188_poesia

La poetica di Maurizio Donte

La poetica di Maurizio Donte

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La metrica è definita come una forma ormai obsoleta con cui comporre la poesia, come se i versi liberi potessero essere gli unici in grado di dare vita ai pensieri e alle emozioni. Tuttavia, analizzando la questione da un’altra ottica e leggendo questo articolo, forse la realtà potrà assumere una visione diversa e più significativa di quanto possano essere importanti le regole, anche nell’arte.

Maurizio Donte ha pubblicato con EEE la silloge poetica Nell’incanto

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di Maurizio Donte

Sono moltissimi anni che mi dedico alla poesia (la scrivo praticamente da quando ho imparato a tenere la penna in mano…) ma l’amore per questa forma d’arte è nata in me dall’infanzia, prima per merito di mia madre, che l’ha sempre amata e non mancava mai di recitarmene qualcuna al posto delle favole, poi, lo ammetto, anche per una tradizione familiare che vede tra i miei antenati altri due poeti, da parte materna un prozio e da parte paterna il cugino primo del nonno.
Ho iniziato con il verso libero, come molti fanno al giorno d’oggi, seguendo la lezione dei grandi del ‘900: Ungaretti, Montale, Quasimodo e Saba, principalmente; ma l’amore per la creazione poetica è una tentazione a cui è ben difficile resistere e che non conosce limiti di sorta, così, pur dopo aver ottenuto con la Poesia libera molte soddisfazioni, ho sentito la necessità di approfondire la materia.
Ho sempre amato, oltre ai poeti sopra citati, i nostri classici del passato, e ne avevo già una buona conoscenza, ma mi rendevo conto che la bellezza del loro modo di esprimere le immagini poetiche, l’armonia insita nei loro versi, il loro linguaggio, meritava uno studio ben più approfondito. E così mi sono fatto studente, con umiltà e pazienza (mia, ma soprattutto dei miei insegnanti) sono andato a lezione di metrica dai poeti dell’Accademia Alfieri di Firenze, presieduta dal poeta e attore Dalmazio Masini.
La metrica non è, a mio vedere, un desueto orpello da relegarsi nelle cantine della letteratura come sorpassata, vecchia e inutile. So che a molti oggi non piace, è vero, ma ritengo abbia un naturale diritto ad essere coltivata, pur in modo moderno, utilizzando cioè, un lessico attuale e aderente il più possibile ai nostri tempi. Lo so che oggi può apparire insolito, o demodè, cimentarsi nel sonetto, nel madrigale, nella canzone petrarchesca, o nelle odi, negli idilli, e nelle liriche sestine. Però mi chiedo, perché no?
Queste forme sono il fondamento stesso della poesia italiana, le basi dei nostri grandi autori del passato, che nulla certo hanno da invidiare agli autori stranieri, e allora, perché mai dovremmo rigettarle?
Certo, è chiaro che non ci si può limitare a scimmiottare Leopardi, o Foscolo, Alighieri o Petrarca. Bisogna apprenderne la lezione, e andare avanti.
D’altra parte la POESIA (dal greco ποίησις, poiesis, che vuol dire “creazione”) è una forma d’arte che crea, scegliendo opportunamente le parole secondo i criteri delle leggi della metrica, oppure facendone a meno, un componimento in versi (frasi in diverso modo assemblate) in cui il significato semantico si lega in modo indissolubile al suono, alla musicalità insita nei fonemi usati.
È pertanto chiara la parentela della musica con la poesia: nelle precise regole di accentazione e di numero sillabico dei versi assemblati insieme riverberano le altezze e le frequenze delle note del pentagramma. Così come due note successive suonate insieme, es DO_ RE, creano una dissonanza, allo stesso modo non si può in poesia far seguire a un endecasillabo un verso ottonario: semplicemente ne esce una evidente stonatura. Diversamente, l’accostamento di un settenario a un endecasillabo suona benissimo, e non si deve pensare a questi modi di esprimere le parole come a un qualcosa di artificiale, essendo questi una parte integrante (“essendo questi una parte integrante” diventa: es sen do QUES ti-u na PAR te-in te GRAN te- endecasillabo dattilico a minore con accenti in 4, 7 e 10) del nostro comune modo di esprimere le nostre idee in parole, come ben potete vedere.
Quindi, la restrizione metrica, figlia e creatrice della musicalità della nostra bella lingua, riesce a trasmettere, proprio come fa la musica, emozioni, concetti e stati d’animo in maniera molto più evocativa e potente di quanto si possa ottenere con la prosa, laddove le parole obbediscono, o almeno dovrebbero obbedire, solamente alle regole grammaticali e alla sintassi.
Un esempio a tutti noto: ben diverso è dire “Questo colle solitario mi è sempre stato caro” dal ben più evocativo “Sempre caro mi fu, quest’ermo colle” (endecasillabo anapestico a majore, con accenti in 3, 6, e 10).
Detto questo, aggiungo soltanto che non necessariamente la poesia metrica trova la sua espressione nelle forme chiuse, come quelle citate sopra, che sono certamente legatissime alla rima, che a molti oggi non piace, ma può benissimo vivere in forme aperte e sciolte (non libere in modo assoluto), in polimetri, o in endecasillabi sciolti. Esempi magnifici di questi ultimi ne sono certamente L’infinito di leopardiana memoria, o Dei Sepolcri di Ugo Foscolo, per citarne due noti a tutti. Pur nel linguaggio del loro tempo sono, e restano, modernissime. Perché dunque, non seguire questa via?

 

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