Il segreto dietro la Creazione di Adamo di Michelangelo

Il segreto dietro la Creazione di Adamo di Michelangelo

Si tratta di uno degli affreschi più noti della storia dell’arte: è la Creazione di Adamo, commissionata da papa Giulio II e realizzata intorno al 1511 all’interno della Cappella Sistina.



Secondo una teoria emersa nel 2010 e portata avanti da un gruppo di esperti di neuro-anatomia, Michelangelo Buonarroti avrebbe realizzato qualcosa di sensazionale con la nube che circonda la figura di Dio e gli angeli: avrebbe rappresentato la forma di un cervello umano.

Gli scienziati hanno potuto mettere in evidenza le numerose somiglianze tra l’affresco e il cervello umano, che avrebbe permesso al grande artista di rappresentare anche particolari minimi, come il cervelletto, il nervo ottico e l’ipofisi.

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Questa teoria suggestiva dimostra che Michelangelo conosceva molto bene l’anatomia umana e che l’inserimento di questo particolare all’interno di un affresco così importante abbia un preciso significato: dimostrare che Dio non ha concesso ad Adamo solo la vita, ma anche la ragione e l’intelligenza.

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Clare Hollingworth, la giornalista che fece lo “scoop del secolo”

Clare Hollingworth, la giornalista che fece lo “scoop del secolo”

Clare Hollingworth è stata una delle più importanti giornaliste della storia, eppure nonostante sia stata l’autrice di quello che venne definito “lo scoop del secolo“, gli addetti ai lavori la conoscono.

Questo perché, purtroppo, come è facilmente intuibile, Clare è stata una donna che ha dovuto combattere contro i pregiudizi di un mondo culturale arretrato e impreparato. Un mondo che abbiamo conosciuto ad esempio attraverso la storia di Margaret Ann Bulkley che nel ‘700 si finse uomo per esercitare la sua attività di medico. O anche quello di Elena Lucrezia Cornaro, la prima donna nella storia a laurearsi.

Il passato (ma anche il presente) è ricco di esempi del genere che non ci stancheremo mai di raccontare, per sottolineare una volta di più la forza di volontà e la tenacia di queste grandi donne.

Clare è stata una giornalista che ha attraversato tutto il Novecento (nata nel 1911 e morta nel 2017) raccontandolo principalmente da un fronte di guerra.

Ha raccontato il Vietnam, l’Algeria, il Medio Oriente su tantissime testate. Giornalista coraggiosa che si è trovata spesso, grazie al suo fiuto per la notizia, al posto giusto nel momento giusto.

E pensare che dopo la scuola fu spinta a iscriversi a un corso di economia domestica. Finì invece per dormire con un passaporto sotto al cuscino e lo zaino accanto al letto, pronta a partire in ogni momento.

79 anni chiese al suo giornale di essere mandata a testimoniare la guerra del Golfo. Per prepararsi alla dura esperienza dormì cinque giorni sul pavimento.

Clare è passata alla storia anche per “lo scoop del secolo“: fu la prima personaa diffondere la notizia che la Germania era pronta a invadere la Polonia, nel settembre del 1939.

La giornalista era a Varsavia, per distribuire aiuti umanitari ai profughi. La Polonia, a quel tempo, era l’epicentro delle tensioni diplomatiche e politiche di tutta l’Europa. Clare aiutava le persone a scappare dalla Germania occupandosi dei loro visti per il Regno Unito.

La sua carriera da giornalista era cominciata da una settimana. Scriveva per il Daily Telegraph. Il 28 agosto prese in prestito una macchina dell’ambasciata inglese per attraversare il confine tedesco e comprare vino e pellicole per la macchina fotografica.

Soltanto i diplomatici potevano attraversare il confine, era molto pericoloso. Clare voleva inoltre indagare sulle voci che stavano girando in quel periodo: di un intervento armato della Germania.

Durante il viaggio di ritorno in Polonia, vide in un campo alcuni teli mimetici, giganteschi e insoliti. Un colpo di vento ne staccò uno e oltre si videro i carri armati tedeschi, i soldati in attesa e l’artiglieria.

 

Contattò il Daily Telegraph che il giorno dopo, il 29 agosto, titolò: “Mille carri armati ammassati al confine con la Polonia. Dieci divisioni sono pronte per colpire”. L’articolo non era firmato.

Il primo settembre, il giorno dell’invasione, l’ambasciatore inglese a Varsavia venne contattato personalmente da Clare che si trovava al confine e che voleva avvertire dell’avvenuta offensiva tedesca. L’ambasciatore non credeva alle parole di una donna. E così Clare allungò fuori dalla finestra la cornetta del telefono e fece sentire il rumore dei cingolati che stavano attraversando la strada.

Chi pensa che quello di Clare fu, in fondo, solo un colpo di fortuna, deve sapere che anni dopo, durante la guerra in Vietnam, Clare fu una delle prime e poche ad affermare che gli Stati Uniti non avrebbero vinto, nonostante la superiorità militare.

La conoscenza delle dinamiche della storia e la finezza intellettuale sono sempre rimaste le stesse e l’hanno guidata per tutta la carriera: oggi viene ricordata con sommo rispetto da tutti i colleghi.

Sorgente: Hello! World

Quei lettori che… “guai” a chi semina (dis)ordine nella loro libreria!

Quei lettori che… “guai” a chi semina (dis)ordine nella loro libreria!

Dare un ordine alla propria libreria non è mai un’operazione semplice, ciascuno ha il suo metodo e ciascuno è diverso. E “guai” a chi interviene per spostare i libri…

Dare un ordine alla propria libreria non è mai un’operazione semplice, ciascuno ha il suo metodo e ciascuno è diverso. E “guai” a chi interviene per spostare i libri…

Dare un ordine alla propria libreria non è mai un’operazione semplice, ciascuno ha il suo metodo e ciascuno è diverso, scelto dopo numerosi tentativi ed esperimenti falliti.

Eppure c’è qualcosa che accomuna tutti, o quasi tutti, i lettori e gli amanti dei libri: il fastidio, la viscerale insofferenza nei confronti di chi si permette di mettere (dis)ordine nelle librerie altrui.

È una piccola idiosincrasia che accomuna tantissimi amanti dei libri, da chi li ordina per casa editrice e per collana a chi preferisce dividerli per nazionalità dell’autore, separando la letteratura francese da quella americana e così via; c’è anche chi li dispone per genere e chi, invece, li mette tutti in ordine rigorosamente alfabetico, ma ogni lettore sa che nel riordinare la propria libreria vi è un piacere unico: sapere di essere l’unica persona al mondo capace di ritrovare un libro tra quegli scaffali.

Se qualcuno si permette di ribaltare quest’ordine rischia di incappare in severissime “punizioni”. Una simile azione dovrebbe essere punibile per legge…

Sorgente: Quei lettori che… “guai” a chi semina (dis)ordine nella loro libreria! – Il Libraio

cBook. Quando l’e-book incontra il cinema

cBook. Quando l’e-book incontra il cinema

di Alessandra Rotondo

La rivoluzione digitale, ormai lo sappiamo, ha avuto un impatto significativo sul modo in cui fruiamo i contenuti mediali. Ha riplasmato i contenitori, spinto alcune tecnologie e reso altre obsolete. Ha modificato il nostro modo di essere lettori, spettatori, ascoltatori, giocatori di gran parte dei prodotti di entertainment cui eravamo abituati fino all’altro ieri.

Sono trascorsi più di dieci anni dall’arrivo tra le nostre mani del primo smartphone con touchscreen capacitivo: sintesi e feticcio del nostro rapporto con la tecnologia. Nel frattempo, una tendenza più delle altre si è manifestata come diretta conseguenza della rivoluzione digitale: quella all’ibridazione.

Se da un lato qualcuno storce il naso, precisando che un libro è un libro, un film è un film e un videogioco è un videogioco; dall’altro, gli esperimenti di composizione, rimodulazione e potenziamento dell’esperienza di fruizione continuano a moltiplicarsi.

Sul fronte del libro, nel riflesso del fiacco bilancio dei primi dieci anni di e-book, qualcuno intravede una mancanza di reale dirompenza del «nuovo» formato. Copia anastatica della versione cartacea, il libro digitale si limiterebbe a garantire al lettore (meglio, a un certo tipo di lettore) qualche beneficio in termini di praticità. Senza potenziarne – anzi, forse, affievolendone – l’esperienza di fruizione.

Che l’e-book potesse essere molto di più della versione in pixel del libro a stampa l’abbiamo sentito dire più che sperimentato. Quelli «enhanced», arricchiti, si sono prestati e si prestano per lo più a dar forma a prodotti sperimentali. Qualche movimento più consistente lo abbiamo visto con le app e nel settore bambini e ragazzi, in luoghi di confine tra la narrazione e il gioco.

Un libro che, d’altro canto, entra sempre più in concorrenza con le altre forme dell’intrattenimento. E, negli ultimi anni più che in passato, pubblico e attenzione deve spartirseli anche con un certo tipo di serialità televisiva, caratterizzata da forti venature autoriali e maggiore complessità narrativa.

Come si dice, «se non puoi combatterli, unisciti a loro». Questo deve aver pensato Nick Fletcher, sceneggiatore e produttore, nel concepire cBooks: il cinematic book. Il progetto è nascente, ma le premesse sono chiare. Il «libro cinematico» è digitale, e alla narrazione monodimensionale della parola scritta affianca momenti audiovisuali, con clip che risolvono particolari snodi della storia, approfondiscono la psicologia del personaggio, ne esplorano il passato o il futuro e consentono rapidi cambiamenti del punto di vista.

Non si tratta, come nel caso di altri progetti visti in passato, di una giustapposizione di linguaggi (la traccia audio e l’e-book, il video e lo script). Piuttosto, di un prodotto multimediale complesso nel quale è l’autore – e solo lui – a decidere qual è il linguaggio più adatto a narrare ciascuna azione, confezionando una storia che il fruitore dovrà approcciare nella molteplicità dei suoi formati.

A chi lo accusa di stravolgere la forma libro, Fletcher ribatte che il cBook è un libro: con un contenuto testuale fondamentale e preponderante, che si fonde con il linguaggio audiovisivo per meglio esplorare i risvolti della narrazione. E non esclude che il formato possa essere specificamente rivolto, in futuro, a progetti di promozione della lettura: con la clip video «sbloccata» al termine del capitolo come premio per il lettore.

Di facile intuizione il risvolto economico del progetto. Il prototipo di cBook è stato realizzato a partire da un film uscito nel 2015, Monsoon Tide. Una coproduzione anglo-indiana sceneggiata e diretta da Fletcher. Una scelta che, da un lato, rivela il desiderio di ampliare l’universo narrativo attorno a un prodotto d’intrattenimento, moltiplicando le possibilità di guadagno a esso legate. Dall’altro, di rivolgersi a un’area geografica in cui, tanto la crescente alfabetizzazione che la sempre più capillare diffusione dei dispositivi mobili, stanno favorendo l’emersione di un nuovo pubblico di lettori. Un pubblico alla ricerca d’intrattenimento, di contenuti accattivanti, immediati e dal profilo intellettuale non necessariamente eccelso.

Sorgente: cBook. Quando l’e-book incontra il cinema

I migliori cioccolati italiani

I migliori cioccolati italiani? In Sicilia e in Piemonte

La cittadina barocca di Modica dà il nome a una produzione artigianale unica al mondo con i cristalli di zucchero. Dall’unione con la pregiata nocciola delle Langhe nasce invece un grande classico tutto piemontese

È ai due estremi dello Stivale che si producono i migliori cioccolati d’Italia, apprezzati in casa quanto all’estero. Partendo dall’ingrediente base, il cacao, con lavorazioni specifiche e abbinamenti diversi, prendono vita due tipi di cioccolato, quello di Modica in Sicilia e il Gianduia in Piemonte, le cui caratteristiche uniche soddisfano anche i palati più sofisticati. Ad aggiudicarsi lo scettro del cioccolato più antico è il cioccolato di Modica, la cui produzione iniziò nel Settecento. Per assaggiare il primo cioccolato al Gianduia, invece, si è dovuto invece attendere fino al 1806. Ecco tutto quello che c’è da sapere sui due migliori cioccolati d’Italia.

L’artigianalità del cioccolato di Modica

È nell’angolo più ad est della Sicilia, e più precisamente nella cittadina barocca di Modica, che da centinaia di anni si produce uno dei migliori cioccolati d’Italia, nonché uno dei più apprezzati e venduti. A renderlo unico è il metodo di lavorazione, rigorosamente artigianale, che i modicani hanno appreso dagli spagnoli e che non hanno mai più abbandonato, tramandandolo di generazione in generazione.

Il cioccolato di Modica viene lavorato a freddo, vale a dire che non si supera mai la temperatura di fusione dello zucchero, i cui cristalli rimangono integri donando il caratteristico aspetto ruvido e la consistenza granulosa. Il cioccolato di Modica viene prodotto saltando la fase del “concaggio” e questo fa sì che mantenga quegli aromi che altrimenti si perderebbero durante il processo.

 

Aromi, grandi classici e sperimentazioni

La lavorazione è molto semplice e ai semi di cacao non viene aggiunto burro né altri grassi vegetali. Il prodotto principe della pasticceria locale si presenta marrone e il suo aroma ricorda quello del cacao tostato. La sua forma non si può improvvisare e da sempre dagli stampi esce la solita barretta che deve avere misure standard e ben definite: una lunghezza di 13 cm, una larghezza di 4,5 cm e un’altezza di 1,2 cm. Come da tradizione, a Modica si produce cioccolato aromatizzato alla cannella e alla vaniglia. Da qualche tempo è stata riscoperta l’aromatizzazione al peperoncino, anche se non mancano altre sperimentazioni. Molti laboratori artigianali, oltre ai consueti gusti, ne propongono di nuovi e così non è difficile trovare il cioccolato al caffè, all’arancia, al limone, alla carruba, allo zenzero o al sale di Trapani.

Gianduia, il segreto è nella nocciola delle Langhe

Tra i migliori cioccolati d’Italia, un posto d’onore va al Gianduia, che nasce dall’incontro del cacao con la nocciola delle Langhe ed è reso unico proprio dalla fragranza vellutata e dal sapore intenso di queste tipiche nocciole piemontesi. Spinti dalla necessità di far fronte alla scarsità del cacao dopo il blocco imposto da Napoleone nella città sabauda, i maestri cioccolatieri torinesi ebbero l’idea di mescolare questi due ingredienti ed è grazie alla loro intuizione se oggi possiamo gustare questo delizioso cioccolato.

La nascita del cioccolatino Gianduiotto

La ricetta fu perfezionata qualche decennio dopo, esattamente nel 1852, quando i cioccolatieri Michele Prochet ed Ernesto Alberto Caffarel iniziarono a tostare le nocciole prima di tritarle finemente. Un’ulteriore passaggio che ha fatto nascere il cioccolato gianduia così come lo conosciamo oggi, un cioccolato esclusivo per morbidezza e delicatezza. Da questo impasto nel 1865 nacque il cioccolatino Gianduiotto, la cui caratteristica forma ricorda quella di una barca rovesciata. Il cioccolato fu presentato in occasione del Carnevale e a distribuire i cioccolatini fu la famosa maschera piemontese Gianduia, da qui la scelta del nome.

Sorgente: I migliori cioccolati italiani – La Cucina Italiana

Grazia Deledda: l’unica scrittrice italiana che ha vinto il Premio Nobel

Grazia Deledda: l’unica scrittrice italiana che ha vinto il Premio Nobel

Nella storia della letteratura italiana sono state molte le donne che hanno lasciato un segno indelebile—scrittrici e poetesse come Alda Merini Natalia Ginzburg—ma fra i sei scrittori italiani che si sono aggiudicati il premio Nobel c’è n’è stata soltanto una: Grazia Deledda.

Sebbene da molti critici inquadrata nel novero degli autori che fanno parte del movimento Verista, in realtà questa scrittrice nel corso della sua carriera ha messo a punto una poetica peculiare e originale che ne ha caratterizzato la produzione.

Nata a Nuoro, in Sardegna, il 27 settembre 1871 Grazia cresce in una famiglia numerosa, agiata economicamente e con restrittivi valori religiosi imposti dal padre. Le figlie della famiglia Deledda non hanno la possibilità di uscire di casa e confrontarsi con il mondo esterno durante l’infanzia e l’adolescenza, e Grazia comincia così a coltivare un piacere solitario che la consola: la lettura.

A soli 17 anni invia un suo racconto alla rivista letteraria Ultima moda, e comincia così una proficua collaborazione con varie testate di settore, pubblicando altri racconti e poesie. Il vero e proprio inizio della sua carriera, comunque, si può datare nel 1892, anno in cui pubblica il romanzo Fior di Sardegna.

Il libro ottiene delle ottime recensioni, e nel 1895 la casa editrice Cogliati pubblica il suo secondo romanzo: Anime Oneste. E l’anno successivo anche il terzo, La Via Del Male. Nel 1896, dopo essersi sposata con un funzionario del Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari, si trasferisce a Roma, e corona il suo sogno di abbandonare la provincia sarda, di cui non ha mai condiviso la mentalità tradizionale.

In questo periodo comincia una collaborazione con la rivista letteraria Nuova Antologia, e pubblica a puntate due romanzi: Il Vecchio della Montagna e Elias Portolu.

L’inizio del Novecento segna anche la nascita del nucleo familiare di Deledda: dopo la nascita del primo figlio, la scrittrice mette a punto una routine domestica che le consente di continuare a scrivere ogni pomeriggio. È un periodo di grande prolificità, e nel 1904esce il romanzo Cenere, da cui verrà tratto anche un film.

Dal 1910 al 1919, poi, pubblica con una frequenza impressionante: Il nostro padrone e Sino al confine (1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), Le colpe altrui(1914), Marianna Sirca (1915), Il fanciullo nascosto (1916) e La madre (1919). I suoi lavori seguono tutti lo stesso iter di pubblicazione, prima passando per le riviste, e poi pubblicati dalla casa editrice Treves.

Dopo aver pubblicato Il Dio dei viventi, nel 1922, è chiaro a tutti che la prima impronta di Verismo da cui era partita la carriera della scrittrice è ormai un ricordo: al centro dei lavori di Deledda ci sono i sentimenti che innervano gli esseri umani, e le intricate relazioni che questi causano.

Il 10 settembre 1926  riceve il Premio Nobel per la Letteratura, prima e unica donna fra gli italiani, con la seguente motivazione: “Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”.

A questo punto, però, comincia un lento declino artistico: dopo aver sperimentato periodi di grande prolificità e ispirazione, i lavori di Grazia Deledda cominciano a mostrare segni di affaticamento. All’inizio del 1936 pubblica il suo ultimo romanzo, La chiesa della solitudine: muore pochi mesi dopo, a causa di una malattia che la perseguitava da tempo. Oggi un cratere di Venere porta il suo nome.

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Che ne pensa l’Accademia della Crusca della lingua italiana sui social?

Che ne pensa l’Accademia della Crusca della lingua italiana sui social?

Abbiamo chiesto a Vera Gheno, una collaboratrice dell’Accademia della Crusca, di analizzare la lingua italiana al tempo dei social

di Mattia Nesto

La notizia ve la ricordate un po’ tutti. Lo scorso 19 giugno, durante la prima prova dell’esame di Maturità, sul sito del Ministero dell’Istruzione apparve questo sciagurato titolo: “Traccie prove scritte“. Ovviamente l’epic-fail del MIUR ha sollevato in brevissimo tempo un gran polverone. Motivo in più per comprendere meglio quanto il linguaggio sulla rete sia un argomento di fondamentale importanza per la nostra società. A questo proposito, recentemente, è uscito per Franco Cesati Editori un interessante libro, Social-linguistica. Italiano e italiani da social network , in cui si analizza come comportarsi, a livello linguistico e non solo, sui social network. Abbiamo raggiunto durante una conferenza in un liceo di Lecce l’autrice, Vera Gheno, sociolinguistica, traduttrice dall’ungherese e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. Con lei abbiamo intrapreso un viaggio nei meandri dei peggiori obbrobri linguistici visti sui social e sulle ultime tendenze riscontrabili sull’internet. Alla fine abbiamo strappato anche un paio di consigli davvero ma davvero utili.

All’inizio del tuo libro citi una ricerca che ci ha lasciato abbastanza stupiti: in Italia nel 2016 ci sono più SIM del telefono che abitanti. Eppure, ancora oggi, gli italiani non sono così avvezzi all’uso di internet: come mai questa disparità da parte di un popolo costantemente attaccato allo smartphone eppure non amante di consultare internet?
Beh va ricordato che i dati che ho utilizzato nel mio libro sono stati presi dall’annuale ricerca condotta da We Are Social, un’agenzia che ogni anno fa un mega power-point con i dati che interessano tutto il mondo e quindi anche l’Italia. Detto questo non mi sembra una cosa così strana il fatto che gli italiani siano persone che amano parlare, fare pettegolezzi e mettersi a telefonare in giro. Trovo sia qualcosa di intimamente legato a noi a livello strutturale e antropologico. Viceversa per consultare internet, anche per le ricerche più banali e amene, occorrono delle competenze più o meno precise che, almeno nel nostro Paese, ancora non tutti hanno. C’è anche da dire che gli standard di connessione nella Penisola è abbastanza basso per tante ragioni, tra cui la conformazione morfologica e le linee telefoniche preesistenti le quali, grosso modo, è dai tempi di Meucci che non sono cambite. Paradossalmente, Paesi “nuovi” in questo senso come l’Estonia, dove non vi era o quasi linea telefonica, sono passate con rapidità alla banda larga. Da noi ci vorrà ancora del tempo.

Ad inizio di Social-linguistica fai riferimento al cosiddetto linguaggio neostandard, ovvero un tipo di linguaggio buono per tutte le occasioni: di che cosa si tratta?
L’italiano ha avuto una storia molto particolare, direi unica. Fino all’altro ieri, ovvero gli anni Sessanta, era parlato da una minoranza di persone. La maggioranza preferiva comunicare in dialetto, l’unica vera lingua padroneggiata. C’è voluta la televisione per unirci a livello linguistico. Ma oltre a questo l’italiano inteso a livello proprio linguistico, è una lingua artificiale, costruita lungo i secoli a partire da Bembo e per finire con Manzoni e da sempre si è sentita una certa differenza, se non distanza, tra la lingua insegnata a scuola e quella usata tutti i giorni. Ecco il neostandard (termine coniato dal linguista Gaetano Berruto) è, possiamo dire, l’italiano parlato dall’italiano medio, ovvero una lingua semplificata ma che viene veramente usata. Rispetto a quella che studiamo a scuola, nel neostandard c’è la totale scomparsa di pronomi come egli, sostituito con lui, si usano meno tempi e modi verbali e le congiunzioni giacché e affinché totalmente dimenticate. Non è un indebolimento dell’italiano ma la normale evoluzione della lingua derivata dalla pressione dei parlanti.

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Viaggio nella Londra letteraria, sulle orme dei grandi scrittori inglesi

 

 

Viaggio nella Londra letteraria, sulle orme dei grandi scrittori inglesi

Ecco alcune tappe per un viaggio nella Londra letteraria, nei pub, nei parchi e nelle librerie che hanno ispirato i grandi della letteratura inglese… – Immagini e particolari

Una delle città più frenetiche e culturalmente vivaci d’Europa, Londra offre molte attrattive ai visitatori, anche in relazione al cosiddetto “turismo letterario”: oltre alle splendide librerie e biblioteche della città, di cui vi abbiamo già parlato, offre anche la possibilità di visitare pub, ristoranti e parchi ispirati alla letteratura. 

Traendo spunto dalle proposte di Bustevi segnaliamo alcune tappe consigliate per un itinerario nella Londra letteraria, alla scoperta dei luoghi che hanno ospitato, e talvolta ispirato, i grandi autori della letteratura inglese, da Shakespeare Virginia Woolf, da Oscar Wilde a James Matthew Barrie.

 The George Inn è uno dei pub più antichi di Londra, tanto che perfino Shakespeare ebbe modo di frequentarlo, come anche Charles Dickens, che lo cita in La piccola Dorrit. 

londra letteraria the george inn

– The Sherlock Holmes Museum, al 221B di Baker Street l’abitazione del celebre investigatore creato da Arthur Conan Doyle è diventata un piccolo museo dedicato al celebre personaggio, maestro della deduzione.

londra letteraria Sherlock Holmes Museum

– Il Pub di Sherlock Holmes è un suggestivo ristorante di tradizionale cucina inglese che ospita diversi cimeli ispirati ai gialli dell’infallibile investigatore e un salotto arredato per riprodurre quello descritto nei libri.

the sherlock holmes londra letteraria

– The Globe, lo storico teatro in cui venivano rappresentate le opere di Shakespeare, talvolta alla presenza della stessa regina Elisabetta.

the globe londra letteraria

– Persephone Books è la libreria di un piccolo editore specializzato nella ristampa della fiction meno conosciuta degli anni ’20, soprattutto di autrici donne, tutte stampate con una copertina grigia che rende i suoi libri unici.

londra letteraria persephone books

– La casa della famiglia Darling di Peter Pan si ispirava a quella della famiglia Llewellyn-Davies, che l’autore conosceva; nel libro viene riportato un indirizzo fittizio, ma con tutta probabilità si tratta della casa al numero 31 di Kensington Park Gardens.

londra letteraria kensington gardens bloomsbury

 Libreria è una libreria e allo stesso tempo una sala di lettura, accogliente e originale, ma soprattutto senza wi-fi e senza caffetteria, per evitare ogni distrazione dalla lettura.

Sorgente: Viaggio nella Londra letteraria, sulle orme dei grandi scrittori inglesi – Il Libraio

Come vanno i libri in Italia

Come vanno i libri in Italia

L’editoria è in ripresa ma il problema è il solito, dicono i dati: si leggono sempre meno libri

Alla Buchmesse, la fiera del libro di Francoforte in corso in questi giorni fino a domenica, è stato presentato il rapporto sullo stato dell’editoria italiana del 2016 curato dall’Ufficio Studi dell’Associazione Italiana Editori (AIE). Il rapporto spiega cosa è successo nel mercato editoriale nell’ultimo anno: la notizia principale è che il fatturato complessivo delle case editrici è cresciuto rispetto all’anno precedente. Tuttavia questo aumento si deve principalmente all’aumento del prezzo dei libri e non delle vendite.

Quante sono le case editrici e quanti libri sono stati pubblicati
Le case editrici attive in Italia, cioè che nel 2016 hanno pubblicato almeno un libro, sono 4.877, il 5,8 per cento in più rispetto al 2015. In tutto nel 2016 sono stati pubblicati 66mila titoli su carta, più o meno quanto nel 2015: la narrativa è stabile con uno 0,3 per cento in più, la manualistica è aumentata del 3,9 per cento mentre per la prima volta da anni sono in calo i libri per bambini e ragazzi, con meno 4,5 per cento. Quest’ultima tendenza è stata già ribaltata nel 2017, di cui si hanno i dati del primo semestre: rispetto allo stesso periodo nel 2016, i libri per bambini e ragazzi hanno infatti aumentato le vendite del 10,7; la narrativa ha venduto l’1,4 per cento in più e la saggistica generale, non soltanto manuali, è in calo del 7 per cento. Il catalogo complessivo di titoli di carta in commercio supera per la prima volta il milione con 1.032.799 di titoli, il 13,9 per cento in più del 2015.

Cresce il fatturato e cresce il costo dei libri
Nel 2016 l’editoria italiana ha fatturato un totale di 2,561 miliardi di euro, l’1,2 per cento in più del 2015. Il mercato è in crescita dopo gli anni della crisi economica, dal 2011 al 2014, ma non si è ancora ripreso del tutto: nel 2011 il fatturato era stato di 3,1 miliardi di euro. Se si considerano anche i libri usati e i cosiddetti “non book” – cioè i prodotti realizzati dagli editori e venduti in libreria che però non sono libri – la crescita è dell’1,1 per cento, pari a 2,710 miliardi di euro.

Questa crescita non è però legata a un aumento nelle vendite ma a quello del costo dei libri: i prezzi medi di copertina sono infatti saliti del 2,8 per cento, una tendenza già iniziata nel 2015 dopo una contrazione dal 2010 al 2014, quando erano diminuiti del 14,7 per cento. Nel 2015 un libro appena pubblicato costava in media 18,41 euro, nel 2016 è arrivato a 18,93 euro. Stando ai dati Nielsen relativi al 2016, ad aumentare di più il prezzo non sono stati i grandi editori, forse perché possono fare con facilità politiche di promozione, ma gli indipendenti. Rispetto a sei anni fa comunque il prezzo medio di un libro è inferiore del 12,4 per cento, circa 2,6 euro.

È vero, si legge sempre meno
Il problema principale dell’editoria italiana è il basso indice di lettura e una diminuzione costante di lettori: in sostanza, si leggono sempre meno libri. Le persone con più di sei anni che hanno detto di aver letto almeno un libro non scolastico nel 2016 sono diminuite del 3,1 per cento rispetto al 2015. In Italia le persone che nel 2016 hanno letto almeno un libro sono il 40,5 per cento, in Spagna sono il 62,2 per cento, in Germania il 68,7 per cento, negli Stati Uniti il 73 per cento, in Canada l’83 per cento, in Francia l’84 per cento e in Norvegia il 90 per cento. La lettura è diminuita tra i cosiddetti lettori deboli e occasionali, e tra donne, bambini e ragazzi, che però sono le fasce che solitamente leggono di più, mentre è quasi stabile (-0,4 per cento) tra i cosiddetti “lettori forti”, cioè quelli che leggono più di 12 libri all’anno.

Come vanno gli ebook
Nel 2016 4,2 milioni di persone hanno detto di aver letto almeno un ebook nei tre mesi precedenti, mentre nel 2015 erano stati 4,7 milioni. Il settore è cresciuto rapidamente ma poi ha iniziato a rallentare, pur passando dal 2,3 per cento del 2011 al 7,3 per cento del 2016. Secondo il rapporto, il 37 per cento dei lettori legge sia ebook che carta, mentre l’1 per cento legge solo ebook; aggiunge anche che secondo altri istituti di ricerca il 3 per cento dei lettori sceglie prevalentemente ebook. Nel 2016 sono stati comprati più di 900 mila e-reader, il 9,4 per cento in meno del 2015, e 2,4 milioni di tablet, il 7,6 per cento in meno. In generale il mercato degli ebook è cresciuto meno del previsto e oggi è pari al 5 per cento totale delle vendite, 63 milioni di copie vendute. I titoli disponibili invece sono aumentati del 29,6 per cento, passando da 62.544 nel 2015 a 81.035 nel 2016.

Non compriamo più libri all’autogrill 
Ci sono sempre più posti e modi di comprare un libro e le stesse librerie si sono molto modificate negli ultimi anni, trasformandosi parzialmente in caffetterie e ristoranti e aprendosi ad altri prodotti, come oggettistica, cartoleria e appunto cibo. La gran parte dei libri viene ancora comprata nelle librerie fisiche, anche se c’è stato un leggero calo – nel 2007 erano il 79 per cento del totale, nel 2016 il 73 per cento – mentre sono cresciuti gli acquisti nelle librerie online: dal 3,5 per cento nel 2008 all’attuale 17 per cento. Soprattutto continua la crisi dei libri nella grande distribuzione, cioè autogrill e supermercati, che negli anni Ottanta e Novanta furono fondamentali nell’attirare nuovi lettori e che negli ultimi anni vendono sempre meno libri e sono responsabili del 46 per cento in meno del fatturato complessivo. Circa un milione di persone comunque continua a comprare libri soltanto attraverso la grande distribuzione, che resta quindi un canale di accesso non trascurabile per gli editori.

La narrativa straniera va un po’ peggio
Come avevano già mostrato i dati Nielsen la narrativa straniera è in calo: nel 2015 un libro venduto su quattro era tradotto, quest’anno la percentuale è del 23,7 per cento, pari al 22,5 per cento del fatturato complessivo dell’editoria italiana. Nel 2016 i titoli tradotti da una lingua straniera sono stati circa 7.400, contro gli 11.500 dell’anno prima, passando quindi dal 17,6 per cento del 2015 all’11,8 per cento nel 2016.

D’altra parte in Italia sono aumentati i titoli italiani tradotti all’estero: le case editrici hanno venduto 6.565 diritti agli stranieri – ma furono 1.800 nel 2001 – e comprato diritti per 9.552 titoli – 5.400 nel 2001: rispetto al 2015 hanno venduto l’11 per cento in più e comprato il 10,6 per cento in meno.

Sorgente: Come vanno i libri in Italia – Il Post

Perché il romance è femminista e perché il femminismo ha bisogno del romance

Perché il romance è femminista e perché il femminismo ha bisogno del romance

“Il romance è cambiato, più in fretta della mentalità sessista della nostra società, e non sarà facile trovare fra le sue pagine le donzelle in attesa di essere salvate che popolano l’immaginario dei detrattori del rosa…”. Su ilLibraio.it l’approfondimento della scrittrice Roberta Marasco, che smonta gli stereotipi sul genere e racconta la sua evoluzione

Il romance è femminista perché…

-È cambiato tutto

Il romance è cambiato, più in fretta della mentalità sessista della nostra società, e non sarà facile trovare fra le sue pagine le donzelle in attesa di essere salvate che popolano l’immaginario dei detrattori del rosa. Tutto il contrario. Il rosa è un genere che ha saputo reinventarsi con audacia e che non ha avuto paura di sperimentare, pur restando fedele alla regola imprescindibile del lieto fine. “Il rosa è un genere scritto dalle donne, per le donne” sostiene Val Derbyshire in un articolo del Guardian intitolato  Mills & Boon romances are actually feminist texts, academic says. “Perché dovrebbero insultare il loro pubblico? Non ha senso. Queste sono piuttosto, nella maggior parte dei casi, storie di trionfo femminile, con il cupo protagonista maschile costretto a riconoscere il proprio sessismo e a cambiare mentalità.”

“La libertà che hanno le donne nei romanzi d’amore è molto alta” scrivono Marianna Peracchi e Valentina Divitini su Soft Revolution, in Il riscatto del genere: perché amiamo i romanzi rosa, “possono essere agenti segreti, donne in carriera, badass recupero crediti, super scienziate che salvano il mondo. Insomma che ve lo dico a fare: fanno tutto. Cosa che, purtroppo, nella letteratura tradizionale, soprattutto se scritta da autori di sesso maschile, non è una cosa così scontata: spesso la figura femminile è quella della vittima, della figura di contorno, della bella statuina.”

Il romance è cambiato, le protagoniste sono cambiate, sono sempre più spesso donne forti, in posizioni di potere, senza perdere per questo sensualità o femminilità. Sono donne che non accettano di essere trattate come oggetti, che pretendono rispetto, autonomia, indipendenza e il riconoscimento delle loro capacità, senza pregiudizi. Sono donne che non pensano che innamorarsi significhi rinunciare ai propri diritti o alla propria forza, tutto il contrario, solo dopo aver combattuto per affermarla si concedono di innamorarsi.

Se gli uomini leggessero romance, molto probabilmente scoprirebbero che i ruoli sono cambiati, che il loro ruolo all’interno nella coppia è cambiato e che, come scrive l’Independent, il femminismo non uccide affatto il romanticismo, al contrario: “l’uguaglianza di genere porta a relazioni più stabili” e più felici, oltre a togliere dalle spalle di entrambi il fardello di un ruolo maschile dominante, con tutte le conseguenze in termini di violenza e sopraffazione che questo ruolo comporta.

-Rivendica l’affermazione di sé

Per chi volesse addentrarsi nella giungla di titoli del romance e nei loro aspetti femministi, esiste perfino un blog, Romance Novels for Feminists, la cui autrice analizza con intelligenza e puntualità i temi femministi che fanno capolino fra le pagine delle storie d’amore lette.

Fra i diversi temi affrontati, Jackie C. Horne ne evidenzia uno particolarmente interessante, ossia la ricerca spesso difficile di un equilibrio fra il bisogno di prendersi cura degli altri e quello di indipendenza ed emancipazione. A partire dal dibattito riguardante il genere e il caretaking – “Le donne prendono decisioni morali basandosi sulle conseguenze che avranno sugli altri, mentre gli uomini le prendono sulla scorta di principi astratti? E se fosse così, le donne sono per natura più brave a prendersi cura degli altri rispetto agli uomini?” – l’autrice si sofferma sul romanzo Marry Me at Willoughby Close, di Kate Hewitt e giunge alla conclusione che la protagonista del romanzo, respinta dall’uomo di cui è innamorata, non tradisce la propria personalità o i propri principi e dunque, nonostante il suo carattere la porti a trovare la felicità nell’accudimento, sceglie di mettere in primo piano il bisogno di indipendenza e rispetto, smettendo di cercare riconoscimento e accettazione al di fuori di sé.

È un concetto fondamentale, negli equilibri precari e difficili della felicità femminile, capire fino a dove arriva la cura degli altri, almeno per chi la sente una propria responsabilità o per chi è predisposto per carattere a dedicarvisi, e dove inizia il bisogno di indipendenza.  Una componente narrativa fondamentale del romance è la schermaglia iniziale fra i due protagonisti, la tensione che caratterizza la loro relazione. E proprio in questa tensione si nascondono e si dibattono spesso questioni fondamentali come il rispetto di sé, l’accettazione, la sovversione delle regole sociali e dei pregiudizi. La schermaglia non è solo un battibecco più o meno divertente, non è solo un modo per prolungare la storia, ma è un esercizio di conflitto, che insegna alle donne che non c’è nulla di scontato in una relazione e che farsi valere e non rinunciare a se stesse è sempre necessario.

-Afferma il diritto di essere felici

Non c’è nulla di più femminista di una storia che insegna alle donne a essere felici, e il romance, soprattutto quello attuale, racconta prima di tutto questo. L’amore non è un mezzo, il protagonista maschile non è più il cavaliere dall’armatura luccicante che risolve la situazione, al contrario. Il suo arrivo di solito serve a complicare le cose, a mettere in crisi gli equilibri esistenti, quel tanto che basta per costringere la donna a mettersi in discussione e risolvere i propri conflitti interiori. L’amore dunque giunge solo dopo un percorso interiore più o meno approfondito sul piano psicologico, che serve alla protagonista per superare un trauma o un fallimento del passato, riscattarsi, accettarsi per quello che è, riscoprirsi diversa e più libera, concedersi di essere felice.

Il desiderio di rassicurazione alla base del romance non si esaurisce nel lieto fine, comincia dalla riconciliazione con se stesse, con i propri desideri, con le proprie aspirazioni. Quelle del rosa sono storie di riscatto e accettazione di sé, sono storie che concedono una seconda possibilità, che insegnano a sognare, a evadere, a confidare in un futuro diverso e migliore.

Per molte lettrici, poi, il rosa è un momento di svago, il tempo che ci si ritaglia per se stesse. Qualcuna lo legge sul cellulare mentre cucina, qualcun’altra in treno, qualcuna sul divano mentre il marito guarda la televisione. Non esiste un solo modo di leggere romance, proprio come non esiste un solo profilo di lettrice, ma per molte il romance è evasione, è una parentesi in una vita fatta di doveri e necessità altrui, una delle poche scuse che ci si concede per non fare nulla e dedicarsi solo a se stesse.

Il romance, insomma, è un’industria al femminile che produce felicità. “Voi autrici di romance rendete le persone felici. Non scusatevi mai per quello che fate” disse Mary Balogh a un convegno dedicato al rosa, come riporta Danielle Summers in un pezzo intitolato, non a caso, Writing romance fiction is a feminist act.

Il femminismo ha bisogno del romance perché…

-Sono i valori delle donne a dirigere la storia

Il rosa per molte donne è stato quello che per altre erano i gruppi di autocoscienza femministi. Per quanto possa sembrare assurdo, in parte è così. Il romance era il posto in cui trovare le tematiche e le problematiche tipicamente femminili che non venivano affrontate in altri romanzi, in cui imparare l’abc sentimentale e sessuale (giusto o sbagliato che fosse quello rappresentato nei romanzi in questione, soprattutto qualche decennio fa, quando i ruoli erano molto più stereotipati) quando nessun altro te lo spiegava. Era il posto in cui affrontare temi scomodi come lo stupro, il rapporto con l’altro sesso, la gestione della propria intimità. Era il posto in cui ritrovare l’universo femminile, con i suoi problemi, i suoi desideri, i suoi valori.

Oggi i romanzi sono cambiati e gli spazi per incontrarsi e confrontarsi anche, ma il romance resta il genere in cui sono i valori della protagonista a portare avanti la storia e a essere ricompensati, alla fine, in cui sono i suoi desideri a guidare la trama, in cui al centro c’è una visione del mondo tutta al femminile. Forse non sono i desideri auspicati dal femminismo, forse non sono i temi che più stanno a cuore al suo dibattito, ma sono (per ora) i desideri di una larga parte della popolazione femminile che in mancanza di alternative si rifugia nel rosa. È il loro modo di sognare e di guardare a ciò che vogliono e potrebbe essere prezioso per un nuovo femminismo che scelga di ripartire dalle donne, dalla loro sfera più intima ed emozionale, non dal confronto pur necessario con l’universo maschile, per provare ad arrivare più lontano e ad accogliere anche le donne che finora si sono sentite troppo tradizionali, troppo deboli, troppo poco battagliere o intellettuali per desiderare o credere di meritarsi l’etichetta di femminista.

Nel rosa trovano spazio tutte le donne, quelle più trasgressive e battagliere, che possono infrangere la legge ed essere ricompensate, o quelle più pacate e tradizionali, in attesa della loro occasione per vivere la vita con intensità e gratificazione.

“La protagonista di molti romance è una donna ‘comune’” sostiene Catherine Asaro in un’intervista a All About Romance. “In gran parte della fiction, le protagoniste femminili scompaiono sullo sfondo, a meno che non abbiano doti reputate ‘importanti’, definizione che fin troppo spesso ignora aspetti della vita che rientrano nella sfera femminile, come l’educazione dei figli, la casa o semplicemente una visione femminile del mondo. Le storie che si concentrano su questi aspetti sono considerate fesserie. Perché fesserie? È una parte fondamentale della vita.”

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