Intervista a Emanuele Gagliardi

Intervista a Emanuele Gagliardi autore de La pavoncellaIntervista a Emanuele Gagliardi autore de La pavoncella

 

Emanuele Gagliardi, vincitore del primo concorso proposto da Edizioni Esordienti Ebook, dedicato alla categoria giallo, thriller e noir, non è nuovo né a tali generi né al ricevere premi e riconoscimenti per le sue opere. La sua mano si è affinata nel tempo, proponendo sempre libri di grande interesse, le cui trame hanno quel particolare gusto vintage che riporta ai tempi passati. Umberto Soccodato, il suo commissario, presente in tutti i libri, non è solo un personaggio, ma un uomo a cui il lettore finisce per affezionarsi.

  • L’affaire Pasolini, l’ENI e la vicenda Mattei sono i perni su cui gira il romanzo La pavoncella. Perché proprio queste vicende ti hanno guidato nella stesura della trama del tuo libro?

            In tutta franchezza, le mie storie originano anzitutto dalla necessità di tornare a “sentire” – uso il verbo nell’accezione propriamente e totalmente sensoriale – un’epoca per me indimenticabile: gli anni Settanta. Perché siano stati tali, è presto detto: ero bambino. Una volta dissi al pediatra che mia figlia voleva a tutti i costi dormire nel lettone in mezzo a mamma e papà. Lui mi rispose: “perché, a lei non piacerebbe?” Con i miei libri ho trovato il modo per crogiolarmi richiamando le sensazioni visive, uditive e olfattive di quegli anni. I fatti di cronaca, gli aspetti sociali e di costume, vengono in un secondo momento e servono a contestualizzare la vicenda. Nel caso de La pavoncella, si aggiunge la volontà di rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini che, al di là delle discutibili scelte di vita, è stato un grande intellettuale e un poeta assoluto. La Supplica alla madre è una gemma unica per la onesta disperazione che rivela.

  • Il commissario Soccodato è un personaggio estremamente ben caratterizzato dal punto di vista umano. I suoi rapporti con la moglie e le sue relazioni con sottoposti e superiori, lo rendono più “persona” che personaggio. Quanto hanno influito le tue precedenti esperienze letterarie, dato che questa è la tua quarta pubblicazione, per dare una visione così reale del tuo protagonista?

            Il commissario Soccodato è in buona misura un mio alter ego. Chi mi conosce sa quanto corrispondano alla mia personalità il suo aspetto demodé, l’attaccamento alla quiete domestica, un’emotività che lo rende a volte più poeta che poliziotto, ma pure un sarcasmo spinto fino al dispetto…  È sotto tutti gli aspetti un antieroe,“un popolano del miglior lignaggio”, come lui stesso sottolinea citando Ettore Petrolini. Un romano, come me e come tanti, che per pigrizia e per istinto di conservazione non ha proprio voglia di far l’eroe, pure perché, con tutto il rispetto, sulle lapidi degli eroi le date di nascita e morte sono sempre troppo ravvicinate! Un’incarnazione del motto andreottiano “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, insomma. 

  • L’ispettore Santucci, per contro, non appare quasi mai nel libro, ma la sua presenza si avverte in modo incisivo, soprattutto come “momento leggero” all’interno di una vicenda piuttosto complessa. Inoltre, ci sono altri personaggi che rendono la storia molto ironica e divertente. Trattandosi di un giallo in piena regola, queste figure sono state volutamente inserite per rendere meno pesante la trama?

            Non posso fare a meno dell’ironia. Non ci riesco nella vita e tanto meno ci riuscirei nella scrittura. E poi sono convinto che uno “stacco” sul sorriso sia utile: per alleggerire la narrazione, certo, ma anche per evitare di “scriversi addosso”, di cadere nella seriosità. Visto che abbiamo parlato di Pasolini, ricordo volentieri una sua frase: “la serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre”. Santucci fa ridere, è vero, ma poi contribuisce in maniera determinante alle soluzioni dei casi perché va fino in fondo, obbedisce agli ordini senza sicumera, con forte volontà. Un antieroe anche lui. Ma spesso c’è più eroismo nella quotidianità che in un atto eclatante.

  • La vicenda investigativa condotta con metodi “classici”, rispetto a quelli che sono gli standard mostrati anche dalle più moderne serie televisive, donano alla trama un sapore vintage. Una scelta così in controtendenza con quanto normalmente viene proposto, non temi possa penalizzare il tuo libro?

            Direi che, al contrario, in questa scelta stia il punto di forza, l’originalità dei miei romanzi. Lavoro in Rai da quindici anni e so per esperienza quanto la gente che vede CSI, NCIS o Criminal Minds abbia anche voglia di “classico”. Vanno a ruba gli home video che ripropongono su supporti attuali i telefilm con il Commissario Maigret, il Tenente Sheridan, Colombo, Nero Wolfe, Starsky e Hutch… o i grandi sceneggiati degli anni ‘70, tipo Il segno del comando, Ho incontrato un’ombra, Qui squadra mobile, Ultimo aereo per Venezia, solo per citarne alcuni.

  • Roma, metà anni ’70: perfetta cornice per la storia descritta. Se dovessi ambientare la vicenda ai giorni nostri, quali pensi che dovrebbero essere le variabili necessarie?

            Le indagini dovrebbero essere condotte con maggiore ausilio della tecnologia e della scienza forense. Il ritmo delle indagini dovrebbe essere più serrato, conforme ai tempi di una società che “non dorme mai” a causa (dico di proposito “a causa” e non “grazie a”) dell’informazione permanente garantita dai new media che annullano ogni limite spazio-temporale. Anche i personaggi dovrebbero essere differenti: più dinamici anche loro, più social, e magari con situazioni familiari problematiche o alternative… Basta così! Se dovessi essere costretto a sovvertire tanto la mia natura preferirei smettere di scrivere.

  • Quanto lavoro di ricerca hai svolto per scrivere una vicenda così intricata e così precisamente inserita nel contesto dell’epoca?

            Molto lavoro. Lavoro estremamente piacevole, però. Ogni volta che scrivo un libro frequento biblioteche ed emeroteche e mi documento su tutto: cronaca, politica, società, musica, televisione, cinema, cultura, sport, pubblicità…  per completare i ricordi personali e ricostruire il più fedelmente possibile l’atmosfera di un’epoca. È il “vizio” del rigore storico che ho appreso studiando all’università con il professor Renzo De Felice.

  • Per descrivere i vari personaggi del libro hai preso spunto da persone realmente esistite?

            Dalla realtà mutuo soprattutto le fisionomie. Le vicende umane, invece, o sono di totale invenzione o sono il risultato di una miscela di spunti presi qua e là e assemblati ex novo.

  • Il protagonista fuma la pipa, atto simbolico che, solitamente, aiuta nella concentrazione e nel trovare una propria visione della realtà. Questo particolare nasce da una propria esperienza personale, oppure diviene parte di quel classico bagaglio che richiama personaggi letterari già conosciuti?

            Sono stato fumatore di pipa fino a pochi anni fa. La pipa aiuta la concentrazione, è vero, e fa molto personaggio ma… la salute è più importante. Meglio che a fumare continui solo Soccodato. Il riferimento Maigret è dichiarato.

  • La parte di storia relativa alla pavoncella, descritta nel libro come espediente per tranquillizzare una bambina spaventata dall’allarme antiaereo, per quanto funzionale alla trama, rappresenta una scelta davvero particolare, dal momento che è diventata il titolo del libro. Vuoi raccontarci il motivo di tale scelta?

            Da un po’ di tempo mi sono appassionato all’esperimento di crowdsourcing – giornalismo partecipato basato sulla presenza di “informatori” sparsi sul territorio – lanciato sul web dal giornalista Mario Tedeschini Lalli che si è messo sulle tracce delle sirene di allarme antiaereo installate ai tempi della II Guerra mondiale. Solo a Roma, alzando lo sguardo ai tetti, sono state censite una trentina di sirene. Io stesso mi sono arrampicato su alcune terrazze condominiali per osservare da vicino e fotografare queste testimoni del passato. Di alcune ricordo il suono, non di allarme per mia fortuna, perché fino a tutto il 1975 venivano azionate ancora per segnalare il mezzogiorno. La storia della bambina è inventata, ma serve ad introdurre il richiamo alla pavoncella, comune uccelletto spesso erroneamente confuso con la femmina del pavone di cui non ha le caratteristiche di bellezza, a cui il commissario Soccodato associa una delle protagoniste del romanzo, altezzosa fino alla stizza ma offuscata e frustrata dalla ingombrante avvenenza della sorellastra non amata.

  • Che cosa ti ha spinto a pubblicare con un editore nativo digitale e, dopo “La pavoncella”, pensi di scrivere un altro libro giallo o spaziare in altri generi?

            Ho partecipato con il mio romanzo inedito al concorso indetto da Edizioni Esordienti Ebook e dopo pochissime settimane ho vinto il primo premio. Un riscontro immediato, inatteso, senz’altro gradito. Circa le caratteristiche “digitali” dell’Editore in questione, sarei ottuso se mi lasciassi condizionare. Prediligo il libro cartaceo, indubbiamente, ma la realtà è cambiata e in alcuni casi non è possibile ignorare il mutamento. Il gusto di scrivere è legato al piacere di raccontare qualcosa. Il libro, la scrittura tout court, è un medium “freddo”, volendo usare la dicotomia antifrastica coniata da Marshall McLuhan, perché implica un alto grado di partecipazione e di completamento da parte del pubblico. Io racconto storie vintage che, per quanto so, trasmettono e riaccendono emozioni in coloro che le leggono e se ne sentono coinvolti. Il supporto tramite cui avviene questa osmosi emozionale è solo strumentale, poco importante.

            Circa un mese dopo La pavoncella è uscito Scommessa assassina (Giovane Holden Edizioni), un altro giallo-vintage. Siamo nel luglio 1966, mentre si giocano i Mondiali di calcio in Inghilterra. Il commissario Soccodato è in vacanza in Romagna, a Bellaria, con la moglie; un conoscente che alloggia nel loro stesso albergo lancia un’assurda scommessa, un anziano professore muore in circostanze oscure. In cantiere ho poi altri due thriller con il commissario Soccodato, ma ho anche nel cassetto una storia diversa: per l’ambientazione, che è vintage solo nella prima parte della vicenda, e per il genere che è la fantascienza.

  • Quando Emanuele Gagliardi non scrive, come occupa il proprio tempo?

            Prima che scrittore sono padre, marito e figlio. Quando non scrivo, ma allo stesso modo mentre scrivo, cerco di compiere al meglio queste tre funzioni perché colloco la famiglia al primo posto nella mia personale assiologia. Poi, al di là del tempo riservato al lavoro, mi piace dedicarmi alla passione che mi accompagna sin dagli anni dell’infanzia: la fotografia. Rigorosamente con apparecchi a pellicola, tutti modelli degli anni Sessanta e Settanta. Prediligo le stampe in bianco/nero e, per il colore, le diapositive.

  • Hai qualche consiglio da dare agli autori alle prime armi, soprattutto a quelli che si vorrebbero cimentare nel genere giallo/spy story?

            Anzitutto leggere i maestri del genere. Per quanto mi riguarda, Simenon, Scerbanenco, Fleming… Quindi definire e mettere a fuoco una propria nota caratteristica che ricorra in tutti i romanzi, magari raffinandola di volta in volta. Tener presente che il thriller, il noir sono più che altro un’atmosfera che deve coinvolgere il lettore non solo come co-investigatore, ma come co-protagonista. Evitare sconfinamenti nel sovrannaturale o nel fantascientifico, o comunque collocarli in posizione accessoria rispetto alla vicenda principale che deve viaggiare sui binari della concretezza.

            Infine, l’ingrediente fondamentale: tanta umiltà.

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Intervista a Simone Fanni

Profumo criminaleIntervista a Simone Fanni

 

  • Simone Fanni non è nuovo al genere giallo, nel recente passato ha pubblicato e ricevuto dei riconoscimenti proprio per il suo talento innato. Con “Profumo criminale” propone un romanzo dallo stile originale, per nulla scontato: un ottimo giallo. Come nasce la tua passione per questo genere?

Credo che siano tutti quei morti. In un giallo si possono mettere dentro tantissimi morti. Ogni scrittore di gialli sa bene che nel suo romanzo può metterci un numero a piacere di morti, la sola cosa che conta è che inizi a farlo già nelle prime pagine. Ho molta paura di morire, perché in quel momento sarò costretto a esserci. Mi consola il pensiero di non temere la morte, perché credo che la morte sia il niente. Sfido chiunque a toccare il niente. Qualcuno provi ad annusarlo e qualcun altro aguzzi l’udito nel tentativo di ascoltarlo. E vogliamo parlare di chi possa essere in grado di vedere il niente? Ho fatto questo discorso alla mia parrucchiera e mi ha detto che se guardassi i programmi di Maria de Filippi cambierei opinione.

  • Lo stesso inizio da modo di capire una certa propensione anche per l’horror, dal momento che la storia si basa proprio su uno scrittore di romanzi sui vampiri, condita però da una vena ironica davvero notevole. Questa caratteristica, data dal sarcasmo, è presente in tutti i tuoi romanzi?

L’ironia è la spada più affilata. Taglia in due il pubblico, separa quelli che la colgono da quelli che non ci riescono. Ma è anche la spada con l’impugnatura più scivolosa, se il colpo non è calibrato bene, la testa che vola è proprio quella dello spadaccino. Per questo, in tutte le mie storie, durante le operazioni di revisione, mi sono accorto di essermi decapitato almeno mille volte. Così, mi sono ricucito la testa prima di mettere i romanzi in vetrina. Purtroppo sono altre mille le teste che ho perduto quando ormai era troppo tardi.

  • I personaggi sembrano caricature di quel classico stereotipo presente in quasi tutti i romanzi gialli, tuttavia le descrizioni e il modo con cui li fai muovere all’interno della trama denotano una ricerca molto accurata del particolare, da dove trai lo spunto per scegliere i tuoi protagonisti?

Li metto nella scena che sto scrivendo e poi qualcosa succede sempre. Loro fanno cose, uccidono, amano, vincono e perdono, dormono e così via. Però non posso dire di avere una sorgente di spunti dalla quale sgorghino personaggi. Comunque “Profumo criminale” è diverso. Per la prima volta ci sono alcuni amici veri che si muovono in tempi e spazi immaginari. Sono Giulia, Augusto, Michele e Patrizio. Ognuno di loro, in qualche modo, condivide con me il piacere di collegare lo stomaco ai polpastrelli e pestare sui tasti di un computer per dare un corpo alle proprie fantasie.

  • Profumo criminale è decisamente un romanzo atipico, la lettura è talmente scorrevole e divertente che, arrivando alla fine, si ha quasi voglia di tornare all’inizio e ricominciare. Questo denota una grande maestria nel saper apporre dialoghi e fasi narrative, come e quando nasce la tua passione per la scrittura?

Nasce alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Ero povero, pieno di debiti e il mio corpo emanava un’aura di creatività repressa. Era un’aura insopportabile, la mia ex ragazza non riusciva a dormire per colpa della mia aura. Così, una sera, era tornata a casa con un corso di scrittura creativa preso in edicola per duemila lire. Non lo avevo neppure aperto, ma sotto il mio primo foglio bianco non avrei potuto avere nulla di più rassicurante. Con la biro tra le dita della destra, la fronte tra quelle della sinistra e il gomito sulla scrivania presa a rate, avevo partorito tutto d’un fiato un racconto breve sulla faccenda della diga del Vajont. Ecco là, il mio hobby low cost. Alcune ore dopo, la mia aura di repressione si era estinta e la mia ex aveva ripreso a dormire.

  • Nonostante l’ironia e la parte umoristica, il libro è veramente un giallo e la trama si dipana in modo elegante e fluido fino alla conclusione finale, ciò nonostante si ha quasi l’impressione che il protagonista sappia esattamente di essere all’interno di un romanzo e che tutte le decisioni finali le prenderà comunque lo scrittore. Questa scelta è voluta?

Naturalmente. Gli scrittori sono tutti pazzi e la scrittura non è altro che uno strumento per veicolare un delirio di onnipotenza. Lo scrittore non decide solo la sorte degli altri, per fare questo basterebbe essere un assassino, un giudice, un insegnante, un dittatore o il direttore di una banca. Lo scrittore decide chi ama e chi non deve essere amato, nessun altro può farlo nella vita reale.

  • Francesco, il tuo protagonista, è decisamente un personaggio bizzarro, un anti eroe che non sfoggia né muscoli né particolari doti alla Sherlock Holmes per giungere a scoprire il vero colpevole della vicenda. Tuttavia, la sua simpatia e il suo essere quasi fatalista lo aiutano a superare i momenti critici, quanto sei Francesco nella vita reale?

Quale vita reale?

  • E a proposito di vita reale, un passaggio del tuo libro dice: “Anche se certe volte non si può fare a meno di confondere il romanzo con la realtà, morire fra le righe di un libro non è proprio come morire nella vita” il tutto scritto in un momento piuttosto surreale. Questi accostamenti fra “serio” e “faceto” sono studiati appositamente oppure hanno origini naturali?

È tutto studiato. Il senso di questa storia è l’inevitabile distorsione della realtà. Il messaggio nascosto tra una parola e l’altra è che ciascuno di noi vede le cose dal proprio punto di vista e su quello costruisce un’opinione. La condizione geografica e sociale, la musica che possiamo ascoltare, l’arte che ci circonda, avere due genitori che si amano, essere un figlio sano, andare in parrocchia oppure a visitare un museo, tutte queste cose sono fogli trasparenti sui quali qualcuno ha scarabocchiato qualcosa per noi. Dopo aver sovrapposto tutti i fogli trasparenti, gli scarabocchi si incrociano ed è impossibile vedere cosa ci sia dall’altra parte. Quindi, non credo che esista un’oggettività delle cose, se questo è il modo di intendere la realtà.

  • Il protagonista è appunto uno scrittore che spesso si interroga sulle strategie migliori per vendere un libro e per tornare a cavalcare l’onda del successo, quanto hai studiato realmente il mondo dell’editoria per giungere a determinate conclusioni?

Ogni prodotto, un paio di occhiali, un orologio, l’articolo di un quotidiano, il panino del pub di Giulio, è cucito su misura per il cliente e i libri non fanno eccezione. Le realtà locali sono la strada per vendere quel tanto di copie che basta per arrotondare lo stipendio. Ti faccio un esempio: se scrivessi un libro sulla madonna che appariva ogni terza domenica del mese sul soffitto della camera da letto di un’amica di mia zia, quasi tutte le parrocchie del Nordest farebbero a gara per avermi come ospite della domenica e i fedeli sarebbero felici di acquistare una copia del libro con la mia dedica. Ma a me non interessa, preferisco raccontare i morti ammazzati a quelli che vogliono leggere i capricci del mio stomaco.

  • Isabella e Francesco sono nomi piuttosto ricorrenti nelle tue pubblicazioni, che cosa rappresentano per te?

L’amore.

  • Quanto tempo impieghi per preparare un libro che sia pronto per la pubblicazione?

Le storie che ho pubblicato le ho scritte quasi tutte in meno di dodici mesi. “Profumo criminale” è il romanzo più breve che abbia mai pensato, ma ho lavorato due anni su queste pagine perché le riempivo contemporaneamente a quelle di un’altra storia a proposito della quale sono costretto a mantenere la massima segretezza.

  • Passiamo ora a conoscere brevemente l’autore, non solo come magnifico scrittore di gialli, ma anche come persona. Quando Simone Fanni non scrive, come occupa il proprio tempo?

Quasi tutti i giorni Simone Fanni legge qualcosa e fotografa qualcuno. Una volta all’anno, insieme a pochi parenti e amici, gira l’abominevole film di Natale. Il film è abominevole perché i parenti e gli amici sono veramente degli attori cani.

  • Quali sono i prossimi progetti che hai nel cassetto?

Scrivere ancora, naturalmente.

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Intervista a Paolo Ferruccio Cuniberti

Un'altra estate di Paolo Ferruccio CunibertiIntervista a Paolo Ferruccio Cuniberti

 

  • Ben arrivato Paolo, siamo davvero molto curiosi di conoscerti meglio e non solo attraverso le tue opere, ma anche come persona e come scrittore. L’esserti recentemente classificato fra i 19 finalisti per Sanremo Writers 2014, grazie al libro “Un’altra estate”, non è altro che l’ennesimo riconoscimento alla tua bravura, come ti fa sentire? Quali sensazioni suscita in te?

R: Il romanzo Un’altra estate dopo Sanremo Writers (che ha visto circa 400 partecipanti) è stato anche tra i sei segnalati del premio Saturnio – Città di Moncalieri e sarà in concorso prossimamente per altri eventi simili. Sono ovviamente piccole gratificazioni che fanno piacere, anche se in fondo non sono così importanti per imporsi all’attenzione di una platea ampia di lettori. Si dice che l’unico premio che veramente “muove il mercato” è il premio Strega, ma, come ben sappiamo, ci vuol ben altro per arrivarci (e non parlo solo di qualità letteraria…).

  • Come è iniziata la tua carriera di scrittore?

R: A parte i tentativi che ho fatto da ragazzo, come tanti, è la maturità che mi ha fatto riscoprire il talento latente per la narrativa. Per molti anni non ho scritto in termini creativi, anche se ho studiato le strutture formali del romanzo con i classici della critica letteraria: Propp, Bachtin, Lukács, Genette, Eco… poi mi sono occupato di studi sulla cultura popolare con un taglio decisamente scientifico/antropologico, scrivendo alcuni articoli per riviste culturali. Ora li ho riuniti nel volume Orsi, spose e carnevali che ho pubblicato per l’editore Araba Fenice, ma sono destinati a un pubblico decisamente di nicchia. Invece, con la narrativa mi sono sentito libero di utilizzare tutti gli strumenti acquisiti, di metterli anche da parte, e lasciarmi portare dal divertimento di scrivere. Per certi versi i miei romanzi li considero un’evoluzione dei lavori precedenti: uno scrittore è sempre un po’ antropologo, perché descrive e analizza i comportamenti umani e sociali.

  • Le tue pubblicazioni seguono un filo logico, formando quasi una trilogia che riporta alla memoria un passato a cui apparteniamo tutti, sia personalmente che come frutto di scelte generazionali, vuoi parlarcene?

R: L’idea della trilogia è arrivata dopo il secondo romanzo ambientato negli anni 80, Indagine su Anna. Il romanzo d’esordio è stato Body and soul, dedicato agli anni 70. Un libro breve, scritto in poche settimane, quasi di getto, che racconta come vivevano i giovani in quegli anni a Torino, e con l’intento dichiarato di dimostrare che, in fondo, in Italia non si è riusciti a cambiare molto in positivo, e che tutti i nostri problemi attuali sono gli stessi, o quasi, di allora. In quel decennio c’erano forse più ideali, più sogni, ma la cruda realtà era destinata a spezzarli presto; è anche un libro che racconta la passione per il jazz e come questa possa condurre al furto… Anche questo romanzo è andato in finale al premio InediTo 2012. Con il romanzo sugli anni 80, invece, ho voluto narrare una storia un po’ più noir, un’indagine sui costumi di una signora “bene”, mostrando attraverso questa vicenda (narrata anche in forma epistolare) quale fosse la superficialità del vivere e la crisi di valori in quegli anni (quelli della “Milano da bere” per intenderci, anche se la storia è sempre ambientata a Torino), e come la trasformazione sociale si fosse ormai compiuta in senso deteriore, così come ancora oggi la vediamo. Era inevitabile tirare le fila di questo discorso, riavvolgendo il nastro e tornando ai cruciali anni 60 con l’ultimo romanzo.

  • Il tuo ultimo libro, “Un’altra estate”, richiama eventi e atmosfere tipiche degli anni ’60, su cosa ti sei basato per scrivere questo romanzo?

R: Ho individuato nel decennio degli anni 60 la radice delle più profonde trasformazioni sociali che ha vissuto il nostro paese. E’ stato il decennio della definitiva scomparsa della civiltà contadina italiana, una civiltà millenaria. Si pensi che ancora negli anni 50 oltre la metà della popolazione attiva era addetta all’agricoltura, mentre oggi è ridotta a malapena al 5 per cento. Cavour nell’800 scriveva che l’agricoltura “era la più gradevole e conveniente” forma di lavoro possibile. Negli anni 60 del secolo dopo, invece, quasi nessuno voleva più fare il contadino. Si sono spopolate le montagne, le colline, il Sud. Si preferiva la catena di montaggio in Fiat piuttosto che imbracciare ancora una zappa. D’altra parte la meccanizzazione moderna dell’agricoltura richiedeva ingenti investimenti che nessun mezzadro o piccolo proprietario italiano era in grado di sostenere. Ma è un discorso che ci porterebbe lontano, anche se lo trovo appassionante. L’emigrazione verso le città industriali non è stata dunque soltanto da Sud a Nord come spesso si sostiene, ma soprattutto dalla campagna arcaica alla città industriale. La fine di quella civiltà ha comportato profondi cambiamenti negli individui, nelle relazioni sociali, nella cultura del paese. Questa è l’osservazione che sta alla base del romanzo, peraltro la “mutazione antropologica” era già stata vista da Pasolini nei primi anni 70. I miei protagonisti, un ragazzo del Nord e una ragazza del Sud, vivono spaesati tutte le contraddizioni del periodo, tra vecchie tradizioni e desiderio di modernità, rappresentato dal segreto acquisto di un 45 giri dei Rolling Stones.

  • Si è detto che in parte il libro può essere anche interpretato come una biografia, quanto ti rappresenta questo romanzo?

R: Nell’ultimo romanzo, come in parte anche nei precedenti, racconto di fatti, ambienti e persone (anzi, meglio dire personaggi) di cui ho fatto esperienza nel corso della vita. C’è la mia campagna piemontese di quand’ero bambino, dove trascorrevo l’estate, e le terre siciliane che ho conosciuto anni dopo, anche attraverso i racconti di mia moglie e dei suoi genitori, con fatti e misfatti. Ma il processo creativo della scrittura li porta evidentemente ad assumere ruoli per così dire “iconici”, nel senso che devono rappresentare in maniera inequivocabile il contenuto, il messaggio, che voglio trasmettere. Perciò ogni vicenda, ogni protagonista non esiste nella realtà così com’è ma è frutto di un’elaborazione, di una costruzione, di una strategia comunicativa. Insomma, nella narrativa non si fa né storia, né cronaca, occorre sapientemente condurre il lettore per mano, farlo identificare con i personaggi e le loro vicende fino alla parola Fine.

  • Si può dire che quasi tutti i tuoi libri portano un’impronta piuttosto evidente di quelle che sono le tue esperienze personali?

R: Come dicevo, i miei romanzi sono solo in parte autobiografici. Utilizzo dei materiali personali o li prendo a prestito da qualcun altro, ma me ne servo per inventare i personaggi e le loro storie, per farli muovere nel loro contesto in maniera credibile. Io non ho mai fatto il contadino, né sono mai stato in galera per furto… come avviene a qualche mio protagonista.

Ovviamente, se mi vengono in mente episodi divertenti o significativi che mi sono realmente capitati li posso anche utilizzare. Nell’ultimo romanzo, che è ambientato parzialmente in Sicilia, ho anche elaborato una reale vicenda di mafia accaduta alla famiglia di mia moglie e che da tempo tenevo particolarmente a raccontare. Tuttavia non ne conoscevo tutti i dettagli e ho colmato con l’invenzione, anche a fini meramente narrativi. Credo di aver trovato la chiave giusta per raccontarla e che la storia sia riuscita bene.

  • Il tuo genere narrativo è piuttosto raffinato e trae anche le radici dalla tua propensione a ricercare il lato etnologico e folcloristico di quanto ti circonda, potresti dire di sentirti vicino a grandi autori come Cassola o Moravia?

R: Quelli che citi non sono gli autori che ho amato di più, anche se naturalmente li ho letti. Forse i miei riferimenti stanno di più in un certo mondo einaudiano, e vanno da Pavese a Fenoglio a Calvino, per esemplificare con alcuni degli italiani. Di Pavese ho amato la tormentata profondità (era anche studioso di antropologia e l’ha introdotta nella casa editrice), di Fenoglio condivido le radici e capisco a fondo i suoi personaggi, di Calvino invece ho ammirato la levità dello scrivere (l’eleganza anche) e soprattutto l’ironia. Senza l’ironia i miei romanzi sarebbero come quelli di un  certo neorealismo piagnone. Mi piace anche la brevità. Non riesco a scrivere trecento pagine per esprimere un concetto. Spesso i grandi scrittori moderni si sono espressi al meglio nel racconto lungo o romanzo breve.

Una mia recente (ahimè tardiva) scoperta tra gli stranieri è John Fante che negli anni 30 scriveva già come si dovrebbe scrivere oggi. Descrizioni e dialoghi fulminanti, tragicomici. Ma se dovessi elencare tutti quelli che ho apprezzato ci vorrebbe troppo tempo. Ogni autore ti lascia qualcosa di importante, è il bello della letteratura.

  • Recentemente hai partecipato al Salone del Libro di Torino, le opinioni sono piuttosto contrastanti, c’è chi lo ritiene l’ennesimo flop e chi invece ne parla in termini entusiastici, quali sono state le tue impressioni?

R: Sinceramente, i difetti del Salone di Torino trovo siano più meno sempre gli stessi. Gran kermesse, rumorosa, piena di tutto e di più. Credo che l’obiettivo principale dell’organizzazione sia quello di sopravvivere. Come al solito attirano il pubblico solo gli autori famosi, quelli più televisivi, mentre per la piccola editoria e gli autori emergenti non c’è quasi nessuna possibilità di avere sufficiente visibilità. Tuttavia spiace non esserci. Personalmente ci sono stato per due giorni perché invitato a parlare in un paio di eventi. Forse senza queste occasioni non ci sarei neppure andato. Non è nemmeno conveniente per acquistare libri!

  • Spesso la figura dello scrittore è legata a degli stereotipi che lo presentano come un alcolizzato rubacuori o come un avventuriero senza scrupoli, tu come vivi, invece, questo fattore?

R: Aspetta che bevo un sorso di whisky e faccio scendere la pupa bionda dalle mie ginocchia… dicevi prego? Scherzi a parte, la figura che descrivi appartiene un po’ ad un certo tipo di eroe romantico del mondo culturale americano dove non sono mancati effettivamente individui del genere, penso a Scott Fitzgerald, Hemingway, Kerouac,  Bukowski, lo stesso Fante che citavo prima, mentre gli italiani (e gli europei in generale) sono sempre stati un po’ dei “professorini”. L’ultimo di questi che mi viene in mente per esempio è Baricco. Però si tratta di generalizzazioni e ognuno fa caso a sé. Non sopporto comunque i saccenti, chi se la tira troppo, i palloni gonfiati.

  • Quale dei tuoi romanzi ti ha dato più filo da torcere, facendoti sudare le proverbiali 7 camice?

R: Sicuramente Indagine su Anna. L’ho tagliato, riscritto parti, rimontato più volte e non ero mai soddisfatto, tant’è vero che non l’ho mai mandato a nessun concorso letterario perché temo il giudizio. Eppure è un libro che a molti è piaciuto (ad altri meno). Sarà che tratta argomenti anche “scabrosi”, il nudismo, il sesso di gruppo, il voyeurismo, sebbene non siano l’oggetto e l’obiettivo principale delle mie intenzioni, è sempre difficile affrontarli a mente sgombra e con il tono giusto. Temi che il lettore si concentri solo su questo, perdendo di vista gli altri significati. La narrazione poi è a più voci perché è anche in parte un romanzo epistolare: ci sono le lettere del marito e le risposte dell’investigatore, ovviamente in prima persona; poi in terza persona si delineano i caratteri della segretaria, dello stesso investigatore e dell’investigata col suo mondo. Insomma, non è stato un libro semplice.

  • Quando Paolo non scrive, come impiega il proprio tempo?

R: A parte la quotidianità, ultimamente mi sono buttato nella conduzione di una trasmissione radiofonica settimanale di jazz. Pareva una passeggiata e invece mi sta occupando, anche mentalmente, più del previsto. Ho seguito il Torino Jazz Festival, con interviste e dirette di concerti live. Tra poco seguirò il festival Alba Jazz con collegamenti con gli organizzatori. Poi occorre fare ricerche, documentarsi… Un bell’impegno.

  • Infine, quali progetti hai nel cassetto?

R: Dal punto di vista della scrittura mi sono preso una pausa. Il mio ultimo romanzo è uscito nell’autunno 2013, i due precedenti nel 2012 e 2011. Un libro all’anno direi che è una produzione abbastanza intensa. Ora mi sto dedicando alla promozione e mi accollo l’organizzazione di parecchi eventi, anche perché il mio piccolo editore EEE-Book non può fare di più, ma questo vale anche per Araba Fenice con l’altro libro di saggistica. Nell’arco dell’estate avrò ancora diverse date, la più interessante delle quali dovrebbe essere in Sicilia, dove sono stato invitato come autore ospite nell’ambito delle manifestazioni organizzate dal Parco Letterario Pino Battaglia (poeta di Aliminusa nelle Madonie). Poiché Un’altra estate racconta proprio di quei luoghi, è parso bello poterne parlare proprio sul posto. Forse farò anche una serata esattamente nel feudo che ho descritto nel libro, nella piazzetta tra le case in pietra. Con la dolce aria estiva delle sere siciliane.

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Intervista a Leonella Cardarelli

religioni e spiritualitàIntervista a Leonella Cardarelli

    • Ben arrivata fra noi Leonella, il tuo libro colpisce e incuriosisce, soprattutto in quest’epoca in cui, fra mille polemiche e altrettanta indifferenza, l’essere umano pare abbia realmente dimenticato lo spirito con cui affrontare la religione. Come nasce il tuo libro?
      Salve! Il libro nasce da una serie di appunti, successivamente approfonditi e rielaborati; mi sembrava un lavoro fatto bene e ho pensato di pubblicarlo.

    • Pensi che l’uomo moderno non possa più credere moderatamente, limitandosi a diventare ateo o, al contrario, passando all’estremismo?
      Mah… io penso che ognuno è libero di credere in ciò che vuole e di fare ciò che vuole ma senza arrecare danno agli altri e senza imporre le proprie idee. Diffido da chi assume posizioni eccessivamente rigide, su qualsiasi tipo di argomento, perché la rigidità rappresenta sempre una forma di chiusura. Il punto è che oggi stanno venendo meno molte certezze e molti punti fermi perciò si cerca di aggrapparsi a qualcosa pur di sentire un senso di appartenenza.

    • Dal momento che concordo con te a proposito del fatto che l’antropologia non può non essere presa in considerazione quando si parla di religioni globali, come il cristianesimo o l’islamismo, le variazioni che ogni popolo aggiunge al proprio credo religioso, pensi che ne sfigurino il pensiero originale?
      Beh, in parte sì… ad esempio oggi se  si incontra una donna con l’hijab molti dicono “ha il burqa”, invece il burqa è un’altra cosa, cioè copre tutto il corpo, occhi compresi, e non rientra nell’islam. Molti elementi che vengono attribuiti alla religione in realtà sono frutto dell’uomo.

    • Personalmente, tu come interpreti il credo religioso?
      Personalmente mi definisco panteista.

    • Pensi che possano esistere dei parallelismi fra la teologia in genere e la mitologia, il folklore e l’odierno fantasy?
      Sì, certo, la letteratura, la mitologia e il folklore sono pieni di simboli.

    • Infine, la domanda di rito: che cosa vorresti consigliare a un autore esordiente?
      Di scrivere col cuore.

 

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