“La prima volta che lo vidi fu nel 1866, in una fredda e secca mattina di dicembre. Stava seduto su un masso, con i gomiti sulle ginocchia e le mani sulle guance, a guardare l’acqua spumeggiante del Torrente della Grazia scorrere gorgogliante verso sud. Era di spalle e indossava una giacca a quadri grigia, di una taglia più grande di lui. Mi sentì arrivare quando ancora ero lontano. Me ne accorsi perché con la manina batté sul masso, come per invitarmi a sedere accanto a lui. Percorsi con attenzione il sentiero in discesa, tra ciottoli ed erba bagnata, e mi sedetti al suo fianco. Quando si voltò per guardarmi mi regalò un sorriso triste. Non poteva avere più di otto anni e i suoi capelli rossi e riccioluti tradivano la sua origine non caltanissettese. Mi guardai intorno, convinto di scorgere un suo parente ma i miei occhi non videro altro che massi, acqua e il profilo grigio delle case a est.
«Ciao gioia, come ti chiami?», gli chiesi piegandomi verso di lui.
«Gaspare signore e vossia?»
«Onofrio. Ma puoi chiamarmi Zio Nonò.»
Fece un mezzo inchino e mi sorrise con i suoi denti bianchissimi.
«Sei solo?»
«Siamo tutti soli», disse alzando le spalle.
Non mi aspettavo una risposta del genere da un bambino.
Poi prese un ramo e lo immerse nel torrente muovendolo su e giù, lo sguardo perso in un punto indefinito tra il suo viso e l’acqua.
«Dove abiti?»
A questa domanda non rispose e da quel momento in poi fu come se la sua mente inseguisse un pensiero lontano, come se qualcosa o qualcuno a me invisibile stesse attingendo al cento per cento delle sue risorse. Per lui non esistetti più.”