive, come occupa il proprio tempo?

Se intendi il mio tempo in generale, faccio quello che fanno tutte le persone che vorrebbero essere nate ricche, ma che invece non lo sono e “devono campà”. Se invece ti riferisci al tempo libero: ultimamente ne ho molto poco, quindi scrivo soltanto. Guai a propormi qualcosa di diverso! Non è cattiveria, ma ultimamente il mio motto è: LASCIATEMI scrivere IN PACE e non rompete.

  • Sappiamo che per Deathdoc è previsto un seguito, puoi anticiparci qualcosa in merito al tuo nuovo libro?

Il seguito di DEATHDOC si intitola IL SIGNORE DEI CIMITERI. L’ho già inviato all’editrice per la valutazione.
Nelle sue pagine si ritrova Paolo/Giovanni in periodi differenti della sua vita. Lo vedremo ragazzo, giovane uomo, studente e specializzando in Medicina Legale – e in alcuni capitoli anche nel ruolo che già ricopre nel romanzo DEATHDOC, vari episodi che nel precedente libro non ho raccontato perché poco inerenti –, sempre con la smodata passione per i cimiteri. Non si è mai lasciato sfuggire l’occasione di visitarne uno, magari rinunciando a una gita o a una giornata di mare.

Di cosa parla IL SIGNORE DEI CIMITERI? Qui ci riallacciamo alla domanda sullo scrivere un libro dal punto di vista di un morto. Si scoprirà infatti che Giovanni Di Micco è un “medium“, in grado di vedere i trapassati e di interagire con loro. Un dono che scopre gradualmente, ma di cui non sa proprio cosa fare. Sulle prime crederà di essere pazzo.
Questo lato della storia è raccontato secondo una mia personale e molto fantasiosa interpretazione dell’after-life: i fantasmi della mia storia non fluttuano e non sono trasparenti, ma ai suoi occhi appaiono in tutto e per tutto con l’aspetto di persone normalissime. Inoltre sono impossibilitate ad allontanarsi dal luogo dove dimora il loro corpo; il che, per il nostro amato protagonista, è un sollievo: gli è già difficile riuscire a distinguerli dai vivi all’interno del cimitero, figuriamoci se li incontrasse per strada.
Ovviamente sull’argomento c’è dell’altro, ma lo scoprirai leggendo il libro.

  • Per rimanere in tema e per concludere degnamente questa simpatica chiacchierata, cosa scriveresti come epitaffio per questa intervista?

Uhm… va bene che la morte piace alla gente che giace?

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Intervista a Sabrina Grementieri

Noccioli di ciliegie di Sabrina GrementieriIntervista a Sabrina Grementieri

  • Sabrina Grementieri ha scritto due romanzi che rientrano nel filone “rosa”, ovvero parlano di amore e sentimenti, senza però tralasciare la passione e la realtà delle persone. In un’epoca in cui tutto diventa materiale o, al contrario, fin troppo fantasioso, che valore dai all’amore?

Buongiorno a tutti. Quale migliore domanda per una romantica come me? Per me non esiste un’esistenza senza amore. Per amore io intendo la passione, l’entusiasmo, il sacrificio, gli attacchi di tachicardia e le farfalle nello stomaco, le lacrime di soddisfazione e orgoglio. Anche ai più cinici io chiedo sempre: siete sicuri di non avere mai provato questo sentimento? Perché l’amore non è solo quello tra due persone adulte. È l’amore per i propri figli, per gli animali, per il proprio lavoro, per una giusta causa. Io non mi alzerei dal letto al mattino se nella mia vita non ci fosse almeno una di queste cose. Ma vogliamo circoscrivere l’amore a quello tra due persone? Io personalmente non potrei davvero vivere senza. E non parlo dell’innamoramento, quello che ti travolge, ti sconvolge, ti ringiovanisce e ti rincretinisce. Parlo di quella difficile sfida di costruire un rapporto forte, complice e arricchente basato sui sentimenti. Fermatemi adesso!

  • Sia in “Una seconda occasione” che in “Noccioli di ciliegie” l’ambientazione si svolge in territorio nazionale, prima nelle verdi campagne toscane e poi sui rilievi dell’Alto Adige, perché questa scelta? E come reputi la decisione di altri autori di porre i propri personaggi in ambientazioni per lo più estere?

L’Italia è un paese paesaggisticamente stupendo. Abbiamo cornici uniche e varie, dai ghiacciai alle dune, dalle città alle isole. Da adolescente, quando ho iniziato a scrivere, anche io ambientavo le mie storie all’estero. Buona parte di quello che leggevo era ambientato oltre frontiera, e sembrava naturale così. Poi ho iniziato a viaggiare, ho visto posti splendidi e mi sono innamorata del mio paese. Sono strana vero? Credo che a noi italiani manchi la cultura di sostenere il nostro paese. Non so quanto arriverò lontano con i miei romanzi, ma è in Italia che voglio ambientare le mie storie. Pensa che la prima cosa che mi dicono dopo averle lette è che sembra di essere proprio in Toscana, o in Alto Adige. Questo per me è un grande successo.

  • I tuoi personaggi sono sempre molto ben tratteggiati e caratterizzati da aspetti che li fanno sembrare molto reali. Trai spunto da persone che conosci o attingi direttamente da te stessa?

Fino ad ora i personaggi sono tutti inventati. Poi è inevitabile metterci qualcosa di me, o di qualcuno che ha incrociato il proprio cammino con il mio. Nel tentativo di renderli più reali possibili devo per forza attingere dalla realtà, ma sono lontana dallo scrivere di persone realmente conosciute.  Mi mette a disagio, ma non è detto che in futuro non possa accadere!

  • Nei tuoi romanzi esiste sempre una componente che riporta a cause fisiche e psichiche, come malattie, incidenti o altro, perché hai ritenuto opportuno porre uno dei protagonisti in una condizione di “quasi” bisogno rispetto all’altro?

In realtà fornisco ai miei protagonisti una buona dose di drammi ciascuno, giusto per non fare differenze! A parte gli scherzi, il cammino di ciascuno di noi è costellato di ostacoli, più o meno gravi, e mi piace descrivere il loro cammino e i loro tentativi/ non tentativi di superarli. Poi vuoi la mia poca esperienza di scrittrice, oppure la mia ostinata positività, la storia finisce sempre con un lieto fine. Ma io sono così nella vita reale: amo le sfide, e mi intestardisco nel ricercare un finale positivo. Non potrei mai scrivere profondi saggi intimistici, conditi di cinismo e fatalità. Non riesco nemmeno a leggerli!

  • Pur essendo dei romanzi rosa, le tue trame si discostano parecchio dal classico cliché dettato dall’amore zuccheroso, anzi, spesso i tuoi protagonisti, come nella vita reale, non sanno se avranno un lieto fine fino all’ultima riga. Hai mai pensato di lasciarli veramente in sospeso e di non produrre un happy end?

Direi che ti ho già risposto nella domanda precedente. Per ora no, non potrei non finire con l’happy end. Non amo le storie zuccherose, le protagoniste svenevoli e i protagonisti tutto testosterone. E nemmeno le trame troppo scontate. Come hai detto tu, preferisco sembrino più reali possibili. Però anche se li faccio sudare un po’, poi alla fine si tira tutti un bel respiro di sollievo!

  • La moda del momento prevede un rapporto realistico fra i personaggi, ovvero piuttosto carnale, benché i tuoi non siano privi di passione, tutt’altro, non vengono mai descritti in modo troppo “intimo”, la tua scelta è voluta? E pensi che riusciresti mai a scrivere qualcosa di più torbido e travagliato anche da questo punto di vista?

La scelta è decisamente voluta. Non sono un’amante dell’erotico, e anche se lo fossi ora mi sarei già abbondantemente stufata. Sono capricciosa, lo ammetto: le mode mi scatenano uno strano prurito sotto pelle, e ne sto lontana.
Poi, si sa, le scene di sesso sono tra quelle più difficili da descrivere, e sono certamente ancora molto inesperta!
Per concludere, vogliamo lasciare ai nostri pazienti lettori un po’ di spazio per la fantasia? Io la vedo così, e permettimi questo paragone: scrivere di sesso è un po’ come vestirsi. Se vado in giro con addosso solo una foglia di fico, che altro c’è da scoprire?

  • Mentre la cover e il titolo del primo libro erano abbastanza chiari, il secondo, Noccioli di ciliegie, rimane un po’ più enigmatico. Come mai hai scelto questo titolo e che cosa rappresenta per te?

I Noccioli di ciliegie sono per me il simbolo dei gesti di affetto, delle coccole. Come sai, sono quei sacchettini pieni di noccioli che puoi scaldare e mettere nelle parti doloranti del corpo. I miei figli li vogliono d’inverno per andare a dormire, soprattutto quando io sono al lavoro e non posso essere con loro. Li abbracciano come fossero un’ancora, e da lì è venuta l’idea. Il disegno è di un’amica, la brava artista Chiara Di Placido, alla quale ho lasciato libera scelta di interpretare la storia.

  • Vi è un’evidente crescita artistica fra il primo e il secondo libro, non tanto a livello qualitativo, giacché era ottimo fin dall’esordio, quanto da un punto di vista stilistico, poiché nella tua seconda opera hai posto maggiore riflessività e attenzione all’equilibrio della trama. A cosa è dovuto, secondo te, questo cambiamento?

La verità? Alle critiche costruttive! Lo scorso anno ho collaborato con alcuni scrittori nella stesura di racconti e al momento dell’editing, il mio aveva subito una bella batosta! Ma sono una brava ascoltatrice e soprattutto assorbo consigli e idee come una spugna. Se non c’è cattiveria (dalla quale ahimè mi faccio ferire) cerco di mettermi sempre in discussione.

  • Sabrina Grementieri scrittrice, moglie, madre, lavoratrice. Le tue giornate devono essere davvero molto piene. Quando trovi il tempo per scrivere? Quando ti vengono idee per un romanzo, riesci sempre a tenerle a mente o le scrivi da qualche parte per non perderle durante le mille attività quotidiane?

In realtà non prendo quasi mai appunti, e di questo mi rimprovero perché poi dimentico. Magari non il soggetto o il contesto, ma le parole giuste per esprimere un concetto, che di solito ti vengono nei momenti più impossibili. Però faccio spesso foto, perché l’ambientazione è la molla che fa partire la fantasia.

  • Quando Sabrina non scrive, come occupa il suo tempo, sempre che gliene rimanga?

Quando non scrivo faccio quello descritto sopra: mamma, moglie, lavoratrice. Però mi piace uscire con gli amici, e viaggiare, e ti giuro, a volte ci riesco!

  • Avendo pubblicato con un editore nativo digitale, quanto pensi che sia importante l’approccio di un autore con il web e quali vantaggi pensi che la rete possa offrire?

Un autore, purtroppo, deve imparare a sfruttare i vantaggi della rete. Dico purtroppo perché io non sono molto abile con la tecnologia, quindi ci perdo un sacco di tempo per ottenere risultati mediocri. Dalla mia posso dire che ci provo. So che devo promuovermi, farmi sentire, far sapere che ci sono. Voi mi state davvero aiutando, e non potrò mai ringraziarvi a sufficienza.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro e che cosa puoi anticiparci del tuo prossimo romanzo?

Tanti, sempre tanti progetti! Non riesco mai a fermarmi. Ho terminato il terzo libro, ambientato in Salento questa volta. È in attesa di spiccare il volo. Voglio partecipare a workshop di scrittura, imparare da chi ne sa più di me di questo meraviglioso mestiere. Voglio continuare a viaggiare, a conoscere, a stupirmi. Ma soprattutto voglio essere presente per i miei due cuccioli d’uomo, sperando di trasmettere loro la voglia di sapere, di scoprire, di assaporare la vita.

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