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Intervista a Nino Raffa

Intervista a Nino Raffa

l'amore allo specchioL’amore allo specchio, di Nino Raffa, non si può considerare semplicemente un giallo, anche se ne ha alcune caratteristiche. L’ingrediente principale non è tanto il mistero in sé quanto la ricerca che conduce ad esso. Tipico della migliore tradizione narrativa, l’elemento della “ricerca” esprime tutti gli ingredienti del classicismo epico, in questo caso letto in chiave moderna. Tuttavia, proprio per quella voluta eleganza stilistica, il romanzo ben si accosta anche alla narrativa d’autore, caratteristica dei più grandi scrittori siciliani.

Partendo dal fattore basilare, cosa spinge un autore a utilizzare l’elemento “ricerca” per distinguere il proprio testo?

Intanto la ringrazio per l’accostamento ai grandi scrittori siciliani. Lei ricorderà una famosa foto di Sciascia, Bufalino e Consolo che ridono insieme di gusto, seduti in un giardino: credo che tutti e tre, nel giardino del paradiso, avranno accolto il suo generoso giudizio con la stessa ilarità!

Riguardo alla domanda, Borges riconduceva tutte le nostre narrazioni a quattro esempi fondamentali: le storie di Troia, di Ulisse, di Giasone e di Cristo; ovvero l’assedio, il ritorno, la ricerca e il sacrificio. Nonostante gli sforzi d’inventare qualcosa di diverso, le trame possibili sembrano ristrette a questa lista striminzita. Quanto agli esiti della ricerca, lo stesso Borges nota che gli antichi potevano conquistare il Graal o il Vello d’Oro, mentre noi moderni siamo condannati all’insuccesso. Achab e Josef K. sono ontologicamente destinati alla distruzione e al fallimento: un destino diverso li renderebbe falsi ai nostri occhi disillusi e smaliziati.

L’Amore allo specchio rientra in questa regola. In più ho tentato una storia in cui, l’ordinaria sconfitta pretesa dai nostri tempi, covasse in sé il seme ribelle di un riscatto. Ho immaginato un normale progetto umano – disegnato d’ingenuità, miopie ed errori – che oltre, e contro, le intenzioni dei suoi stessi artefici contenesse una vittoria più importante.csgp_10_Sciascia_Consolo_Bufalino.jpg.

I protagonisti del suo romanzo sono alcuni abitanti di una casa di riposo per anziani, ci può spiegare il perché di questa scelta?

Ho scelto ambientazione e tipi in qualche modo familiari. Gli anziani hanno avuto un ruolo importante nella mia vita e la narrazione è scaturita da certe figure che porto dentro. In particolare un bisnonno burlone e scioperato ha ispirato l’idea di fondo del romanzo.

Personaggi non propriamente giovani apportano dei valori aggiunti in quella che è la propria caratterizzazione, come saggezza ed esperienza. Questa scelta può controbilanciare le ovvie limitazioni fisiche dovute all’età?

In generale, non sono sicuro che la vecchiaia garantisca saggezza o esperienza. Mi sembra piuttosto un affinamento – nei casi migliori – o un’esasperazione – nella norma – di certe proprietà personali, magari risalenti all’infanzia. Chi è stato stupido da giovane proseguirà volentieri sulla stessa linea fino a cento anni e oltre.

Sul piano personale invece sono stato fortunato con i miei vecchi. Devo loro un certo distacco dalle contingenze, insieme all’inclinazione a guardare sotto la superficie delle cose. Nel romanzo amplifico e deformo questi caratteri nella figura di Pirri, ex professore di filosofia ultranovantenne, che quasi immobile nella sua cameretta costituisce il principale motore dell’azione. Dubito comunque che l’eventuale affinamento di certe qualità mentali dovuto agli anni, possa compensare il declino fisico. Siamo fatti troppo di carne per assistere impassibili alla nostra distruzione materiale: saggezza ed esperienza possono darci solo limitata consolazione.

I personaggi di Pirri e Miriam sono certamente centrali per la narrazione, ci può dire come sono nati?

Pirri e Bonanno si rifanno ai miei nonni: uno prudente e riservato, l’altro straordinario trascinatore, animato da un entusiasmo talvolta incauto. Ma più in profondità Nino Pirri è una versione invecchiata e incattivita del suo autore. Scrivere di lui è servito a conoscermi, e un po’ a guardarmi dalle possibili derive di me stesso. Nella battuta finale del romanzo approfitto del comune nome di battesimo per giocarci su.

La piccola Miriam è la persona ideale per una miracolosa guarigione. In più con le sue domande semplici e spietate sui miracoli, incarna una certa purezza di mente e di cuore originaria; ovvero la possibilità, che si perde crescendo, di guardare ai fatti senza pregiudizi di educazione, di parte, d’ideologia o di religione.

Il mio personaggio preferito – quello in cui più ho versato il mio carattere, insieme ai dubbi e alle speranze – rimane comunque Caruso, il becchino. Figura peraltro direttamente ispirata a una persona esistente.

Nel suo romanzo ritroviamo molti aspetti “quotidiani”, come il bisogno della gente di credere in un qualcosa che vada al di là del puro esistenzialismo. Tuttavia, un aspetto di questa necessità diventa controverso quando si affronta un tema come i miracoli, da un lato esiste la fede e dall’altra la brama di trarne profitto, cosa l’ha spinta a voler ritrarre questo scorcio sociale del nostro paese?

Forse più che in altri tempi recenti la cronaca di questi giorni registra il lacrimare o il sanguinare d’immagini sacre, e non serve neppure entrare nel merito della loro autenticità. Quando le illusioni di ricchezza, bellezza, gioventù e salute, insite nel materialismo e propagandate dalla pubblicità, vengono smascherate, diventa naturale cercare rifugio in qualcosa di più profondo. La fede sul versante religioso, come alcune filosofie su quello laico, rientrano tra gli strumenti cui ci rivolgiamo per ridurre la frattura tra noi stessi e il mondo che sentiamo ingiusto e minaccioso. Ma anche qui scontiamo l’essere spiriti incarnati: abbiamo bisogno di segni visibili. Il miracolo, vero o presunto, s’inserisce in questa condizione sofferente di ricerca ma anche di smarrimento. Normale, almeno secondo il corso di questo mondo, che le forze opposte del denaro e del potere s’insinuino nella nostra fragilità per i loro scopi abietti. Ancora più normale che ciò avvenga in questi momenti di crisi collettiva.

Da un suo punto di vista personale, quanto peso può assumere un “miracolo” nella solidità della fede di una persona?

Ho sempre creduto alla possibilità del miracolo, sembrandomi perfettamente ragionevole l’intervento soprannaturale di Dio nel mondo, per il nostro bene e come segno del suo amore. Da giovane però, forse confuso da certi eccessi di credulità, pensavo che aggiungesse poco o nulla alla fede. Il miracolo in termini razionali o scientifici non prova nulla: è sempre possibile ridurre anche i casi oggi più inspiegabili alle ordinarie conoscenze umane del futuro.

Adesso sono più prudente, riconoscendo l’effetto positivo di un segno straordinario nello scuotere la nostra fede, spesso asfissiata dalla sua immersione nell’ordinario. Rimane l’assenza di prova. I teologi individuano una specie di circolarità: i miracoli confermano la fede, ma per riconoscerli serve una predisposizione personale, che magari non è ancora fede affermata ma è già uno stato positivo di accoglienza verso l’amore di Dio. La fede è quindi sia condizione che effetto del miracolo. Ma credo ci sia un altro aspetto importante: di solito ci concentriamo su certi effetti materiali, come una guarigione fisica, dimenticando che il primo scopo del miracolo è la nostra salvezza spirituale. Se pensiamo ai miracoli per eccellenza – quelli di Gesù – notiamo che sono associati alla conversione, ovvero a un radicale cambiamento della persona che lo riceve e di coloro che ne sono testimoni. In certi passi del romanzo, e in particolare nell’ultimo dialogo tra Bonanno e Caruso ho cercato, con tutti i miei limiti letterari e soprattutto di fede, di richiamare – direi meglio, d’indagare, prima di tutto per me stesso – questa valenza del miracolo, meno eclatante ma più fondamentale.

Il vero valore di una reliquia risiede nella sua autenticità, oppure nel suo essere simbolica, anche se, magari, non vera? E può diventare comprovante di un determinato avvenimento storico, a prescindere dal fattore religioso?

Innanzi a una reliquia cristiana confidiamo in qualche modo nel potere di Cristo o nell’intercessione della Madonna o di un Santo, ma l’oggetto, a prescindere dalla sua autenticità, non ha valore in sé. Penso che l’efficacia della reliquia stia nella preghiera sincera e profonda che accompagna il culto. Si torna alla circolarità tra miracolo e fede. Nel libro è la preghiera disperata di Rosetta, rafforzata dalla fiducia nel presunto capello della Madonna, a realizzare la possibilità del miracolo.

Le reliquie hanno pure un valore di testimonianza storica indipendente dalle loro implicazioni mistiche. Sullo stesso piano esistono anche oggetti di culto laico, come il cervello sotto spirito di uno scienziato, la chitarra di un cantante o le carte di uno scrittore. Naturalmente a questo livello parliamo di cose che interrogano la memoria e non più la coscienza.

Come ha sviluppato il lavoro di ricerca storica che fa da corollario al romanzo, in particolare per la lettera della Madonna?

La documentazione è stata facile da reperire in biblioteca; compreso il famoso Viaggio degli ambasciatori di Messina mandati alla Gran Madre di Dio in Gerusalemme congetturato e contemplato da mente devota… eccetera, eccetera… che nel romanzo definisco con sincera ingratitudine polpettone. Su qualche testo latino, grammatica e vocabolario alla mano, sono ricorso con alterne fortune alle sbiadite reminescenze dei già distratti studi liceali. A parte questi affanni, ripercorrere le vicende della Sacra Lettera lungo la storia è stato altrettanto divertente che inventargli attorno un racconto.

Quando Nino Raffa non scrive, come occupa il proprio tempo?

Nino Raffa, come il suo bisnonno Peppino Papa arruolato nel romanzo, sarebbe commerciante. E come lui non prende troppo sul serio il suo lavoro. Quando non scrive e traffica gli piace dilettarsi d’architettura. Lo vedo come un uomo di tante curiosità e nessun mestiere.

Quali sono i progetti futuri?

Sto riordinando, non senza fantasia, certi diari giovanili, in una specie di autobiografia non autorizzata. Lavoro pure da qualche anno con intermittenza a una faticosa riscrittura della Genesi, assumendo come punto di vista privilegiato i rapporti tra donna e uomo.

Mi preme in chiusura ringraziarla per aver potuto discutere insieme di vecchiaia, teologia e libri polverosi. Nonostante mi sia guardato dal nominare San Paolo, la doppia predestinazione e Sant’Agostino – ulteriori argomenti di grande richiamo – sospetto che la nostra conversazione non sia stata ideale per spingere il romanzo. Mi chiedo con preoccupazione cosa ne penserà il mio editore. Ma come mentiamo sempre, non si scrive per vendere… ma per se stessi!

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