DISNEY vs. DICKENS

DISNEY vs. DICKENS

I personaggi di Paperopoli annidati fra le pagine di Dickens

di Cinzia Morea

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Carl Barks, artista del fumetto reso immortale dalla creazione di Paperopoli e di buona parte dei suoi più famosi abitanti, creati per Disney, doveva essere un accanito lettore di Charles Dickens.

PaperoneÈ noto che a lui si ispirò nel 1947 per creare l’avaro multimiliardario Paperon de Paperoni che, in carattere, manie, comportamento e anche particolari dell’abbigliamento, ricalca e porta a volte agli estremi la figura di Ebenezer Scrooge, protagonista del Canto di Natale, il più famoso e coinvolgente dei Racconti di Natale dell’autore inglese.

Magari col tempo e in alcune delle storie, Zio Paperone si sarà un po’ addolcito rispetto al suo archetipo (l’Ebenezer che passò tutta la vita a lesinare il carbone al suo povero impiegato, per intenderci, non il convertito gioviale e munifico del dopo visita degli spiriti) ma resta incontestabile che nell’originale versione, pensata dal suo creatore, il vecchio papero si chiama Uncle Scrooge.

CiccioAnni prima però la matita di Carl Barks aveva dato alla luce un altro singolare personaggio, ispirato anch’esso dalle pagine di Dickens; si tratta di Ciccio dell’Oca, il famelico e letargico aiutante di Nonna Papera, il cui ispiratore è possibile incontrare tra le pagine de Il Circolo Pickwick.

Qui risponde al nome di Joe (o meglio non risponde essendo per la maggior parte del tempo immerso nel sonno) ma più di frequente l’autore lo indica con il semplice appellativo ragazzo grasso. Fa abbastanza presto la sua comparsa nella narrazione delle farsesche avventure del compassato e buon Pickwick, più o meno a metà del IV capitolo, e Dickens lo presenta con le seguenti parole:

Dietro la carrozza era strettamente legata una canestra di vaste dimensioni –una di quelle canestre che per una vaga associazione di idee non mancano mai di destare in una mente contemplativa visioni di polli raffreddi, lingue e bottiglie di vino – e a cassetta sedeva, in uno stato di profonda sonnolenza, un ragazzo grasso e rubicondo, che un arguto osservatore avrebbe subito riconosciuto pel dispensiere ufficiale del contenuto della canestra suddetta quando il tempo opportuno per la distribuzione di quella fosse arrivato.

E in effetti, di lì a poco, Joe distribuirà i viveri, addormentandosi più volte nel corso dell’operazione, salvo poi fissare, dopo essere stato bruscamente risvegliato, con occhi accesi di orrida luce il cibo che passa tra le sue mani.

È un po’ più maligno forse della sua versione disneyana, un po’ più maligno e pettegolo, lo si vedrà nel capitolo VIII, ma è a lui inequivocabilmente che Carl Barks deve essersi ispirato. È stata un’emozione trovarlo lì, tra pagine dove non pensavo potesse essere; chissà che nella lettura di qualche altra delle indimenticabili opere di Dickens non possa capitare di imbattersi in qualche altro abitante di Paperopoli.

 

Torino: Una città nelle canzoni

Torino: Una città nelle canzoni

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Alcune città sono grandi dive, fotografate, adulate, citate fino alla noia. Parigi, Roma, New York. Protagoniste di innumerevoli film, di romanzi, e di canzoni. E appunto di canzoni, volevo parlare, anzi di testi. I parolieri sono spesso abili artigiani capaci di adattare parole e rime alle capricciose esigenze delle note musicali. Creatori di frasi d’effetto, di assonanze magari semplici ma immediatamente evocative all’orecchio di un ascoltatore spesso distratto. Molti testi letti senza ascolto diventano insignificanti se non infantili senza una musica di supporto. A volte, più raramente, i parolieri sono poeti e allora i loro versi vivono di vita propria, belli anche se muti. In alcuni casi, i testi delle canzoni sono vere storie, brevi racconti e cronache di un tempo, di un sentimento. Io sono nato e vivo in un luogo che non è appariscente. Torino non è una star, e fino a pochi anni fa era nota solo per essere sede di una fabbrica di automobili. Poi le cose sono cambiate, negli ultimi tempi sono arrivati i turisti ed una certa notorietà internazionale. Non sono comunque tantissime le canzoni dedicate o ambientate a Torino. Tutte però sono in qualche modo significative e strettamente legate a un ben preciso momento storico nella vita della città. Esistono naturalmente antiche ballate e canzoni in dialetto torinese, canti popolari, canti di osteria, ma in questa sede prendo in esame solo testi in Italiano.

Gipo Farassino

Gipo Farassino

La più antica che mi viene alla mente è “Ciao Torino” autori Lampo e Prato, anno 1949. A dire il vero, è leggermente controverso il fatto che il testo originale sia stato scritto in Italiano. Secondo alcune fonti era in Torinese, secondo altre fu tradotta in dialetto da quel Gipo Farassino di cui ci occuperemo tra poco. Testo estremamente semplice:

“Ciao Torino, io vado via,
vado lontano a lavorare.
Io non so che cosa sia,
sento il cuore tremare.”

Semplice eppure rivelatore: ci fu un tempo, neppure troppo lontano, in cui anche Torino era terra di emigranti, di gente che doveva andarsene per cercare condizioni di vita migliore.
Poi, il boom economico, il miraggio della Grande Fabbrica che offriva a tutti un posto di lavoro. Ecco “La mia città” del 1969 . Parole e musica di Gipo Farassino. Gipo, artista molto amato a livello locale, autore dialettale, attore, uomo politico, scrisse anche canzoni in italiano, raccolte in un album dal titolo “Due soldi di coraggio”. Ne “La mia città” crea un ritratto triste da Neorealismo, la città-fabbrica priva di gioia, dove gli operai in tuta blu sono soldatini in fila, quasi burattini mesti.

fiat

Archivio storico Fiat

“Un mare di fredde ciminiere
un fiume di soldatini blu
un cielo scordato dalle fiabe
un sole che non ti scalda mai.
Questa mia città
ti fa sentir nessuno
ti strozza il canto in gola
ti spinge ad andar via.
Questa mia città
che spegne le risate
che sfugge a tanta gente
resta la mia città.”

Ma il boom è anche espansione urbana, periferie dove i prati con pecore al pascolo lasciano il posto ai palazzoni dell’edilizia speculativa. Ne “L’auto targata Torino” del 1973, musica di Lucio Dalla e parole di Roberto Roversi, un vento contestatario, dal sapore leggermente populista, contrappone una Torino da cartolina alla cruda realtà di quei “Terroni” che erano i predecessori di una lunga serie di persone venuta da “altrove”. Facce diverse in cerca di lavoro, non sempre amate da chi è ormai immemore di un tempo in cui i poveri nel mondo si chiamavano Italiani.

Dalla-Roversi

Dalla-Roversi

“Questo luogo del cielo
è chiamato Torino
lunghi e grandi viali,
splendidi monti di neve
sul cristallo verde del Valentino
illuminate tutte le sponde del Po.

Mattoni su mattoni
sono condannati i terroni
a costruire per gli altri
appartamenti da cinquanta milioni”

Alla fine la Contestazione non genera solo figli innocui. Arrivano gli anni difficili della violenza, dello scontro duro. La città è spesso un campo di battaglia, una terra di nessuno dove anche il modo di vestire, il locale dove andare a bere un caffè, diventano etichetta politica. Il cantautore torinese Enzo Maolucci, nel suo album “ Barbari e Bar” del 1978, con un linguaggio diretto ed efficace, dipinge un’immagine allo stesso tempo realistica e beffarda di una Torino che ha un tantino perso l’aplomb, di una città moderna che non ha la statura della grande metropoli, anche se una élite forse radical-chic vorrebbe fare sfoggio di inutile snobismo. È centrale, in questo testo, la presenza di bar e caffè, luoghi di ritrovo mondano, covi dissidenti, porti per rifugiarsi lontano dalla folla.

Enzo Maolucci

Enzo Maolucci

“Il Gran Bar è fatto apposta
per fascisti stravaganti.
In cremeria adesso ci trovi
i comunisti più osservanti.
La Gran Madre è una gran piazza,
il Po è li’ vicino per chi si ammazza.

Si ammazzano a Torino, sai,
Torino che non è Nuova York
Si ammazzano a Torino, sai,
Torino di Barbari e Bar.
Dal Bar Elena esco in via Po,
vado col pensiero…
Pugni in tasca, sbornia triste, palle in giostra,
muri sporchi di ideali messi in mostra.

Adoro andarmene in vetrina,
specchiarmi cinico e beffardo,
finché un’edicola sirena
seduce il mio sprezzante sguardo.
Il compromesso storico, l’Amerika col Kappa,
convergenze parallele, la crisi del romanzo e poi…”

Ma non tutti vanno al Bar Elena. Nella banlieue, qui come a Londra, ragazzi Punk strillano arrabbiati il loro “No future”. Loro sono “Rough” band street punk molto locale e molto, molto alternativa e nel 1982 interpretano, con grinta giustamente ( Punkescamente ) sgangherata “Torino è la mia città”

“Crescer nella noia
senza sapere cosa fare
Crescer nella noia
senza un futuro in cui sperare
In un città dove non succede mai niente
Torino è la mia città.”

La rabbia stanca. Ancora di più la rabbia senza soluzione, la violenza fine a se stessa. Finiscono gli anni della P38, torna la voglia di normalità. Il Privato non è più Politico. Siamo alla fine del secolo e del millennio.

Subsonica

Subsonica

Anno 1999, un’altra Band torinese, molto nota e, questa, molto amata, Subsonica, canta una città che riesce ancora a ispirare l’amore ne “Il cielo su Torino”.

“Per il tuo amore
che è in tutto ciò che gira intorno
acquista un senso questa città
e il suo movimento
fatto di vite vissute piano sullo sfondo
Un altro giorno un’altra ora
ed un momento
dentro l’aria sporca
il tuo sorriso controvento
il cielo su Torino
sembra muoversi al tuo fianco”

La città è un organismo vivente e, come tutto ciò che vive, è in continuo divenire. Gli esami non finiscono mai, come diceva Eduardo. Si allontana lo scontro armato, eppure altri scontri, forse più subdoli, incombono. Torino diventa città multi etnica, dove ci si diverte, finalmente, ma dove le fabbriche chiudono, dove si spaccia e si consuma droga e non tutti i nuovi arrivati sono buoni cittadini. “Tanco del Murazzo” di Vinicio Capossela, sempre sul finire del secolo, anno 1996, descrive un Noir deve ci si fa, e ci si pesta, con Slang duro e impietoso. E i Murazzi, lungo il fiume cosparsi di bar e locali per i giovani abitanti della notte, diventano terra di nessuno, frontiera pericolosa.

“Il fiume è giallo,
lento fango d’Orinoco
scorre tra i fuochi,
gli spacci, i mangiafuoco
scende il murazzo,
c’è una macchina bruciata
kebab arrosto
e folla a grappoli in parata
le ragazze aspettano
di uscire fuori per ballare
e intanto provano le scarpe nuove
e ridono da sole
dentro casa, lei lo guarda
e resta lì senza parlare
fuori tutto accade anche senza di noi

Vinicio Capossela

Vinicio Capossela

Nel grotto spingono
e si bercian Patuan
l’anfe che sale,
caldo a fiotti, nervi tesi
Envisia serve al banco
acqua minerale
ondeggiano sulle ginocchia
tutti uguale
guarda lo specchio
e vede in fondo
che per occhi adesso
ci ha due buchi neri
e nel riflesso dell’abisso
vede il pozzo che era un tempo anima sua”

Ma voglio chiudere con una nota più tenera.
“Torino sulla luna” è una canzone scritta da Giuseppe Peveri, in arte Dente, con Fabio Barovero, per la colonna sonora del film “La luna su Torino” di Davide Ferrario, pellicola del 2014. Con voce poetica, l’autore coglie con un guizzo vincente quella che è forse l’anima più vera di Torino:

Giuseppe Peveri

Giuseppe Peveri

“Linea d’orizzonte, vertici
i punti piani e gli spazi
paralleli, pendii
abitudini inutili
pressioni, altitudini
inizia la fine
tutte le cose si incontrano qui”

In questa città di geometrie e di grandi chiaroscuri, dove molte cose iniziarono in sordina, nel bene e nel male, per poi diffondersi e allargarsi lontano, in questa città dove si cerca di non esagerare mai, andando spesso all’avanguardia quasi controvoglia, dove genti tanto diverse, da apparire a prima vista incompatibili, riescono a convivere nonostante tutto, in questa città, che a volte non pare Italiana, è bello camminare, guardando, ascoltando e pensando che davvero tutte le cose s’incontrano qui.

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I manoscritti vanno inviati su carta

Nell’era del digitale, è ancora così ovvio dover inviare manoscritti su carta?

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«I manoscritti vanno inviati esclusivamente su carta». Chissà quante volte un aspirante scrittore ha letto una frase come questa sul sito internet di un casa editrice.

di Giorgio Bianco

Mi ha sempre dato fastidio, non lo nego. Talora anche a causa del tono di rimprovero che contiene: «Per favore, astenetevi dall’invio di e-mail: saranno tutte cestinate». Come dire: «Non mancateci di rispetto, datevi almeno la pena di stampare il manoscritto».
Ma perché? Perché ancora molti (non tutti, per fortuna) pretendono la carta? Non me lo spiego, mi pare un’assurdità. Eppure un motivo deve esserci.
2pvz25pCominciamo il ragionamento mettendoci nei panni di un editore, non importa se di piccole, medie o grandi dimensioni. È facile immaginare che sia quotidianamente travolto da decine o centinaia di proposte editoriali. Fra l’altro, quasi tutte destinate a finire nel cestino. Dunque, ve lo immaginate l’ufficio preposto al ricevimento della posta? Montagne di buste mezze strappate, lettere di accompagnamento che svolazzano sul pavimento, tavoli ingombri di stampati rilegati con i dorsi di plastica a spirale… Ci vuole una stanza dedicata a tutta questa mercanzia. Un lavoro enorme, kafkiano, per non parlare della polvere e delle probabili allergie. Terribile. E i rifiuti? Non dimentichiamoceli: siccome «i manoscritti non verranno restituiti», è inverosimile che l’editore se li tenga tutti per ricordo. Dovrà separare i dorsi di plastica dalla carta e avviare il tutto alla raccolta differenziata. Quindi avrà chiesto di avere in cortile un cassonetto apposito, più grande degli altri, simbolicamente evidenziato da una scritta: “EDIZIONI PINCO PALLO”. Come dire: ecco i nostri rifiuti, ammirate la sconfitta delle ambizioni artistiche giunte da tutta Italia. Che tristezza. Povero ambiente, poveri alberi e quanto lavoro sprecato.
Spendiamo una parola anche per gli autori, indipendentemente dal fatto che siano bravi o meno: sono chiamati a spendere soldi per stampare, acquistare grandi buste e spedire, senza contare la fila in Posta. Ricordo che, quando inviavo i miei romanzi in formato cartaceo, approfittavo della visita a qualche parente in un paesino sperduto, dove nell’ufficio postale si fa meno coda.
blog-frustration1Poi mi sono stufato, o ribellato, al sistema. E ho iniziato a farla io la selezione: non prendo in considerazione editori che rifiutano l’invio del manoscritto tramite e-mail. Li respingo, mi prendo questa libertà.
Perché con la e-mail la procedura è più agile, pulita, ordinata, rispettosa degli spazi e della natura. Si scarica l’allegato, lo si inserisce in una cartella e si comincia a leggere. Inoltre gli schermi dei computer moderni sono molto meno nocivi di quelli di un tempo, quando i fosfori verdi lampeggiavano su sfondo nero. Io stesso lavoro a terminale per almeno 10 ore al giorno, senza gravi danni alla vista. Inoltre nei documenti ci sono i margini, quindi è possibile prendere appunti. Si può ingrandire il carattere, salvare la posizione. Insomma, a che cosa serve tutta quella carta?
Secondo me è l’emblema di una grossa contraddizione di certi ambienti culturali del nostro Paese. E’ un tema che affronto spesso, ammetto di esserne un po’ ossessionato. Credo che l’accesso all’arte talora non sia aperto a tutti, se non in apparenza. Fa sorridere dirlo, ma la cultura vissuta come bene comune è un fatto… culturale! Da noi, purtroppo, non è tanto bene comune quanto casta, circolo chiuso, “noi sì che ci capiamo”.
Ecco dunque che la carta, rispetto alla volgare mail, aiuta a fare la selezione. E’ più elegante, solidamente aggrappata alla tradizione (altra contraddizione: progressismo e conservatorismo insieme), perfino ossequiosa: sì, perché per mandare una mail bastano due secondi, è troppo facile, mentre spedire la carta significa rispettare il rituale, la gerarchia, la presunzione di statura di chi ti sta di fronte. Posso dirlo? E’ una forma di “nonnismo”.
81482_editorletter_mdMa la vera parola chiave forse è un’altra: presunzione. In altri Paesi il successo avvicina alla gente, cioè rende disponibili e amichevoli. In Italia, invece, rende distaccati. Avete visto il film “La grande bellezza”? Al di là del fatto che non mi è piaciuto, faccio notare che il protagonista è prima di tutto antipatico, ciò che lo rende perfetto per il successo all’italiana. Un successo colmo di arroganza, perfino di classismo. Parliamo di gente che si autoproclama importante, colta, sensibile e immensamente elegante. Gente a cui perfino i santi chiedono di ricominciare a scrivere romanzi. Ebbene, gente così spedisce le buste, mica manda le e-mail!

Action Thriller Tricolore

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Giancarlo Ibba e Alessandro Cirillo

Action Thriller Tricolore: Alessandro Cirillo visto dagli occhi di Giancarlo Ibba

In un imminente futuro Edizioni Esordienti Ebook proporrà quella che sarà senz’altro una sorpresa per i fan di Alessandro Cirillo e Giancarlo Ibba. Abbiamo chiesto a quest’ultimo di raccontarci le sue impressioni sull’autore di tre libri basati esclusivamente su un genere che, in Italia, vede come protagonisti autori anglofoni. Ecco cosa ne pensa:

di Giancarlo Ibba

Lo ammetto, provo un certo sciocco pregiudizio per gli autori italiani che scrivono action-thriller ambientati nel nostro Paese. Non so perché. In gran parte questo sentimento deriva dalla troppe letture di scrittori anglofoni, che hanno inevitabilmente condizionato i miei gusti. Per il resto è dovuto al declino della narrativa e del cinema di genere in Italia. Le storie localizzate nella penisola soffrono sempre, ai miei occhi, di eccessi autoreferenziali, provincialismo e scivolate nel folclore locale. E’ una mia opinione, ovviamente contestabile.

Cirillo_AttaccoCiò premesso, nel 2012, ho fatto un eccezione al mio snobismo esterofilo letterario e ho acquistato il romanzo di esordio di un giovane autore: “Attacco allo stivale” di Alessandro Cirillo, pubblicato dalla Edizioni Esordienti E.Book (tra parentesi, è anche la mia Casa Editrice). Dopo aver letto le prime pagine del prologo, prima di andare dormire, ho avuto quella rara sensazione che spinge ad andare avanti con la lettura nonostante l’ora tarda e la sveglia puntata alle 06.30 del mattino. Non è una cosa che capita spesso. Specie quando si è appena entrati negli “anta” e i tempi di recupero si sono fatti più lenti. Ad ogni modo, ho terminato quel romanzo in una settimana, serbandone nella memoria un buon numero di scene e qualche spunto interessante.

Ricordo di aver pensato: “questo ragazzo ha coraggio e talento.”  Coraggio ad affrontare un tipo di storia che, con protagonisti italiani, chissà come appare sempre un po’ ridicola. Se infatti accettiamo senza problemi di sospendere l’incredulità davanti all’eroismo invincibile di un Indiana Jones qualunque, storciamo la bocca di fronte alle avventure spericolate del Sig. Rossi o del dott. Bianchi. Ammettetelo anche voi: non mettereste mai il destino del mondo, neanche per fantasia, in mano a degli italiani. E chi lo facesse sembrerebbe poco credibile. Giusto o sbagliato che sia.

Quindi, Cirillo ha avuto coraggio. E talento, dicevamo. Sì, perché la trama imbastita dal giovane autore esordiente, era una mina innescata. Un passo falso e sarebbe esplosa nel ridicolo, provocando nel lettore smaliziato grasse risate invece che ondate di adrenalina. Pericolo scampato, per fortuna,. Anzi, l’impressione è stata così positiva che ho deciso di incoraggiare Cirillo a proseguire su quella strada in salita con una mia sincera recensione. Ve la ripropongo, così come l’ho scritta, senza peli sulla lingua.

“Attacco allo Stivale”, dopo un prologo che poteva essere eliminato con profitto dall’autore (in questo tipo di storia l’introspezione psicologica deve essere indiretta, a mio parere), la trama decolla e si snoda con piacevole rapidita’… continua a leggere su amazon

Quando ho scritto queste righe non conoscevo Alessandro Cirillo. Era soltanto un nome sulla copertina del libro. Pochi mesi dopo, però, complice il Salone del Libro di Torino, ci siamo incontrati e conosciuti. Gli ho detto di aver letto il suo libro e ho ammesso di essere l’autore di una delle prime recensioni del medesimo. Ci siamo trovati subito in sintonia, grazie alle varie letture in comune, soprattutto quelle legate a Tom Clancy. Così ci siamo messi a parlare dei suoi prossimi progetti (e dei miei, che tra l’altro comprendevano un romanzo da scrivere insieme a quattro mani, ma questa è un altra storia…).

Nessuna scelta In seguito, molto gentilmente, Cirillo mi ha chiesto di leggere e dargli un opinione schietta sulla bozza del suo secondo romanzo, “Nessuna scelta”. Senza accorgermene sono andato oltre l’opinione, mettendomi quasi nei panni dell’editor dilettante\lettore\fan n°1. Insomma la collaborazione è stata più intima del previsto, con soddisfazione di entrambi (almeno credo). Fin dal prologo, comunque, ho notato che lo stile di scrittura di Cirillo si era affinato, mettendosi al servizio della trama e non viceversa. Inoltre, alcuni degli aspetti che avevo “criticato” nel romanzo d’esordio erano stati limati e aggiustati. Uno in particolare: la tendenza a non affondare e rigirare la lama nel ventre del lettore, quando questa era ormai affondata fino all’elsa.

Chiariamoci, Cirillo non è un “buonista”, ma ha un modo di trattare con i suoi personaggi che è molto diverso dal mio. Ad ogni modo, il palcoscenico allargato di “Nessuna scelta” ha confermato le mie iniziali impressioni: il ragazzo aveva coraggio, talento e… pensava in grande. Già, perché nelle sequenze migliori di “Nessuna scelta” il respiro della narrazione si fa ampio, internazionale e a tratti persino epico (vedi scena del combattimento all’arma bianca). Tra l’altro, tutto quanto era condensato in un numero di pagine accettabile.

La mia recensione, anche se (forse) un pelino partigiana, era fatale.

Dopo “Attacco allo Stivale” (brillante romanzo d’esordio, caratterizzato da una buona vena inventiva e un già maturo stile di scrittura), A. Cirillo conferma e rilancia le sue capacità narrative con “Nessuna Scelta”. Si tratta di un “sequel” (ma è progettato anche come una lettura autoconclusiva) che riprende i temi, gli stilemi e i personaggi principali della prima storia, senza però rimanere invischiato nei meccanismi di una trama fotocopia… continua a leggere su amazon

A questo punto io e Cirillo, pur essendoci visti di persona soltanto una volta (ad oggi sono due!), complici le moderne tecnologie, eravamo diventati amici oltre che colleghi di penna. La conseguente stima personale ci ha portato a scambiarci con fiducia le bozze dei nostri futuri romanzi, traendone immediato e reciproco beneficio. Apprezzo e invidio la capacità di restare con i piedi per terra di Alessandro, narrativamente parlando, senza per forza voler strafare o stupire con l’effetto speciale (cosa che, quando scrive, al sottoscritto succede spesso). I nostri numerosi scambi di opinioni talvolta, pur rispettosi e civilissimi, somigliano a una gara di calci tra muli!

cover_trame_EEEAl termine di questo lungo riassunto delle puntate precedenti, veniamo finalmente a “Trame Oscure”, il terzo romanzo di Cirillo. Come per il precedente, ho letto la bozza in anteprima e ho avuto il piacere e l’onore di collaborare alla sua stesura. Non che Cirillo abbia bisogno del mio modesto aiuto, tutt’altro, ma era interessato alle mie considerazioni in merito a certi aspetti dell’intreccio e della prosa. Non mi sono fatto certo pregare e gli ho fornito una lista dettagliata di consigli. Molti sono stati accettati, altri no. Cirillo ha una sua personalità e modifica solo quello che gli sembra giusto. In altre parole, la bellezza di questo romanzo è tutta merito di Alessandro.

Eccovi la mia recensione, scritta in tempi non sospetti.

Dopo il complesso scenario internazionale di “Nessuna Scelta”, che in qualche modo ha concluso la trama iniziata nel fortunato e brillante romanzo d’esordio (“Attacco allo stivale”), Alessandro Cirillo riporta i suoi protagonisti/eroi (Nicholas Caruso e Ruben Monteleone) in Italia con la sua terza opera: “Trame Oscure”. Prendendo spunto dai recenti fatti di cronaca, in particolare l’esplosivo e controverso caso della “Terra dei Fuochi”, costruisce un intreccio contemporaneo e realistico, dal ritmo elevato e ricco di colpi di scena… continua a leggere su amazon

A questo punto ritorniamo a bomba sull’argomento iniziale di questo articolo: la sospensione dell’incredulità di fronte a una storia action-thriller ambientata in Italia. Quella sensazione di “assurdità” quando leggiamo delle prodezze effettuate da eroi tricolori. Beh, migliorando il suo stile passo dopo passo, Cirillo è riuscito a compiere il miracolo. “Trame oscure” è perfettamente credibile, anche grazie alle tematiche nostrane, nonostante pulluli di scene d’azione rocambolesche, esplosioni e personaggi carismatici (il Rosso svetta su tutti). Insomma, merita ogni riconoscimento, in patria e anche all’estero.

Che altro dire ad Alessandro Cirillo? Potrei dirgli: “continua così, socio”… ma so (sempre in anteprima mondiale) che lo ha\abbiamo già fatto!

Aspettatevene delle belle!

Gli e-book si toccano

Gli e-book si toccano e non solo, Giorgio Bianco, autore del libro Dammi un motivo, ha scritto l’articolo che segue proponendo un nuovo punto di vista e un diverso approccio al formato digitale. Noi lo ringraziamo per le emozioni che ci regala e per la capacità che ha avuto di esprimere un’opinione controcorrente, riuscendo a dare una dimensione più concreta agli e-book.

Giorgio Bianco ha pubblicato con EEE Dammi un motivo

Gli e-book si toccano

Giorgio Bianco

Giorgio Bianco

di Giorgio Bianco

Gli e-book si toccano. Si prendono in mano, si sfogliano, sono profumati, emozionano. E, soprattutto, volano.
Non ci credevo. Perché ho sempre visto i libri come oggetti sacri, legati alla tradizione della carta che cambia colore con il tempo, alle rilegature, ai tonfi dei dizionari di greco e latino sui banchi di scuola. Libri. Bisognosi di protezione, come nel romanzo di Ray Bradbury, dove qualcuno lotta per salvarli dalle fiamme.
Ma le tecnologie mi hanno sempre affascinato. Per questo, qualche anno fa, ho scelto un Kindle come regalo di compleanno. Facendone indigestione all’inizio, per poi dimenticarlo in un cassetto, fino al recente nuovo approccio: più equilibrato e godibile, quotidiano.
Copertina_EEEIl mio quarto romanzo, appena pubblicato da EEE, è un e-book dal titolo “Dammi un motivo”. Mi ha permesso di misurare la temperatura dei miei lettori più affezionati, ovviamente partendo da amici e parenti, conoscenti. Ho ricevuto molti messaggi, attraverso telefono e social forum: “Comprato”, “Scaricato!”, “Lo leggerò nel fine settimana!”. Ma anche: “Complimenti, ma aspetto la carta!”, “Voglio poterlo tenere in mano e sfogliarlo”.
La carta arriverà, per soddisfare questi amici. Che non sono necessariamente i più anziani: gli irriducibili del libro tradizionale e gli entusiasti del digitale si dividono in modo trasversale. Almeno secondo la mia esperienza. Infatti conosco trentenni che rifiutano la tecnologia e cinquantenni che da anni non acquistano più libri cartacei. Addirittura una signora anziana, grande lettrice affetta da un disturbo agli occhi, si sente “salvata” dall’e-book: «Mi permette di ingrandire i caratteri, cioè di continuare a leggere», commenta.
Anche la facilità nell’acquisto è importante. Quando annunci di aver pubblicato un libro di carta, molti ti stringono la mano e annunciano: «Presto lo acquisterò». Poi però non lo fanno: perché non hanno tempo, per pigrizia, perché non si trova in tutte le librerie. L’e-book invece si scarica in un attimo, fra l’altro a prezzi molto convenienti. La mia sensazione è che circoli più in fretta, in modo più fluido. Credo inoltre che abbia un accesso facilitato a circuiti di commento su internet, dove può godere di una buona pubblicità.
Ma sono partito dall’emozione. Quella che, al tempo del mio primo romanzo cartaceo, provai toccandolo, sfogliandolo, mettendoci dentro il naso. Credevo che fosse irripetibile. Sbagliavo. Vedo e annuso ogni giorno il mio romanzo e-book, gli parlo, a volte gli sorrido. Perché esiste. Ha una forma e una dimensione, un colore. E, soprattutto, l’ho visto nascere. La vera missione ora è farlo crescere. In effetti, inserendo autore e titolo su Google, comincio a trovare qualche risultato in più. Cioè il mio romanzo cammina. Non è forse quello che ci aspettiamo da tutti i bambini?

Da cosa nasce cosa

Andres_EEEI libri usciti nel mese di settembre portano fra gli autori EEE diversi nomi eccellenti e alcuni li conosciamo già, grazie alla loro partecipazione al concorso Amore e Morte: Roberta Andres e Luca Ranieri. Entrambi gli autori si sono distinti con i loro racconti e sono alla fine arrivati alla pubblicazione con EEE. Dalla Penna di Roberta scopriamo quali sono state le sue emozioni quando è arrivata alla firma del contratto editoriale per il libro Le foto di Tiffany.

Da cosa nasce cosa

di Roberta Andres

Come si dice, “da cosa nasce cosa” e la “cosa” da cui ha origine la nuova e speciale avventura editoriale che sto vivendo nasce molto molto indietro nel tempo, risalendo a quando avevo sei anni e sono diventata amica inseparabile della persona (anche lei scrittrice) che un anno fa mi ha messo in contatto con Ewwa (European Writing Women Association) rimproverandomi di essere “una scrittrice troppo pigra!”.
Io, che nonostante la pubblicazione di due raccolte di racconti, di molti singoli testi in antologie e dell’aver vinto qualche Concorso letterario, scrittrice non mi sono mai sentita (e neanche pigra!), pur rimanendo sconcertata, ho deciso di crederci: ho stabilito di comportarmi per un anno come se fosse vero, cercando di invertire la rotta e di investire tempo ed energie su questa parte della mia esistenza che, lo ammetto, c’è sempre stata, ma che ho lasciato sotterranea e misconosciuta.
Era esattamente il giugno del 2014 quando mi sono trovata di fronte a una scadenza tassativa (Devi scrivere un racconto per la nostra antologia entro questa data!) e, dopo alcuni anni, in cui non ero più riuscita a scrivere, mi sono seduta e l’ho fatto, rimanendo persino soddisfatta del risultato! Poi ho cominciato a guardarmi attorno, attraverso i mezzi di informazione dell’Associazione e, del tutto casualmente, sono approdata a EEE e a Il Mondo dello Scrittore attraverso la partecipazione a un Concorso: nel giro di poche settimane il mio racconto è stato scelto per l’antologia “Amore e Morte”. Le varie fasi di questa partecipazione mi avevano messo di fronte a una possibilità che avevo colto in pieno: quella di chiudermi in casa da sola per giornate intere (con 35 gradi fuori) e revisionare un testo che avevo scritto anni prima; lavorarci per ore, piangerci anche sopra, per poi, mesi dopo, assaporare lo stupore e la gioia di vederlo pubblicato in una bellissima e curata antologia.
E siccome, come abbiamo detto all’inizio, “da cosa nasce cosa”, una volta cominciato ho continuato, ligia al programma di dare spazio, appunto, per un anno alla scrittura: quel che avevo da affrontare (e che rimandavo da anni) era la stesura di un romanzo, faticoso impegno dei mesi successivi.
I fatti che vengono dopo non sono niente di diverso dall’iter vissuto da tutti coloro che scrivono e non hanno ancora un nome e una visibilità come autori; l’iter però è stato baciato dalla Fortuna, visto che l’Editore EEE ha scelto di pubblicare il mio romanzo. Senza nulla togliere a questa gratificante notizia, arrivatami a fine maggio, quando ero ormai entrata nell’ottica che l’anno stava per scadere senza grandi risultati e che avrei gettato la spugna (almeno sollevata dall’averci provato), il traguardo si è profilato all’orizzonte. Tutto sta nel constatare che gli avvenimenti, relativi alla scrittura, accaduti in quest’anno mi hanno felicemente costretto (e mi costringono ancora) a riconoscere finalmente e integrare questa parte di me, che da sempre è soffocata da montagne di impegni: fatti della vita, lavoro, figli, doveri. Una parte di me che ha pochissimo tempo (e se lo deve rubacchiare qua e là), pochissimo spazio (quasi che fosse indegna di accompagnare la mia identità “ufficiale”: la docente, la madre), pochissimo riconoscimento, ma che nella mia vita scorre ed è scorsa come un fiume carsico, da quando avevo 8 anni ed ho scritto il primo (tremendo) “testo teatrale”, in cui la maggior parte delle battute era costituita dai saluti che ogni personaggio, all’ingresso in scena, rivolgeva a tutti gli altri, in un copione assai ripetitivo (ma educatissimo!). Questo fiume si è inabissato per anni, dopo grandi traumi o grandi gioie (come la nascita dei miei figli), ma è sempre riemerso e ogni volta che è riemerso ha cercato di far capire alla testona, che sono, che dovevo credere nella sua esistenza, ma la mia parte disfattista, indaffarata nelle faccende quotidiane e imbarazzata dalla presunzione di scrivere, si è sempre voltata dall’altra parte.
E pensare che proprio io ho dedicato e dedico ore di studio, articoli e lezioni ai miei studenti sul tema: riconoscersi e autorizzarsi nella propria creatività; corollario: la difficoltà delle donne che scrivono a concedersi di farlo!
Credo sia iniziato un cambiamento, e questa è la novità entusiasmante e l’importanza fondamentale di questa esperienza; mi sento chiamata (ma da chi? Da me stessa, ovviamente!) a guardare questo fiume, a sedermi sulla riva e immergermi in esso, vincendo anche (o imparando a gestire) la paura di annegarci, che a momenti mi volteggia intorno, attualizzandosi nelle pietanze dimenticate sui fornelli mentre scrivo (e irrimediabilmente bruciate!) o nelle occhiaie del mattino dopo, quando vado a scuola con poche ore di sonno perché ho lavorato a un testo fino alle ore piccole!
Così mi sembra opportuno chiudere queste considerazioni personali con le parole di Nathalie Goldberg sul perché si scrive, parole sue ma che sento veramente mie e che da un anno campeggiano sul muro di fronte alla mia scrivania, a “memento” di qualcosa che so profondamente ma che rischio di dimenticare, in un auto-sabotaggio non più ammissibile:

Scrivere ci dà l’opportunità di prendere quelle emozioni che tante volte abbiamo provato e dar loro luce, colore, una storia. Così possiamo trasformare la nostra rabbia in un campo di tulipani color rosso fiamma e il nostro dolore nel vialetto affollato di scoiattoli in un giardino abbandonato, nella mezza luce di novembre. Scrivo perché sono sola, scrivo perché sono pazza e lo so e lo accetto, scrivo perché ci sono storie che la gente ha dimenticato di raccontare, scrivo perché soffro e scrivere è un modo per trasformare questa sofferenza in un bene. Scrivo per diventare forte e tornare a casa e questa potrebbe essere benissimo l’unica vera casa che avrò mai” (N. Goldberg).

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Le foto di Tiffany
Riferimento ISBN 9788866902584
Autore: Roberta Andres
Formato: Epub, Kindle

Prima di pubblicare

Cosa si prova prima di pubblicare.

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Molti di voi si riconosceranno in quanto più avanti scrive Lidia Del Gaudio, recente acquisto fra gli autori EEE. Il suo nuovo Romanzo deve ancora essere pubblicato e, nel momento in cui esce questo articolo, è ancora in quella fase di correzione della bozza e di quei ritocchi finali che ne faranno un altro bellissimo titolo del catalogo EEE. Tuttavia, questa fase precedente, rappresenta sempre per un autore l’ultimo atto finale prima della “Prima”, l’ultimo ripasso prima di entrare in scena. Ed è un momento in cui le emozioni si accavallano e diventano quasi incontenibili. Godetevi, quindi, quanto scrive l’autrice.

Di Lidia Del Gaudio

Sono emozionata.
Sto per pubblicare un romanzo.
In effetti non è la prima pubblicazione in senso assoluto, ma per me è come se lo fosse.
Si tratta di un Romanzo con la lettera maiuscola, quello che ho scritto, perché volevo sognare e far sognare; un sogno che coltivo da anni e rileggo, revisiono senza mai stancarmi. È il Romanzo che non vorrei mai lasciare andare perché credo che possa ancora migliorare, definirsi, esplodere. E, soprattutto, emozionare chi lo leggerà, così come ha emozionato me quando l’ho scritto. Una di quelle storie per cui sogno ad occhi aperti un grande film, con famosi attori hollywoodiani e pubblico impazzito ai botteghini. O, magari, anche solo una fiction per la tv.
Un romanzo che mi è costato molto lavoro, fatica, impegno, passando in mezzo a tanta indifferenza e pareri discordanti, giudizi che a volte si sono fermati all’apparenza.
Ma andiamo con ordine.
scrittori-consapevoliIl bisogno di scrivere, che viene prima di tutto. Perché si è letto tanto, perché i libri sono stati i migliori compagni della tua infanzia e anche dell’adolescenza, ti hanno permesso di correre, avventurarti, giocare, così come nella realtà non potevi fare. I libri hanno curato la tua sete di giustizia e d’amore, i libri ti hanno cresciuta, insomma. E quindi, ora hai parole dentro che non puoi fermare. E le affidi alla tastiera.
La storia che ti intriga. Ma non si tratta di scrivere un diario. Ora ti viene voglia di raccontare una storia completa, con i personaggi che ti piacerebbe trovare in un romanzo da leggere. Perché pian piano ti accorgi che hai il potere di conferire loro sentimenti, di farli felici o soffrire. Un potere che non avresti in nessun altro modo e che, in fondo, non fa male a nessuno.
Le parole da usare. E passi notti insonni, l’idea che ha preso forma nella tua mente deve trovare un senso, parole scritte che s’inseguono pagina dopo pagina. Non si tratta di un’idea semplice, commerciale, ma di cuore, quindi ti sforzi di trovare una forma adeguata per l’amore e per la rabbia e la disperazione. E per questo cerchi di studiare ogni parola giusta e a lungo andare ti innamori del tuo lavoro, l’unica cosa che può renderti davvero felice.
writers-at-work-ingeborg-bachmannE il tempo sedimenta l’entusiasmo dei primi momenti. Perché dopo qualche mese, forse un anno, capisci che non è abbastanza. Non è mai abbastanza, scena dopo scena, termine dopo termine, le parole devono raggiungere quel perfetto equilibrio che cercavi. E allora ancora un ritocco, un taglio, qualche sforbiciata grande e dolorosa, ancora un verbo da cambiare, un aggettivo o un avverbio da eliminare.
La tristezza. Perché poi, dopo tanta fatica, capisci d’aver per davvero finito e ti chiedi se ti riuscirà mai di condividere questa storia coi lettori. Se mai riuscirai a farla volare. Ti chiedi se quei tuoi protagonisti, ormai appagati dal loro sorprendente finale, riusciranno a lasciarti libera di cercare nuove storie e nuovi personaggi. O meglio se davvero TU potrai dimenticarli e fare a meno di loro.
Il sogno che s’avvera. E un bel giorno, quando mano te l’aspetti, ecco che accade ciò che non avresti mai creduto. Un editore bravo e serio riconosce in quel Romanzo il potere di far sognare che avevi inteso dargli e decide di offrirlo al mondo dei suoi lettori.
Ora, dite, come si fa a non essere emozionati?

La prima volta che (non) ho visto Psycho

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La mano è di mia mamma che mi urla: “scendi da quella scala!!!”

Giancarlo Ibba è destinato a diventare il nuovo Maestro dell’Horror italiano. Il suo stile inconfondibile dosa perfettamente la realtà con l’immaginario, la fantasia con l’ironia. Nulla di quanto scrive può apparire scontato e, se anche già visto (nella letteratura è difficile inventarsi qualcosa di nuovo), c’è sempre un elemento nelle sue trame che riesce a spiazzare il lettore, portandolo molto lontano dai soliti stereotipi. La Sardegna, la sua terra, diventa protagonista di molte storie al di là della normale visione della vita.

Giancarlo Ibba ha pubblicato con EEE La vendetta è un gusto, L’alba del sacrificio, C’era una volta in Sardegna

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La prima volta che (non) ho visto Psycho

di Giancarlo Ibba

La prima volta che (non) ho visto un film dell’orrore avevo quattro o cinque anni. Il film era Psycho, capolavoro di Alfred Hitchcock. Vi racconto come è andata. Curiosamente, nonostante il tempo passato, il ricordo è abbastanza chiaro.

Era un pomeriggio di pioggia in quel di Is Urigus, frazione di San Giovanni Suergiu, dove a quei tempi risiedeva la mia famiglia. Vivevamo in una casetta in affitto, a due piani, con una ripida scala su cui mi divertivo ad andare su e giù. Una volta sono andato giù piuttosto velocemente… ma questa è una altra storia. Comunque, riassumendo, quel pomeriggio stavo seduto sulla mia solita poltrona verde a guardare la televisione in bianco e nero sintonizzata sul Primo Canale (a quei tempi non si chiamava Raiuno). psycho-hitchcockAd un certo punto l’annunciatrice, più seria che mai, disse che quella sera avrebbero trasmesso un film di Alfred Hitchcock. Conoscevo già quel nome, perché  era sulla Lista Nera di mia madre delle “cose che non puoi guardare”, che includeva tutte le pellicole di Renato Pozzetto, Lino Banfi e Edwige Fenech (devo spiegare perché?). Naturalmente mia madre, a cui piacevano e piacciono i thriller, era già al corrente di questa proiezione. Quindi, dopo il Carosello, mi mandò a letto insieme a mio fratello di un anno o poco più. In quel periodo le sole eccezioni alla regola erano state per lo sceneggiato Sandokan e L’Amaro caso della Baronessa di Carini. Già da bambino ero fissato con i film e, quando mi era permesso, cercavo di restare sveglio per guardarli. Apro una parentesi a proposito della Baronessa di Carini, della cui trama non avevo capito nulla, ma che mi aveva colpito per un unica scena. E’ quella in cui la Baronessa viene accoltellata, si tampona la ferita con la mano e si trascina agonizzante lungo una parete. Alla fine, la poveretta crolla al suolo, lasciando sul muro l’impronta insanguinata del suo palmo. Questa immagine ha stimolato la mia fantasia. Per quanto ricordi è stato il primo indizio che il macabro possedesse un certo effetto sulla mia mente. Dopo quella visione, infatti, mi divertivo a colorarmi il palmo con il tubetto del rosso degli acquerelli e a lasciare le mie impronte “insanguinate” sui muri diroccati che circondavano la nostra casetta (non era un quartiere residenziale, ovvio). Ultimo aneddoto, mia madre ricorda che spesso me ne andavo in giro canticchiando la sigla dello sceneggiato: “… un colpo al cuore, un colpo ai reni, povera Baronessa di Carini…” Mah!

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Chiusa parentesi.

La notte di Psycho, come al solito, mangiai la cena, guardai il Carosello, recitai la preghiera per L’Angelo Custode e mi infilai sotto le coperte. Mio fratello era già nella gabbia della sua culla. Il papà era al lavoro per il turno pomeridiano con annesso straordinario notturno. La mamma lavò i piatti e si preparò per guardare il film nel salotto, ben barricata, perché i film di paura le fanno, ancora adesso, proprio quell’effetto. Le luci si spensero. Dalla mia stanzetta, al secondo piano, sentii la voce monocorde del giornalista del TG. Non riuscivo a dormire. Dai discorsi sentiti a casa, sapevo che quel film dallo strano titolo (nella mia immaginazione associato a manicomi pieni di pazzi sbavanti) era molto bello, anche se non adatto a un bambino. Negli anni ’70 il TG finiva alle otto e mezzo e poco dopo iniziava il film. Mal che andava alle dieci e un quarto era finito e si poteva andare tutti a nanna. Oggi a quell’ora, se ti va bene, è cominciato il primo tempo…  Ad ogni modo, vispo come un grillo all’imbrunire, quando sentii finire il telegiornale e partire la sigla del film, sgusciai fuori dal letto e, senza accendere la luce, mi avventurai nel corridoio stretto che portava alla scala. In pigiama e a piedi nudi, discesi la scala attaccato al corrimano, piano piano, per non fare rumore. Già la colonna sonora dei titoli di testa di Bernard Herrmann mi aveva conquistato con le sue note stridule e incalzanti (ancora oggi, quando la sento, ripenso a quella notte del 1976). Se mai avevo avuto un dubbio o il pensiero di tornare a letto, svanì all’istante. PSYCHO_02_webTanto più che quando arrivai in fondo alle scale e svoltai in cucina, la luce azzurrina proveniente dal televisore in salotto mi aveva già ipnotizzato. Così, con le piante dei piedi gelate, mi avvicinai di soppiatto alle spalle della poltrona su cui era seduta mia madre. Al riparo dell’alto schienale imbottito, con il cuore in gola (perché avevo paura di quello che avrei visto, ma ancora più di essere scoperto) cominciai a sbirciare il mio primo film dell’orrore. La prima strabiliante inquadratura “aerea” che vola su una città e s’infila dentro una finestra mi stupì e impressionò. Janet Leigh in reggiseno era bellissima anche per un bambino di quattro anni. La trama era così limpida e ben costruita da essere comprensibile anche per me. Naturalmente cominciai subito a parteggiare per Janet e odiare il ricco texano. Quando lei ruba i soldi, io ho pensato: hai fatto bene!
Il tempo passava, io avevo i piedi sempre più freddi e cercavo di respirare il meno possibile per non tradire la mia presenza. Le molle della poltrona ogni tanto cigolavano, facendomi sobbalzare. Prima o poi sarei stato scoperto. Ne ero sicuro, però volevo vedere ancora un altro minuto, poi ancora un altro… e un altro. Rimandai il ritorno a letto per molto tempo. Dalla mia scomoda posizione riuscivo a vedere solo ¾ dello schermo, ma quello che vedevo era intrigante e soprattutto “adulto”. Certo, lo sceneggiato di Sandokan era stato fantastico (specie quando Brooke uccideva la Perla di Labuan), ma quello era… era!
Psycho_movie-_frame_0001Così, alla fine guardai anche la scena dell’incrocio (che suspense!), la scena del cambio dell’auto e del poliziotto sull’altro lato della strada, la fuga lungo le assolate strade, di nuovo il poliziotto con gli occhiali a specchio, la guida notturna sotto la pioggia con i tergicristalli che sbattono e gli abbaglianti delle auto nella corsia opposta, l’arrivo al BATES MOTEL… il cartello appena visibile attraverso il parabrezza inondato d’acqua… infine, quella stupenda casa gotica in cima alla collina, con quella finestra illuminata… Purtroppo, a quel punto cascavo dal sonno e mi facevano male le gambe… Decisi che avevo visto abbastanza, trattenni uno sbadiglio e, silenzioso come un ladro, tornai nella mia cameretta. E mi persi la famosa scena della doccia!
Con il senno di poi, non so dire se quella è stata una fortuna o no. Probabilmente sì. Ero davvero troppo piccolo.
Una volta al sicuro, tuttavia, imbozzolato tra le lenzuola e l’orecchio teso per cogliere l’audio della tv, cominciai a immaginare quello che succedeva nel film basandomi soltanto su quello che sentivo. Era una cosa che facevo spesso, allora, visto che la maggior parte dei film erano nella famigerata Lista Nera. Ad un certo punto, finalmente, mi addormentai soddisfatto.
La mia bravata non venne mai scoperta e non ho mai raccontato questo episodio, finora.
Se adesso scrivo quello scrivo, quindi, forse è anche a causa di quella volta che (non) ho visto Psycho.

Storia della pasta italiana

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla pasta italiana

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Nunzio Russo ha scritto due libri di indubbio valore, alla base dei quali esiste l’amore per la propria terra, la Sicilia, e la passione per quanto questa è stata in grado di offrire alla tradizione italiana e al mondo: la pasta italiana. Figlio di due importanti famiglie di pastai, Russo è ancora oggi uno dei maggiori rappresentanti della storia di uno degli alimenti più popolari dell’arte culinaria. Una storia che si snoda attraverso vicissitudine che in parte hanno coinvolto tutta la Penisola e in parte hanno solo sfiorato la coscienza collettiva, rendendo i romanzi dell’autore vive testimonianze di quanto accaduto.

Nunzio Russo ha pubblicato con EEELa voce del maestrale e Il Romanzo della Pasta Italiana

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di Nunzio Russo

Regno di Sicilia, 1140 d.C.

A Palermo, il re normanno Ruggero II era considerato il monarca più ricco e più potente del tempo. I confini del suo regno si estendevano da Napoli all’Africa settentrionale. Ruggero garantì la più ampia libertà a tutte le fedi, lingue e razze. Accolse nel palazzo reale le migliori intelligenze di ogni nazionalità, dall’inglese Thomas Burn al bizantino Giorgio di Antiochia, dallo storico Nilus Doxopatrius al geografo arabo Al-Idrisi. La città siciliana divenne la capitale del mondo conosciuto, dove la vita era davvero magnifica da spendere.
image017Al-Idrisi, in particolare, doveva la sua fama ai viaggi che lo avevano portato in tutta Europa e a scrivere dell’oceano atlantico. Ruggero II gli suggerì di realizzare una mappa del mondo noto, da accompagnare a un testo che ne descrivesse i dettagli e, in particolare, esaltasse la bellezza di una Sicilia conosciuta come la terra del sole. Così videro luce il planisfero inciso su una lastra d’argento detto “Tabula Rogeriana” e un libro di geografia dal titolo arabo “Il sollazzo di chi si diletta a girare il mondo”, poi chiamato “Il libro di Ruggero”. L’opera fu terminata intorno al 1154 e poi pubblicata fino ad oggi. Sono ben nove i tomi editi dall’Istituto Universitario Orientale di Napoli e dall’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente di Roma, tra il 1970 e il 1984. Una versione sintetica è stata stampata dall’editore siciliano Flaccovio nel 2008.
Il Libro di Ruggero è testimone della cultura e della scoperta della pasta: secondo l’autore dell’opera, la pasta è nata in Sicilia e il suo luogo d’origine è una zona compresa tra Termini Imerese e Trabia. I ricercatori ci comunicano notizie di questo prodotto unico fin dal 1154. Ciò avvenne cento anni prima della nascita di Marco Polo, considerato l’esploratore che – scoperta la prelibatezza in Cina – la fece poi conoscere in Occidente.

Ecco i primi spaghetti

Nella sua ricerca Idrisi scrive di Trabia, un casale arabo nel territorio di Termini Imerese e a circa 30 km da Palermo, affermando: «La Trabia ha una pianura e dei vasti poderi nei quali si fabbrica molta quantità di paste (Yttriyya) da esportarne in tutte le parti, specialmente nella Calabria e in altri paesi di musulmani e di cristiani». Quindi, l’autore continua: «A Trabia scorre il fiume di Termini, largo e copioso di acque (…) La Yttriyya (arabo), che poi i latini chiamarono Itria, di cui ci giungono notizie, era una merce rustica e nutriente. Questa era prodotta in quantità limitate dalle famiglie che poi ne facevano commercio. Era fatta a mano e poi, d’estate, lasciata asciugare al sole. image048Nei mesi invernali, invece, l’essiccazione avveniva accostando il prodotto ai bracieri usati per riscaldare la casa. La materia prima era ottenuta dalla macinazione di grano duro, cui era aggiunta acqua. Il resoconto di Idrisi narra di una pasta tirata a fili sottili: i primi spaghetti. I floridi commerci e, soprattutto, l’abbondante acqua sorgiva e fluviale del territorio ne svilupparono la produzione. I piani caricatori nati vicino ai principali porti commerciali siciliani di Termini Imerese e Catania ammassavano le granaglie provenienti dall’entroterra, garantendo la disponibilità di una materia prima autoctona e pregiata. Già nel 1182 si hanno documenti sull’attività di molini ad acqua per la macinazione del grano. Questi impianti ebbero fortuna fino al XVII e XVIII secolo. Nello stesso periodo, anche i pastai andarono a utilizzare l’energia idraulica. Spesso gli stessi mugnai abbinavano al molino il pastificio di proprietà. Aumentarono anche le produzioni di mangimi e prodotti da forno. Nacque un fiorente artigianato che traeva forza dal ciclo produttivo chiuso. Un esempio seguito nei secoli dai maggiori fabbricanti del continente. La pietra miliare della moderna agroindustria.
Di questo mito secolare oggi è rimasto poco nel posto d’origine. Agli inizi del Novecento a Termini Imerese c’erano ancora quarantacinque impianti che producevano pasta o macinavano grano. Uno di questi era nella vicina Trabia. Così scrivevano gli autori Bontempelli e Trevisani nel libro “La Sicilia Industriale Commerciale e Agricola”, edito dalla Società Tipografica Editrice Popolare e pubblicato a Milano nel 1903: «Non v’è chi non dica che le paste alimentari di Torre Annunziata e di Gragnano siano tra quelle di produzione italiana le super eccellenti; ed infatti non si può dire che tali prodotti siano da disprezzare; ma in omaggio alla giustizia ed alla verità, è doveroso riconoscere che il luogo di origine di questa industria è la Sicilia e specialmente Termini Imerese, ove si fabbrica la pasta di pura semola senza ricorrere alle materie eterogenee di cui non tutte le Case produttrici di altri siti sono aliene dal miscelare le semole per la pasta medesima».

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L’industria della pasta nasce nel Sud

E’ giusto ricordare che la pasta iniziò a essere prodotta industrialmente dal 1800, quando nella zona di Napoli furono montati i primi impianti atti allo scopo. Nei decenni a seguire questi furono perfezionati, soprattutto riguardo ai sistemi d’essiccazione che, all’origine, avveniva all’aperto, davanti allo stabilimento, stendendo il prodotto su canne ad asciugare. Nel 1870 comparvero i torchi idraulici e le impastatrici meccaniche, seguite nel 1875 dai primi essiccatoti statici. Già nel 1856, il “Sicilia”, prima nave in ferro e vapore del Regno delle Due Sicilie, inaugurava una tratta oceanica verso New York dedicata al trasporto passeggeri e delle più pregiate merci nazionali e, in particolare, dei maccheroni.
La scienza tecnologica, intanto, continua a progredire con il trascorrere del tempo. E sempre in Sicilia vengono realizzati impianti all’avanguardia. Pastifici che esportano i loro prodotti negli Stati Uniti, confezionati in pacchi di carta da 1 libbra inglese, pari a circa 453 grammi.

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La pasta di Termini Imerese

Il Pastificio Russo di Termini Imerese (produttori dal 1875), per citare un esempio riportato sui testi, è ultimato nel Dopoguerra, utilizzando le più moderne tecnologie dell’epoca – come annota il professor Renato Rovetta nel suo libro “Industria del pastificio o dei maccheroni” (ed.Hoelpi, 1951). Il Pastificio Russo è una costruzione di sette piani, di cui sei fuori terra. Sottoterra avviene il rinvenimento della pasta. Al piano terra, alto 8 metri, sono montate impastatrici, gramolatici e presse. Lì troviamo pure i motori, il reparto imballaggio e il magazzino. Al piano primo, secondo, terzo e quarto avvengono l’incartamento ed essiccazione definitiva della pasta lunga. Il quinto è dedicato all’asciugatura della pasta tagliata corta. Il sottotetto è una camera d’aria di compensazione, per le varie situazioni atmosferiche. I macchinari sono Bühler. Lo stabilimento, come in tutte le regioni dell’Italia meridionale, aveva il lato lungo a Settentrione e il corto a Mezzogiorno. L’essiccazione era a Nord, mentre la produzione guardava sempre a Mezzogiorno.

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L’incolpevole declino

Alla fine degli anni Cinquanta la situazione economica muta il destino dei pastifici siciliani. I nostri emigrati all’estero costruiscono i primi impianti nelle Americhe come in Oceania e così diminuiscono drasticamente le esportazioni. I costi di trasporto e l’assenza di una rete autostradale innalzano a dismisura i costi delle spedizioni verso l’Italia settentrionale e l’Europa. Di contro, i produttori italiani del Nord sono in pochi e più vicini ai mercati. Aziende come Barilla e Buitoni crescono, insieme con altri marchi. La produzione in Sicilia appare frazionata. Sono molti i pastifici, alcuni di questi sono celebri, ma hanno difficoltà a sviluppare le dimensioni in un mercato ristretto e senza infrastrutture. Ancora in quel periodo, però, la produzione di pasta siciliana si evince superiore rispetto a quella di ciascuna regione italiana. (vedi Giuseppe Portesi -“L’Industria della pasta alimentare” – ed. Molini d’Italia, 1957).

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Il grande sogno siciliano

Gli ultimi industriali della pasta di Termini Imerese si riuniscono nel 1960. Studia il progetto il giovanissimo avv. Lorenzo Pusateri, erede di una dinastia di produttori imeresi. Insieme con loro c’è l’unico pastaio della vicina Trabia, l’onorevole Salvatore Messineo. Il progetto è ambizioso. Bisogna realizzare un grande pastificio, e giusto dove la pasta è nata. E’ individuato il terreno presso la nascente zona industriale di Termini Imerese.
Si pensa anche di ripristinare il vecchio tracciato dell’adiacente aeroporto, costruito dagli Alleati durante l’occupazione dell’Isola nel 1943 per favorire i trasporti. Sono commissionati progetti a Braibanti di Milano, Bühler di Uzwil (Svizzera) e Pavan di Galliera Veneta (Pd) ancora oggi custoditi e disponibili. Tutto sembra pronto per cambiare il futuro dell’industria alimentare italiana. Sarà costituita una società per azioni, dove tutti acquisiranno titoli in rapporto al capitale versato. La pasta sarà prodotta utilizzando i rispettivi brand. Alla fine, però, l’accordo non è sottoscritto. Dopo anni d’oblio si sono raccolte le testimonianze dirette di chi ha promosso l’iniziativa; chi è stato favorevole; chi ha voluto il fallimento della stessa.
Il pastificio più grande del mondo doveva nascere a Termini Imerese. Così, purtroppo, non è stato. E quindi il sogno dei pastai di Sicilia, terra dove la pasta è nata, è stato portato via dall’inesorabile scorrere del tempo. In ogni caso, oggi ne è salva la memoria.
Il resto è storia dei nostri giorni. I grandi pastifici italiani portano all’estero buona merce, confezionano enormi quantità, utilizzando linee totalmente automatiche per produzioni continue di ventiquattro ore al giorno a costi contenuti. I migliori produttori artigianali, però, continuano ad avere un ruolo primario. Sono gli eredi eccellenti di questa tradizione italiana. Producono piccole partite, puntando sulla qualità fin dalla materia prima. La fase dell’impasto e del dosaggio dell’acqua è spesso fatta a mano, mentre l’essiccazione avviene in piccole celle a basse temperature, inferiori ai 40 °C. Questo garantisce paste alimentari dalle caratteristiche nutrizionali e di gusto pari a quelle delle origini.

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(Tutte le immagini sono tratte dal libro Il Romanzo della Pasta Italiana)

Bibliografia:

– Al-Idrisi, Il Libro di Ruggero, Flaccovio Editore, 2008.
– Bontempelli e Trevisani, La Sicilia Industriale Commerciale e Agricola, Soc. Tipografica Editrice Milanese, 1903.
– Renato Rovetta, L’Industria del Pastificio o dei Maccheroni, Hoelpi 1951.
– Giuseppe Portesi, L’Industria della pasta alimentare, Mulini d’Italia, 1957.
– Nunzio Russo, La Voce del Maestrale, romanzo, I ed. Robin Edizioni 2005, II e III ed. Edizioni Esordienti Ebook 2012, IV ed. Edizioni Esordienti Ebook 2014.

I numeri dell’orrore

Una realtà che fa paura.

I numeri dell'orrore

Pedofilia, furto di organi, tratta dei minori. Problemi scottanti e di cui si parla troppo poco, forse perché troppo dolorosi da affrontare, forse perché fanno veramente tanta paura. Pensare di ignorarli però non è assolutamente utile per trovare una soluzione. Irma Panova Maino ne ha parlato, con il suo stile personale, nel libro “La resa degli innocenti” e per fare questo ha svolto delle ricerche documentandosi su quelli che sono i numeri dell’orrore. Cifre spaventose che riguardano il problema della sparizione dei minori, bambini che non tornano più a casa e di cui non si sa più niente. In questo articolo ci illustra le cifre basate sulle sue ultime ricerche.

Irma Panova Maino ha pubblicato con EEE: Scintilla vitale, Il gioco del demone, Le risonanze della folgore, La resa degli innocenti

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di Irma Panova Maino

“Se perdete un coniuge diventate vedovi, se perdete i genitori diventati orfani, ma se perdete un figlio, cosa diventate?”

Con questa introduzione parte un nuovo serial televisivo francese incentrato proprio su un tema che mi sta molto a cuore: le sparizioni dei minori.
Se in Francia ne spariscono quasi 1800 all’anno (di cui molti non vengono ritrovati) L’Italia non è sicuramente da meno.
Che fine hanno fatto Angela Celentano o Denise Pipitone?
Se nel mondo si contano quasi 8 milioni di sparizioni, in Europa ogni due minuti un bambino svanisce nel nulla e se pensate che queste cifre siano esagerate o spaventose, considerate che non tutte le scomparse vengono effettivamente denunciate. Non per il fatto che i genitori preferiscano nascondere l’accaduto, piuttosto per l’impossibilità di gestire una determinata situazione, con la conseguente verifica da parte delle Forze dell’Ordine o degli Enti preposti, nei casi in cui sono coinvolti extracomunitari o clandestini.
Dal 1 gennaio al 31 luglio 2014, quasi 9.000 bambini sono arrivati via mare non accompagnati. Di questi solo 5600 sono stati registrati nelle 1073599_45550087strutture di accoglienza, degli altri non si sa più nulla. Tuttavia, su un totale di quasi 15.000 bambini clandestini, non sempre coloro che li accompagnano sono realmente i genitori e l’impossibilità di stabilire con certezza l’identità, sia degli adulti che dei minori, rende il dato statistico alquanto aleatorio. Forse potremmo pensare che, essendo stranieri, la cosa non ci riguarda. Forse potremmo sentirci sollevati dal fatto che la questione non coinvolge i nostri figli, i quali dormono sonni tranquilli e sono assiduamente controllati dai genitori. Ebbene, se la pensate in questo modo, vi state decisamente sbagliando. I numeri dell’orrore italiani non sono dissimili da quelli francesi (o di quelli di qualsiasi altro paese del mondo) e solo di una piccola parte si sa che fine abbia fatto.
Il Lazio detiene il triste primato di cui stiamo parlando, seguito a ruota da Lombardia e Sicilia.
Per quanto si possa dire che dei tanti allontanamenti da casa molti si risolvono con il ritrovamento o il ritorno della prole, non si possono ignorare tutti quei casi in cui, pur restando sotto l’egida dell’apparente sicurezza domestica, i ragazzi vengono comunque invischiati in situazioni scabrose e pericolose. Circostanze non sempre a lieto fine che, spesso, segnano a vita i minori implicati.
È di marzo il fatto di cronaca che ha visto come protagonista una sedicenne desiderosa di intraprendere una carriera come modella. Adescata su un social network, è stata blandita e convinta a posare per foto via via sempre più hard. Alla fine i genitori si sono accorti delle anomalie comportamentali della figlia e hanno denunciato quanto stava succedendo. L’indagine della polizia di Genova, ha interessato 6 province del nord e centro Italia (Genova, Savona, Alessandria, Milano, Brescia e Roma) e fino a ora ha portato a 5 arresti per violenza sessuale su minori, divulgazione e detenzione di materiale pedopornografico.
Come potete vedere, in questo caso la ragazza non è sparita, ma possiamo davvero dire che non ci saranno conseguenze e ripercussioni? Certo, la giovane è stata fortunata e i genitori sono intervenuti per tempo, ma quante volte accade che la fortuna assista gli ingenui? Quanti sono i casi in cui non c’è stato tempo e la tragedia alla fine si è consumata. Pensate di conoscere i vostri figli, di sapere chi frequentano e chi cerca di adescarli sui social?
Vedo una marea di ragazzine posare in atteggiamenti di cattivo gusto, persino espliciti. Minorenni che mostrano boccucce provocanti, indossando abiti che nemmeno la prostituta di un bordello oserebbe mettere… e mi chiedo: “Ma i genitori dove sono? Dove guardano?”
Per non parlare poi delle fanciulle, che frequentano le medie inferiori, che vanno a scuola abbigliandosi in modi decisamente inopportuni, dato il luogo che dovrebbero frequentare per istruire il cervello e non per esporre la carne.
Eppure, se questa gioventù è decisamente a rischio, un po’ per la superficialità data proprio dall’età, un po’ per la noncuranza di noi adulti, dall’altra parte esiste un sottobosco criminale sempre più vasto e sempre più sfrontato. Complice anche il fatto che l’Italia non è fra i paesi più organizzati nella lotta contro questo genere di criminalità Molto si sta facendo ma siamo ancora lontani dall’aver risolto il problema. Quindi sta a noi, a noi che viviamo a contatto con questi ragazzi, aiutarli e proteggerli, anche se non sono i nostri. Perché sono loro il futuro del mondo, la nostra eredità e il nostro lascito.

1049880_73189252Il 25 maggio verrà celebrata la Giornata Internazionale per i Bambini Scomparsi. Questa commemorazione è nata per ricordare la scomparsa di Ethan Patz, rapito a New York il 25 maggio 1979, e anche per voler sensibilizzare l’opinione pubblica in merito a un problema che mina, in modo allarmante, tutto il nostro futuro.
Non dimentichiamoci che molti dei bambini scomparsi in epoche meno recenti, se ancora vivi, ora potrebbero essere diventati adulti e tale condizione fa decadere automaticamente qualsiasi ulteriore tentativo di ricerca. Tuttavia, il fatto che siano maggiorenni, li rende meno vittime innocenti?