Nell’era del digitale, è ancora così ovvio dover inviare manoscritti su carta?
«I manoscritti vanno inviati esclusivamente su carta». Chissà quante volte un aspirante scrittore ha letto una frase come questa sul sito internet di un casa editrice.
di Giorgio Bianco
Mi ha sempre dato fastidio, non lo nego. Talora anche a causa del tono di rimprovero che contiene: «Per favore, astenetevi dall’invio di e-mail: saranno tutte cestinate». Come dire: «Non mancateci di rispetto, datevi almeno la pena di stampare il manoscritto».
Ma perché? Perché ancora molti (non tutti, per fortuna) pretendono la carta? Non me lo spiego, mi pare un’assurdità. Eppure un motivo deve esserci.
Spendiamo una parola anche per gli autori, indipendentemente dal fatto che siano bravi o meno: sono chiamati a spendere soldi per stampare, acquistare grandi buste e spedire, senza contare la fila in Posta. Ricordo che, quando inviavo i miei romanzi in formato cartaceo, approfittavo della visita a qualche parente in un paesino sperduto, dove nell’ufficio postale si fa meno coda.
Poi mi sono stufato, o ribellato, al sistema. E ho iniziato a farla io la selezione: non prendo in considerazione editori che rifiutano l’invio del manoscritto tramite e-mail. Li respingo, mi prendo questa libertà.
Perché con la e-mail la procedura è più agile, pulita, ordinata, rispettosa degli spazi e della natura. Si scarica l’allegato, lo si inserisce in una cartella e si comincia a leggere. Inoltre gli schermi dei computer moderni sono molto meno nocivi di quelli di un tempo, quando i fosfori verdi lampeggiavano su sfondo nero. Io stesso lavoro a terminale per almeno 10 ore al giorno, senza gravi danni alla vista. Inoltre nei documenti ci sono i margini, quindi è possibile prendere appunti. Si può ingrandire il carattere, salvare la posizione. Insomma, a che cosa serve tutta quella carta?
Secondo me è l’emblema di una grossa contraddizione di certi ambienti culturali del nostro Paese. E’ un tema che affronto spesso, ammetto di esserne un po’ ossessionato. Credo che l’accesso all’arte talora non sia aperto a tutti, se non in apparenza. Fa sorridere dirlo, ma la cultura vissuta come bene comune è un fatto… culturale! Da noi, purtroppo, non è tanto bene comune quanto casta, circolo chiuso, “noi sì che ci capiamo”.
Ecco dunque che la carta, rispetto alla volgare mail, aiuta a fare la selezione. E’ più elegante, solidamente aggrappata alla tradizione (altra contraddizione: progressismo e conservatorismo insieme), perfino ossequiosa: sì, perché per mandare una mail bastano due secondi, è troppo facile, mentre spedire la carta significa rispettare il rituale, la gerarchia, la presunzione di statura di chi ti sta di fronte. Posso dirlo? E’ una forma di “nonnismo”.
Ma la vera parola chiave forse è un’altra: presunzione. In altri Paesi il successo avvicina alla gente, cioè rende disponibili e amichevoli. In Italia, invece, rende distaccati. Avete visto il film “La grande bellezza”? Al di là del fatto che non mi è piaciuto, faccio notare che il protagonista è prima di tutto antipatico, ciò che lo rende perfetto per il successo all’italiana. Un successo colmo di arroganza, perfino di classismo. Parliamo di gente che si autoproclama importante, colta, sensibile e immensamente elegante. Gente a cui perfino i santi chiedono di ricominciare a scrivere romanzi. Ebbene, gente così spedisce le buste, mica manda le e-mail!