La prima volta del detective

La prima volta del detective

Ovvero: qual è stato il primo racconto poliziesco della storia?

Di Alberto Zella

I sedici anni sono l’età fondamentale della vita. Lo sono per vari motivi, anche per le letture. E’ attorno a questa età, infatti, che di solito si fa l’incontro con i libri che io definisco “fondamentali”: i grandi classici, certamente, ma anche le occasionali e personali scoperte. Queste letture “da adulti” si inchiodano nella giovane psiche del lettore adolescente, ancora impressionabile come quella di un bambino, e saranno alla base dei gusti letterari (e quindi della forma mentis) della persona per tutta la vita. Almeno per me e per tanti che conosco è stato così.

A sedici anni lessi i Racconti di Edgar Allan Poe. Bellissimi, inutile dirlo, e famosissimi. Tra questi c’era I delitti della Rue Morgue (The Murders in the Rue Morgue in lingua originale). La trama è forse troppo nota agli appassionati del genere per essere qui riassunta; ma occorre ricordarne l’impianto, che ritengo necessario perché un racconto possa essere definito “narrativa d’investigazione”. Due donne vengono uccise in modo orrendo all’interno di un appartamento parigino, con porte e finestre ermeticamente chiuse dall’interno. Come ha fatto l’assassino a fuggire? Il crimine non sembra avere una soluzione logica, almeno per una persona dotata di normale buon senso. La polizia brancola nel buio; cionondimeno, un innocente è ingiustamente arrestato. A questo punto entra in scena l’investigatore, Auguste Dupin.

I delitti della Rue Morgue è marcato dalle caratteristiche che saranno alla base della letteratura d’investigazione negli anni a venire. In primis, c’è un crimine, vero o presunto. Secondo, c’è qualcuno che investiga. Terzo elemento – quello che a me sembra più importante – l’investigatore applica un metodo. Quarto, il mistero è svelato.

C’è un corollario al terzo elemento: colui che investiga, sia esso professionista o dilettante improvvisato come Auguste Dupin, è intellettualmente superdotato e – ne consegue inevitabilmente – anticonformista. L’applicazione del metodo fa sì che egli non si fermi alle apparenze e sorvoli sul buon senso comune. Il detective deduce e capovolge i punti di vista. Arriva così alla soluzione del crimine, che nel caso della Rue Morgue è assolutamente sorprendente.

Quando lo lessi per la prima volta (quanti anni sono passati!) si riteneva che I delitti della Rue Morgue fosse il primo vero poliziesco della storia della letteratura. Il racconto fu scritto nel 1841. Oltre ai quattro elementi caratterizzanti la narrativa d’investigazione, ve n’è un altro che incuriosisce: la narrazione è fatta in prima persona dall’anonimo amico di Dupin. La stessa formula sarà adottata da Conan Doyle qualche decennio più tardi, con le avventure di Sherlock Holmes raccontate dal dottor Watson.

Dicevo più sopra che dai tempi della Rue Morgue colui che indaga è sempre intelligentissimo. A volte gli autori cercano di spacciarlo per un tipo comune. Non lo è mai. Lo scrittore può creare l’investigatore che più gli si confà: uomo, donna, straccione, elegantissimo, pieno di problemi, ricco, povero, drogato (vero, Mr Holmes?), alcolizzato, bastardo, rinnegato, giovane, vecchio, disabile, bisessuale, trisessuale, extraterrestre, pantofolaio o tombeur de femmes. Ma l’investigatore ha sempre, intellettualmente parlando, qualcosa in più della persona comune. Vede dove gli altri non vedono, intuisce ciò che gli altri non possono neppure lontanamente immaginare, ha una determinazione ferrea. Di conseguenza è sempre anticonformista, anche quando finge di essere un perbenista allineato agli standard e alle cinque va a prendere il tè con le amiche. La genialità dell’investigatore è esaltata quando la vicenda è raccontata da qualcuno che non ne è il protagonista, come l’amico di Dupin o il dottor Watson. Entrambi ci dicono quanto sono straordinari i loro amici investigatori.

Ma la questione è: I delitti della Rue Morgue è veramente il primo racconto poliziesco della storia?

Brandelli di letteratura poliziesca li si possono trovare in infiniti testi antichi e antichissimi. Molti di questi testi non nascevano però con un intento dichiaratamente di letteratura d’intrattenimento, men che meno investigativa. Il racconto voleva spesso trasmettere una morale, meglio se religiosa. Altre volte non tutte e quattro le caratteristiche della detective fiction erano rispettate. Frequente era il ricorso al paranormale per risolvere il crimine misterioso. Il ricorso al paranormale, in un poliziesco, è roba da cartellino rosso: si è espulsi da questo genere di letteratura. Ben lo sapeva Conan Doyle che, pur appassionato di spiritismo e occultismo, si è sempre ben guardato dal trovare una soluzione paranormale per le investigazioni di Sherlock Holmes.

All’epoca di Poe il punto di vista sulla letteratura era quasi esclusivamente “occidentale”. Poco si conosceva di altre culture. Ma è lecito supporre che anche in ambito occidentale I delitti della Rue Morgue non sia stato il primo racconto poliziesco. Maurits Christopher Hansen scrisse L’assassinio del motorista Rolfsen un paio d’anni prima del racconto di Poe. Non ho letto il romanzo, che è difficile da trovare anche in inglese; pare che abbia tutti i connotati della detective fiction, seppure inserito in un contesto che è molto più ampio di un poliziesco. Purtroppo per lui, Hansen scriveva in norvegese, lingua poco frequentata a livello internazionale, e questo deve essere il motivo per cui, per anni, il primato gli è stato scippato a favore del più mediatico Edgar Allan Poe.

Andiamo più lontano. I cinesi, che in passato arrivavano primi in molti campi, salvo poi scordarsi cosa avevano inventato, scrivevano letteratura poliziesca già durante la dinastia Yuan. Siamo nel XIII e XIV secolo della nostra era. Il cerchio di gesso è in tutto e per tutto un legal thriller. Persino il titolo ha un suono moderno. In un confronto all’americana, il giudice Bao Gong salva la concubina Hai-tang dalle grinfie del boia, dimostrando che non ha ucciso lei il marito Ma Chun-shing e che il bambino messo al centro del cerchio di gesso è effettivamente il figlio della donna. Perry Mason aveva un antenato cinese! Bertold Brecht si ispirò al Cerchio di gesso per il suo dramma Il cerchio di gesso del Caucaso. Negli anni ’90 la televisione di Taiwan ha prodotto centinaia di episodi con protagonista il giudice Bao.

L’autore de Il cerchio di gesso è una figura semi-leggendaria in Cina, un po’ come da noi Omero. Il suo nome è Li Qianfu, altre volte riportato come Li Xingdao. Dovrebbe essere vissuto nel XIV secolo.  Il protagonista della storia, il giudice Bao Gong, conosciuto anche come Bao Zheng (Gong, se ho capito bene, è una specie di titolo onorifico) è effettivamente esistito attorno all’anno mille, durante la dinastia Song. Non ci sono pervenuti lavori dell’epoca Song; i primi lavori sicuramente databili sono quelli dell’epoca Yuan. Uso la parola “lavori” perché queste crime fiction erano rappresentate in una forma di intrattenimento chiamata Zaju. Un misto di musica, danza, canto, teatro, mimo e tutt’un po’. Per trovare un racconto scritto si deve andare al XV o XVI secolo. Anche se non si considera il teatro letteratura poliziesca, la versione su carta anticipa Edgar Allan Poe di almeno trecento anni.

Ma qualcuno era arrivato prima dei cinesi.

Le mille e una notte hanno al loro interno dei racconti in cui un personaggio investiga su un crimine e lo risolve. In rete si parla di uno di questi, Le tre mele, come di una detective fiction. Personalmente non sono d’accordo. Il racconto parte alla grande, con il ritrovamento del cadavere di una donna tagliato a pezzi, chiuso in una cassa e ripescato dal fiume a Bagdad. Roba da fare invidia a Jeffery Deaver. L’assassino è reo confesso; anzi, all’inizio ci sono due rei confessi. L’assassino è comunque il marito della donna e ha ammazzato la moglie per motivi d’onore. Si scopre che la moglie era però innocente. Il punto è: cosa ha spinto l’Otello di Bagdad a compiere tale gesto di cavalleria rusticana? Il visir Jafar è incaricato di investigare: deve trovare l’uomo che ha preso la terza mela e che millantando una relazione con la vittima ha spinto il marito al delitto d’onore. Se fallisce, Jafar ci lascerà la testa.

A mio parere, Le tre mele non può essere considerato un poliziesco: l’investigatore Jafar non applica un metodo, cioè ignora completamente il terzo elemento della detective fiction. Sta già dando l’addio ai famigliari e alla sua testa, quando l’enigma è risolto per un colpo di fortuna con la C maiuscola.

Ma un altro racconto de Le mille e una notte rispetta invece i quattro elementi della detective fiction. Si tratta della Storia di Ali Cogia, mercante di Bagdad. Siamo nel X secolo, i cinesi sono anticipati di trecento anni. Ali Cogia, altrimenti translitterato come Ali Khwaja, deve partire in pellegrinaggio per la Mecca. Prima della partenza lascia un vaso colmo di monete d’oro in deposito nel magazzino di un altro mercante, dichiarando che si tratta di olive. E in effetti uno strato di olive copre il prezioso contenuto sottostante del vaso.

Un affare tira l’altro e Ali Cogia, dopo essere stato alla Mecca, vagabonda per tutto il Medio Oriente e resta in viaggio per sette anni. Intanto il mercante che ha ricevuto il vaso in deposito deve soddisfare un’improvvisa voglia di olive della moglie. Decide di prenderne un po’ dal vaso di Ali Cogia; scopre così che sotto le olive ci sono le monete d’oro. Arraffa il malloppo e riempie il vaso da cima a fondo di olive fresche.

Inizia a questo punto il legal thriller. Ali Cogia chiama in causa il mercante arraffatore per appropriazione indebita; ma non ha prove per dimostrare che nel vaso ci fossero le monete d’oro anziché le olive, come dichiara la controparte in causa. Con un meccanismo shakespeariano, il crimine sarà svelato da un’interpretazione teatrale di ragazzini, a cui il califfo Harùn ar Rashid assiste per caso. Sarà infatti il ragazzino che interpreta l’autorità inquirente ad applicare, per gioco, un metodo che porterà alla risoluzione del caso: com’è possibile che dopo sette anni di deposito le olive nel vaso siano assolutamente fresche? Chiaramente, qualcuno ha sostituito le vecchie con le nuove.

C’è da dire che nel racconto i ragazzini si dimostrano molto più svegli degli adulti chiamati a investigare e giudicare. Anche questo è un tema che ricorre spesso nella letteratura d’investigazione: il detective privato è più intelligente del poliziotto. Il dilettante improvvisato vede la dove gli inquirenti istituzionali non arrivano, gli adolescenti fanno faville rispetto agli adulti tromboni. I soldi del contribuente sono spesso mal spesi. Comunque, il buon califfo Harùn ar Rashid ricalca il gioco dei ragazzini al momento del vero giudizio, e Ali Cogia otterrà giustizia. Le quattro caratteristiche della detective fiction sono soddisfatte, seppure di riflesso.

Ma a mio parere qualcuno era arrivato prima delle Mille e una notte.

Anche in questo caso la storia è celeberrima: è quella di Susanna e i vecchioni. Questi ultimi sorprendono Susanna nuda mentre fa il bagno nel suo giardino. I due vecchioni, presi da raptus erotico senile, ricattano la donna per fini libidinosi. Lei non cede e i due la denunciano per adulterio. Susanna sembra spacciata e viene avviata alla lapidazione. Ma qui entra in campo l’investigatore: il futuro profeta Daniele. Anche in questo caso l’investigatore è un dilettante e per di più è un ragazzino, molto più sveglio degli adulti attorno a lui. Sembrerebbe che finita l’acne giovanile intervenga immediatamente la demenza senile. L’anticonformista Daniele contesta gli israeliti conformisti. I due vecchioni sono infatti due pezzi grossi dell’establishment, e il popolo bue si guarda bene dall’uscire dal solco del seminato. Daniele interroga separatamente i vecchioni; questi cadranno in contraddizione circa il tipo di albero sotto cui Susanna ha consumato il presunto adulterio.

I quattro elementi della letteratura d’investigazione sono rispettati. C’è il crimine, in questo caso solo presunto: l’adulterio di Susanna. Dalle false accuse conseguirà però un crimine vero, cioè la falsa testimonianza dei due vecchi libidinosi. C’è l’investigatore Daniele. C’è il metodo, e c’è la risoluzione del caso. È rispettato anche il corollario al terzo elemento: Daniele è intellettualmente superdotato. Lo è per intervento divino, ma nella storia di Susanna non c’è l’applicazione diretta del paranormale.

Julian Symons, prolifico autore di crime fiction del novecento e studioso di narrativa poliziesca, scriveva che i racconti biblici non potevano essere ritenuti detective fiction, ma solo frammenti di un puzzle. Si torna a quanto scritto sopra: l’intento dell’autore del libro di Daniele non era certo quello di scrivere un poliziesco, ma di lodare il Signore. Esattamente come nel racconto di Ali Cogia lo scopo era quello di esaltare il califfo. Eppure il racconto biblico della casta Susanna è senz’altro narrativa d’investigazione, seppure involontaria. Condita anche con una buona dose di erotismo, che nelle detective fiction non guasta mai.

Il libro di Daniele fu scritto probabilmente nel secondo secolo avanti Cristo e narra vicende avvenute durante l’esilio degli ebrei a Babilonia, quattrocento anni prima. È dunque questa la prima detective fiction?

Ho il sospetto che i racconti di investigazione siano nati insieme alla scrittura, preceduti forse solo dalla letteratura erotica. Ci sarebbe magari da spulciare il Mahābhārata. È un’opera enorme, da qualche parte forse si riuscirebbe a trovare un detective vedico. E si riuscirebbe ad anticipare di un paio di secoli la Bibbia. E che dire dei geroglifici egiziani? Non mi sorprenderebbe se in qualche stele millenaria si narrasse di un faraone detective.

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