Che cosa vuol dire lavorare come infermiere in rianimazione.
Andrea Leonelli propone poesie dal sapore non proprio classico né, tanto meno, usuale. I suoi versi risuonano di una pena che parte dal profondo dell’anima, per riversarsi sulla carta con lo stesso impatto che potrebbe provocare un martello pneumatico. E una ragione esiste, una motivazione che spiega il perché di tanto coinvolgimento emotivo.
Andrea Leonelli ha pubblicato con EEE La selezione colpevole, Consumando i giorni con sguardi diversi, Crepuscoli di luce
Possiamo dire che lavoriamo in trincea e che seriamente ci sporchiamo le mani (in senso figurato, poiché in sostanza viviamo con indosso i guanti). A volte si fa fatica a respirare, vuoi per uno stato emotivo, vuoi per le mascherine che ci proteggono da germi particolarmente aggressivi. Sì, perché il nostro stare in trincea ci espone a proiettili microscopici ma, a volte, ugualmente letali quanto quelli di piombo. Spesso ci troviamo ricoperti di strati d’indumenti protettivi e sudiamo anche i liquidi che non abbiamo. Vuol dire mettere le mani addosso alla gente, andare a toccarla “dentro” e, badate bene, non sto parlando di anima o di parti intime. Vuol dire avere in mano la possibilità di ridare il respiro a chi abbiamo davanti, steso e inerme. Vuol dire tornare a casa così stanchi da non riuscire a prendere sonno. E vi assicuro che, spesso, è davvero faticoso sia a livello fisico che mentale, oltre che emotivo. Facendo i turni, i ritmi circadiani perdono il loro flusso naturale. Mangi a orari inconsueti e in modo irregolare, a volte facendo colazione la sera e cenando quando per tutti gli altri è mattina. Dormi in orari non fisiologici andando a riposare, o almeno provandoci, quando la maggior parte delle persone, che hai intorno, si è appena svegliata.
Al lavoro, invece, bisogna avere i sensi in allerta per cogliere i primi segni di un cambiamento nei parametri di un paziente, capire perché e cosa sta accadendo in modo da poter intervenire tempestivamente. Bisogna fare questo prima che una variazione fisiologica non controllata porti a conseguenze che hanno rimedi più difficili da mettere in pratica o che, addirittura, non hanno alcun possibile rimedio.
Vuol dire poter fare, a volte, la differenza. Vuol dire poter vedere persone che sono appese alla vita, per un filo sottile, riuscire a sopravvivere.
Ma per alcuni pazienti che ce la fanno, quante volte paghiamo il prezzo dell’impotenza? Quante volte possiamo soltanto assistere a una vita che si spegne? O alle morti improvvise e fulminee, nonostante tu ci abbia messo professionalità, capacità, conoscenze, lavoro di squadra, sangue freddo e tanta anima?
Tante. Troppe volte, forse. Quante ripetute scene di dolore, protratto e colmo di lacrime, viviamo.
Quanti parenti da sostenere e guidare, quanti ne abbiamo “preparati”, per quanto sia possibile, alla dipartita annunciata e imminente di un marito, un fratello, a volte di un figlio. Quanti dolori abbiamo vissuto doppiamente: noi in prima persona e poi, di riflesso, supportando un congiunto in lacrime.
Vuol dire far finta di essere forte per sostenere il collega, che si commuove, o dover indossare la maschera del cinico per non farsi scalfire troppo a fondo da queste pene quotidiane.
Siamo tutti umani e certe tragedie, personali e sociali, un “buco” da qualche parte te lo lasciano.
Il nostro non sarà riconosciuto come un lavoro usurante ma, vi assicuro, lo è.
Ognuno di noi ha quello che io chiamo un “sacco dei dolori”, che ogni volta si riempie un po’. Quando è pieno, diventa pesante e allora sfoghi questo peso con qualcuno che hai vicino, per condividere un po’ il gravare del tuo “sacco” e, se a volte sei tu che ti scarichi, in altre occasioni è il tuo collega che ha bisogno di una mano per portare il suo fardello. Con i colleghi, con le persone con cui vivi, fianco a fianco tutti i giorni, tutte queste situazioni portano a far sì che si sviluppi un rapporto speciale. Sai che se hai bisogno ci sono. E se tu sei impegnato su un malato molto critico e non puoi allontanarti dal paziente più di due passi, loro si prenderanno cura dei malati a cui non puoi provvedere, senza che tu debba chiederlo. Siamo una squadra, a volte una squadra speciale. Sai che non ti lasceranno solo e, in un lavoro come il nostro, sapere di poter contare sugli altri diventa questione di vita o di morte.
Il nostro è un lavoro che ti logora piano, lentamente e in modo subdolo. Ti consuma. Arriva a scavare nel profondo e gli unici che possono realmente comprendere i tuoi stati d’animo sono i colleghi. Chi nella vita personale ha vicino persone che, anche se non appartenenti alla nostra stessa professione, riescono ad ascoltare e a essere di supporto, può dirsi fortunato.
Fare questo lavoro, inoltre, vuol dire ritardare ai pranzi e alle cene, anche nelle festività. O festeggiare a date variabili. Quelli di noi che fanno i turni non conoscono le ferie o i canonici periodi di pausa dati dal calendario. Si lavora a Natale, a Pasqua e a Capodanno. I nostri famigliari festeggiano spesso senza di noi. Magari arriviamo a casa giusto in tempo per il dolce o partiamo per il lavoro subito dopo aver mandato giù in fretta un piatto di pasta. E se questo capita a riguardo della famiglia, il resto della nostra vita sociale ne risente ancora di più. Viviamo, infatti, una socialità rarefatta e spesso gli amici si organizzano a prescindere dai nostri turni. Gradualmente ci allontaniamo da loro e loro da noi. Inevitabilmente, anche se con le dovute eccezioni
Lavorare in rianimazione è un bellissimo inferno per quello che ti può dare e per quello che ti resta dentro. Per quello che trovi e per quello che lasci.
Lavorare in rianimazione può cambiarti la vita. In molti modi diversi.
Andrea Leonelli
Sono con te caro collega, il nostro è un lavoro sicuramente usurante , sia a livello fisico che psicologico.
Tanto lavoro, tanti dolori ma anche tante soddisfazioni.
Avanti tutta collega e buon lavoro.
Certo Annamaria, sempre avanti, sperando di migliorare sia la situazione in cui lavoriamo sia noi stessi come persone.
buon lavoro anche a te.
Un abbraccio collega, il nostro lavoro è troppo bello ed importante per che facciano la differenza tra la vita e la morte e questo mi riempie l’anima
Ciao Angela. A volte facciamo la differenza, a volte non ci riusciamo. Tutto però sta nell’impegno che profondiamo ogni giorno nello svolgimento della nostra professione.
Buon lavoro.
Quanto è vero!!
E molto piacevole
Un vero inferno dove vorresti andare via ma vorresti ancora starci dentro sempre!!
Si Clara, hai ragione. In un certo periodo della mia vita il luogo di lavoro è stato un rifugio e un luogo in cui le attività da svolgere mi tenevano “in piedi”. Lavoro e scrittura mi hanno dato una spinta a rinascere.
Grazie per la bella e vera frase che hai condiviso con noi, credo che molti di noi siano concordi con te.
Un saluto
Solo chi si è avvicinato al vostro reparto può capire a pieno le tue parole. Grazie a tutti voi per la missione che portate avanti, solo persone speciali possono “lavorare” come lo fate voi.
Grazie Caterina. Personalmente non auguro a nessuno di avvicinarsi “per bisogno” al nostro reparto ma, chi ne ha bisogno, trova negli operatori del reparto, di qualsiasi ruolo essi siano, il massimo impegno teso a ristabilirne le migliori condizioni possibili. Ancora grazie per l’apprezzamento nei confronti del nostro operato.
Che dire … oltre ai complimenti posso solo aggiungere i ringraziamenti, da estendere a tutti i tuoi colleghi, per l’aiuto che date a tante persone in difficoltà.
Grazie mille Pino. Anche da parte dei miei colleghi!
Ciao splendida persona….il tuo collega Alberto
Ciao Alberto. Grazie per il tempo che hai dedicato alla lettura 🙂
Caro Andrea, ho “conosciuto” il reparto di terapia intensiva (postoperatoria nel mio caso) quando mia mamma è stata operata al cuore. Entrare lì dentro è stato uno shock a cui nessuno mi aveva preparato. Dopo qualche giorno mia mamma ha avuto un arresto CC e posso ora affermare che è stato lo spavento più grosso della mia vita, anche se lei grazie a persone come te che non hanno mollato, è riuscita a riprendersi.
Mia mamma è venuta a mancare a gennaio, spegnendosi piano piano in un hospice, e ti posso giurare che non ho sofferto tanto come vederla in terapia intensiva attaccata ad un respiratore, con il defibrillatore accanto.
Mi sono sempre chiesta come fate voi infermieri di quel reparto a sostenere tutto ciò, è veramente pesante, più che negli altri reparti. Ma immagino che salvare vite è una gioia immensa.
Grazie per le tue parole, ti auguro tanto tanto bene
Ciao Pamela, sono dispiaciuto per la tua mamma. Deve averne viste tanti. Passare da una rianimazione per il postoperatorio, dopo un intervento al cuore, non deve essere stata un’esperienza semplice né per lei né per voi. Conosco bene le espressioni dei parenti che vedono, per la prima volta, un proprio congiunto nel nostro reparto. Paura, preoccupazione, stupore e soprattutto tante domande. Spero tu abbia trovato qualcuno che, almeno agli interrogativi, abbia dato risposta calmando così le ansie più grandi. Come hai detto tu, lavorare da noi è pesante, ma ripaga con soddisfazioni grandi. Non credo sia più pesante di altri reparti ma certamente è un ambiente diverso per tipologia di pazienti e tipi di cure e metodiche adottate.
Grazie mille per la tua testimonianza.
Un abbraccio
Caro Andrea con il tuo racconto sei riuscito a far vivere quello che un professionista vive tutti i giorni, spesso dimentichiamo che i professionisti sono persone come noi e vivono le stesse emozioni anzi direi a volte anche più forti perché spesso sanno già come andranno a finire certe situazioni!siete degli angeli, io ho un enorme rispetto e stima per tutti voi!io lavoro nell’ambito delle donazioni ed immagino sempre ciò che vivete durante l osservazione del donatore OT , tanta responsabilità ed il successo della donazione è tutto merito vostro!grazie di tutto , siete persone fantastiche di cui tutta l umanità deve andare fiera!professionisti ma soprattutto persone in prima linea
Grazie mille per le tue parole Rosanna. Non so se si possa quantificare le difficoltà che si incontrano. So però per certo che almeno nella zona dove lavoro la cultura della donazione di organi è ancora, purtroppo, molto poco affermata. Quella della donazione, dal mio punto di vista, e a prescindere dalle difficoltà organizzative, gestionali e burocratiche sarebbe un’attività che dovrebbe essere incentivata, soprattutto a livello culturale in tutta la popolazione e malgrado tutte le campagne di sensibilizzazione che sono state fatte negli anni il messaggio ancora non è passato.
si tutte belle parole; ma provate a fare quche turno in una medicina generale , in una geriatria…..almeno voi potete ‘riempirvi la bocca’ dicendo che lavorate in Rianimazione! Chi invece lavora a contatto con tantissimi malati vecchi, anziani, allettati….può solo dire di fare l’infermiere. Quello vero, umile, nobile, silenzioso. Quello che non si fa piangere addosso.
Salve Corrado.
Io nutro il massimo rispetto per i colleghi che lavorano in qualsiasi reparto e in ogni realtà territoriale.
Dato che è da tempo che non lavoro più in medicina, pur avendoci passato i circa 7 anni successivi ai 2 anni e mezzo lavorati in SPDC (psichiatria per chi ci legge e non è un sanitario) e un anno in una casa di riposo per anziani, ho deciso di scrivere questo articolo basandomi su ciò che, almeno al momento, conosco meglio. Ricordo quel mio passato come esperienze e ricordo bene anche i colleghi con cui ho lavorato, tutti con affetto, però al momento non ho troppa dimestichezza con la realtà dei reparti che lei nomina se non quella dovuta ai limitati passaggi che facciamo in tali unità operative per andare a prendere vene difficoltose, posizionare sondini e altre amenità per le quali veniamo chiamati. La invito quindi a fare come ho fatto io e a scrivere un articolo sulla sua realtà e sulle sue sensazioni. Su quello che prova lei al lavoro.
Inoltre non credo che un infermiere si distingua dal reparto in cui lavora ma dalla professionalità con cui opera, in qualsiasi unità operativa, con coscienza, capacità e con il fine ultimo di ristabilire e promuovere la salute dei pazienti.
Sinceramente non immagino perché lei pensi che un reparto anziché un altro distingua un operatore dall’altro. Siamo tutti Infermieri.
Saluti.
Quante storie potreste raccontare ancora? Fatti di una umanità nascosta che sembra non possa più esistere in questa azienda, così chiamata, dove tutto sembra solo contabilizzato! Essere squadra nei momenti tragici diventa ancora più importante e magico. Esserlo su tutto il territorio,della nostra Regione, significa salvare vite umane in tempo, in periferia come in centri abitati. Anche noi chiediamo che il buon senso umano prevalga sui numeri e sulle finanze! Buon lavoro ragazzi e grazie per ciò che rappresentate
Esperienze particolari ce ne capitano come ne capitano certamente in molti altri posti di lavoro. La sanità purtroppo è un servizio costoso e l’aziendalizzazione serve, in linea teorica a razionalizzare le spese. Poi, su come questa razionalizzazione viene messa in atto potremmo discuterne in eterno, ma credo che sia un male inevitabile. Non so se esista un modello operativo ideale per i mali della sanità. So soltanto che si parla sempre di malasanità per degli eclatanti, ma sporadici casi che avvengono mentre si passano sotto silenzio quasi tutti i successi, talvolta miracolosi, che il servizio sanitario riesce ad ottenere. Sul lavoro di squadra e della sua importanza ho accennato nell’articolo. Non so se è magia, ma so che l’organizzazione conta. E l’armonia fra gli operatori sarebbe uno degli obbiettivi da raggiungere per ottenere risultati d’eccellenza.
Assicuro che è tutto vero!!! Complimenti per come hai messo su carta le nostre esperienze!
Grazie Romina per aver confermato la veridicità delle mie parole e grazie mille anche per i complimenti.
Concordo con tutto ciò che hai narrato, sono Rocco un infermiere di rianimazione e le tue parole mi emozionano a pieno perché come te vivo il senso vero della professione in utir.verissimo noi lavoriamo nel silenzio della sofferenza, quella che si percepisce col tatto, lo facciamo con naturalezza e con coscienza consapevoli di ciò che facciamo di come lo facciamo e del “tipo” di PZ che abbiamo di fronte.spero di non esser stato molto retorico,ma indipendentemente dal pensiero altrui,sono felice di ascoltare colleghi che provano le mie stesse emozioni in corsia.un abbraccio
Buonasera Rocco. Sono felice di averti comunicato le mie emozioni, le stesse che anche tu provi nel lavoro. Spesso il silenzio è più significativo di parole che sanno tanto di retorica e del “detto per dovere”. Forse bisognerebbe semplicemente parlarne di più fra noi delle sensazioni che proviamo. Penso sarebbe illuminante e, in un certo qual modo, liberatorio.
…e dopo le settimane trascorse in rianimazione, e dopo i mesi di riabilitazione torni a casa e provi a ricominciare. E dopo qualche anno uno di voi, un angelo di voi, suona alla porta della mia ripresa attività, e mi chiede se mi ricordo di lui. Ovviamente no, non ricordo nessuno di voi, di loro. Adesso siamo amici e appena possibile ci vediamo, per parlare un po’ di tutto, ma molto spesso di rianimazione. Grazie a tutti voi. Grazie Manuel Ravanelli
Ciao Tony. Succede spessissimo che i pazienti che tornano a trovarci ci dicano che ricordano poco o niente del periodo in cui sono stati ricoverati. Grazie a te e sono molto felice che tu abbia ripreso la tua attività. I miei migliori in bocca al lupo!
Sono pieno di amare conclusioni perché: nonostante le molteplici attività svolte, la peculiarità del contenuto lavorativo, il sudore fisico e psicologico ed il fare silenzioso, abbiamo ottenuto scarsi riconoscimenti, mai richiesti, perché ci hanno sempre detto che la nostra è una “missione”…. anzi l’intellettualitá professionale mista al lavoro di operatore socio sanitario è ancora più confusa. Ah…. scusa dimenticavo:sono un infermiere e lavoro da vent’anni in Rianimazione. E non ditemi che sono ormai “cotto”!
Caro Giuseppe, concordo con te che la storia delle missione ci ha frenato per anni dal raggiungere traguardo e obbiettivi che abbiano il giusto prestigio che ormai la nostra PROFESSIONE merita. Su quel che abbiamo ottenuto soprassiedo, lo sappiamo e credo che tutti noi si senta l’amaro in bocca. Complimenti per i venti anni di Rianimazione, è un bel traguardo.
Avrò iniziato a scrivere il commento a questo bellissimo articolo almeno quattro volte. Non riuscivo ad essere convinta di poter aggiungere qualcosa. Forse non lo sono ancora, e in realtà non penso di poter dire altro se non che questi argomenti toccano le corde del cuore, quelle più fragili. Devo dire che Andrea, con le sue testimonianze vere e altrettanto forti mi ha spinta a riflettere. Una cosa è certa: il dolore segna, e viverlo porta sempre a qualcosa, ognuno lo sente dentro di sé in maniera diversa, intima quasi viscerale. Ho sempre pensato a quanto potesse essere complicato per chi fa questo mestiere, dire “certe cose” a chi ha perso le speranze, e purtroppo insieme a queste un proprio caro. “Dare notizie” che hanno il sapore della fine di tutto, sull’ago della bilancia, ha senz’altro un peso tremendo. Le riflessioni di Leonelli racchiudono il significato di una professione che merita tutto il rispetto del mondo. Credo che nel momento in cui un uomo riesca a trovare la forza di dedicare anima e corpo agli altri, possa raccontarci e insegnarci molto. Questo scritto lo fa, in punta di piedi, attraverso una strada dura come quella dell’ infermiere che lavora in reparto rianimazione. Il loro pensiero va a chi ha paura, a chi è dall’altra parte che aspetta da ore, magari solo, nel suo silenzio apparente, senza sapere più cosa fare; come fare a comunicare con chi resta seduto su una sedia, a non contare neanche più il tempo, con lo sguardo perso nel vuoto a fissare un pavimento tirato a lucido. A un certo punto si sentono i passi, quelli di una persona, col camice e un lato umano grande come una casa, che si avvicina cercando il tuo sguardo abbassando il suo, appoggiando un braccio sulla tua spalla per farti coraggio, sussurrando parole di conforto così piano da non disturbare l’immensa e a volte inspiegabile fine di tutto quanto.
Ciao Marina. Il dolore segna parecchio. So che tu hai avuto modo di leggere la mia raccolta “La selezione colpevole” e quindi sai come sia piena del dolore nelle sue molteplici forme. Ma non si deve cedere e si deve trovare il modo di andare avanti. Non ci si può permettere di buttare via tutto quello che in prima persona si è investito nella propria vita. Conoscenze ed esperienze, a mio parere vanno raccontate e condivise in modo che più persone possibile siano consapevoli di quello che ci accade intorno. Andare a portare certe notizie è veramente un’esperienza difficile. Trovarsi di fronte alle reazioni scatenate su chi le riceve è altrettanto duro anche perché non sempre è facilmente prevedibile e si va sempre sia impreparati che disarmati. Spesso si possono solo dire poche frasi banali. Altre volte è meglio il silenzio e la semplice presenza.
È vero Andrea il dolore assume forme molteplici, ma non bisogna mollare. La vita ci riserva spesso momenti difficili, è altrettanto vero che in diverse occasioni ci da anche la possibilità di superarli.
Dolore, per me, è tutto ciò che ti priva della serenità. Non solo il dolore fisico, ma anche preoccupazione, solitudine o paura.
Le seconde occasioni, rarissime, vanno sempre colte e sfruttate al meglio.
Bravo Andrea ottima descrizione del nostro lavoro. Lavoro in rianimazione da oltre 15 anni e mantengo il ricordo di tutti i pazienti critici (i giovani o anche i tuoi colleghi in modo particolare) che ti hanno “graffiato” l’anima perché dopo che hai speso tutte le energie per tenerle in vita non c’è l’hanno fatta. E noi in trincea a farci carico del fardello dei rapporti umani e coi parenti cercando di spendere per loro una parola buona quando hai le lacrime agli occhi non è semplice. Ma è sicuramente una palestra che ti fa apprezzare la vita ogni giorno come un’esperienza grande unica ed irripetibile dove ogni malato ti trasferisce una parte di sé e anche solo con gli occhi guardandoti supplica:”non mi abbandonare”. Ma c’è pure la gioia di vedere tornare a farti visita di persone che qualche settimana prima erano stese nel letto intimato e ventilate con decine di pompe infusionali magari emofiltrati e dove anche i medici hanno abbandonato ogni speranza. Che miracolo la vita.
Buongiorno Pier Paolo. Da quello che dici si legge chiaramente che queste sensazioni le conosci bene anche tu. E la parte sui pazienti che tornano a trovarti, sui miracoli che a volte succedono a prescindere da noi e dal nostro lavoro, ti danno emozioni impagabili. Per questo, e per quelli che non ce la fanno a prescindere dall’anima che ci hai messo per farli “restare fra noi”, ho definito la Rianimazione come un “bellissimo inferno”. I “non mi abbandonare” che ti vengono detti con gli occhi, sono attimi che veramente ti toccano l’anima. Si percepisce la disperazione di chi, naufrago in se stesso, si aggrappa a te come fossi l’unica persona che lo possa aiutare. Impossibile tirarsi indietro.
Io non sono un collega , molto di più:sono una paziente che ha avuto la FORTUNA di vivere la rianimazione per 3 mesi in uno stato di completa coscienza. Gli infermieri che mi hanno conosciuto sanno quanto grande sia la gratitudine che ho per voi e per la vs categoria ! Grazie di esistere ! E non dite mai ai vs figli che non devono fare la vs fine , ma che conviene loro fare altri lavori….!!!!
Salve Valentina. Anche io sono stato “dall’altra parte del letto”, ma non in Rianimazione, in UTIC. Per cui son anche cosa voglia dire “essere nelle mani degli infermieri”. L’esperienza è stata positiva anche in questo caso, nella criticità del caso. Grazie mille per quello che dice sulla nostra categoria. Le assicuro che tutti noi lo apprezziamo molto. Io credo che lascerò i miei figli, pur guidandoli, a scegliersi da soli la loro strada. Certo è che parlerò sicuramente loro riguardo a quello che significa fare il mio lavoro.
Favoloso, grazie x aver scritto tutta la verità
Grazie Ester. Sono felice che tu abbia gradito l’articolo e che, evidentemente, ti sia riconosciuta in questi miei pensieri.
Andrea sei un grande!
Grazie mille Silvia per il complimento. Ma non mi sento particolarmente grande, mi sento solo una persona aperta al confronto con gli altri.
Seguo il vostro blog con interesse ormai da qualche mese. Trovo che siano davvero interessanti questi interventi, se non altro si ha la sensazione di capire meglio gli autori o, come in questo caso, il poeta.
Siamo lieti che tu ci segua. Vedrai in questo periodo gli approfondimenti su chi siano gli autori della Casa Editrice Edizioni Esordienti Ebook. Consigliamo a tutti di seguirci e di scoprire chi sono le persone dietro ai libri. Non solo autori, ma persone reali con molte cose da dire, e non solo con libri da scrivere.
anch’io sono un’infermiera. Tutto quello che dici è vero. Tutto quello che provi è indispensabile ad un certo punto, quando tutto questo non c’è più sei finito, perduto. Perchè quando qualcosa funziona è anche un pochino merito tuo. E questo diventa indispensabile….. nonostante tutto, malgrado tutto, a qualunque costo, e quando perdi tutto ciò non puoi fartene una ragione…. Tutto, piuttosto che morire (professionalmente) davanti a un telefono…….
Salve collega. La disumanizzazione degli operatori può essere considerata “difensiva” fino a un certo punto. Quando si perde totalmente l’empatia si lavora a “metà”. Non è detto che si lavori male, ma si perdono alcune sfumature dei rapporti di cura. Non sto a parlare troppo del nostro ruolo nella sanità anche se spesso quello che facciamo durante ogni turno non viene visto o capito ne dall’utenza ne dai parenti e spesso nemmeno dagli altri operatori. La burocrazia, per concludere, uccide in molti modi.
Faccio il turno della notte con il taxi.capisco e condivido tutto quello che c’è scritto in questo articolo,solo chi fa i turni può capire quanto sia usurante lavorare in mezzo a tanti pericoli.germi o criminali pari sono.confortare i genitori durante il trasporto a un pronto soccorso di un bambino.ecc.ecc.
Vero Salvo, spesso il pericolo assume forme diverse, ma il rischio è sempre rischio. Inoltre i rapporti familiari e di amicizia di chi fa i turni spesso assumono valenze diverse rispetto a quelli di chi lavora di giorno, Per molteplici motivi.