Il Pescatore presentato in Barlassina

Il Pescatore presentato in Barlassina

Venerdì 10 febbraio, presso la Sala Riunioni “E Longoni” di Barlassina, via Milano 49, Pietro Ludovico Prever ha presentato il suo libro, Il Pescatore, in occasione della ricorrenza della Giornata del Ricordo istituita il 30 marzo 2004 con legge dello Stato per ricordare che tra il 1943 e il 1947, circa 400.000 abitanti della Venezia Giulia, dell’Istria, delle isole e di Zara, dovettero abbandonare le loro case per sfuggire alla guerra e alle foibe.

Ecco, dunque, il testo della sua presentazione

Da Zara a Barlassina, storia di Marcella

di Pietro Ludovico Prever

Buona sera amici, voglio ringraziarvi di essere qua, e ringraziare il sig. Galli sindaco di Barlassina che mi ha dato la possibilità di presentare il mio lavoro e la sig.ra Visconti che mi ha dato un aiuto  prezioso.

Siamo qui per tre motivi:

perché oggi è la  Giornata del Ricordo, istituita il 30 marzo 2004 con legge dello Stato per ricordare che tra il 1943 e il 1947, circa 400.000 abitanti della Venezia Giulia, dell’Istria, delle isole e di Zara, dovettero abbandonare le loro case per sfuggire alla guerra e alle foibe;

perché Marcella era una profuga di Zara;

e  perché Il Pescatore  è la sua storia, che si apre con questa domanda: “Io non so perché sono nato a Barlassina”.

Una domanda che  potrà sembrare strana a colui che  vive nel territorio dove  è  nato e dove condivide con altri  dialetto,  cibo, case,  giorni di festa e abitudini, dove ha le sue radici e per questo non ne sente il bisogno; una domanda che invece  troverà  meno strana chi  essendo obbligato a vivere “altrove” per ragioni di lavoro o di studio, è più sensibile al richiamo della  terra di origine, mentre  sarà del tutto normale  per chi,  persa la terra e la casa, ha perso anche ogni traccia del percorso che lo ha portato dove vive,  che per lui   è un semplice dato anagrafico.

Domanda che è sorta  nella mia mente  quando mi sono trovato tra le mani la  lettera con cui nonno Martino nel descrivere la sua condizione di rifugiato, racconta delle vicende che nel lontano 1923 lo avevano  obbligato ad abbandonare  casa,  lavoro, parenti ed  amici per riparare con  moglie e  figli a Mola di Bari, sua città di origine.

È stato così, per trovare una risposta, che ho incominciato a scrivere, ma quello che vorrei trasmettervi in questa breve premessa, è il vuoto davanti al quale  mi sono trovato quando mi sono posto quella domanda, perché in quello stesso momento scoprivo che  in realtà non sapevo nulla, né del luogo dal quale nonno Martino era partito, né di quello dove era arrivato, né dove, come e quando fosse finito; sapevo solo che la nonna era incinta di Marcella (che infatti nascerà a Bari), mentre l’intestazione della lettera che avevo in mano,  “Sebenico 1923”,  invece di aiutarmi faceva nascere  un dubbio, perché  in contrasto con il poco che credevo di sapere, cioè che avevano abitato non a Sebenico, ma a Spalato dove sono nati i fratelli e le sorelle di Marcella, mentre dal testo è evidente che  la lettera fu scritta a Bari.

Un senso di vuoto e di buio che credo solo una guerra possa creare, ingoiando  persone, ricordi, case e affetti.

Se parlare di una guerra conclusa 70 anni fa vi sembra roba vecchia, permettete che vi apra una breve parentesi:

Srebrenica è una cittadina della Bosnia Erzegovina  a circa tre ore di volo da Milano.

A Srebrenica durante la guerra Serbo – Bosniaca, tra il 6 e il 25  luglio del 1995, soldati serbo – bosniaci  raccolsero tra 8 e 10 mila maschi musulmani di età  compresa tra i 14 e i 78 anni e li uccisero  uno ad uno  buttandoli in fosse comuni.

Sembra incredibile, ma quei civili erano confluiti a Srebrenica perché dichiarato luogo  protetto. E in effetti c’erano 600 Caschi Blu dell’ONU e tre Compagnie Olandesi, che per non vedere, però,  girarono la testa dall’altra parte.

Chissà quando verrà istituita una Giornata del Ricordo per quei sopravvissuti che oggi si chiedono “Io non so perché hanno trucidato mio fratello, mio padre, mio marito, mio figlio, il mio amico”?

Ho accennato  a questo fatto non per far colpo su di voi, ma  perché tutti credevamo che dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, episodi del genere non sarebbero mai più accaduti, almeno in Europa.

E invece è accaduto di nuovo  dietro l’angolo, a circa tre ore di volo da Milano.

Tornando a noi, credo che sia stata l’ansia di  mettere qualcosa nel vuoto aperto da quella domanda che mi ha dato la spinta a scrivere, un’ansia che, però, via via che scrivevo seguendo la traccia dei ricordi e dei pochi documenti ritrovati, invece di diminuire cresceva con la consapevolezza che la tragedia che ha sconvolto la vita di Marcella  era stata, allora come oggi, comune a  migliaia di persone.

La storia di Marcella si svolge tra due luoghi e due date, Sebenico, 24 marzo 1923, data della lettera di nonno Martino, e Zara 1981, quando un vecchio pescatore davanti ai miei occhi, lanciava nella notte una lenza nel mare nero come la pece, riaprendo una finestra nella storia che credevo  chiusa.

In mezzo a queste due date si apre e si chiude la storia di Marcella, costretta da una guerra folle, quando erano passati appena poco più di vent’anni dalla precedente partenza di nonno Martino, a una nuova partenza, a un nuovo viaggio pieno di incognite e di pericoli.

Ho detto partenza, ma in realtà, quella che descrivo fu una fuga, perché Marcella e Tommaso partirono da Cattaro di notte, travestiti da contadini croati portando con sé solo quello che avevano  addosso per un viaggio attraverso l’interno della Jugoslavia in mezzo a gente che aveva tutto il diritto di considerarli nemici, perché non dobbiamo mai dimenticarlo, siamo stati noi italiani a dichiarare la guerra, e perché lo stesso Tommaso era un soldato di quell’esercito che aveva occupato il loro paese portandogli  morte e distruzione.

Un cammino  verso l’ignoto, più di mille chilometri fino alla frontiera del Tarvisio, che però non finirà  con il loro arrivo in Italia, perché il Bel Paese era  occupato dall’esercito tedesco che si ritirava verso nord spinto dalla pressione dell’esercito Alleato che sotto guida  americana, dalla Sicilia risaliva la penisola.

Un cammino che sarebbe  incredibile  se non fosse documentato da appunti, biglietti, e poi come vedremo tra poco, da un altro libro, compiuto da uomini che fuggivano da altri uomini, come tante volte è avvenuto nel passato, e come purtroppo  accade ancora oggi sotto ai nostri occhi.

Ricostruendo questo percorso troverò una risposta alla mia domanda iniziale, “io non so perché sono nato a Barlassina”, risposta che sarà per me una sorpresa, tuttavia la storia  continua perché non finisce  il dramma dei  dalmati e degli istriani rimasti nelle loro case   che saranno costretti ad abbandonare per rientrare nei confini della neonata Repubblica, dove realizzeranno il paradosso di essere considerati croati dagli italiani e italiani dai croati, un dramma sepolto per decenni e che solo da poco è emerso dalla nebbia dell’indifferenza.

Pochissimi sanno, per esempio,  che per ospitare i circa 400.000 profughi  che fuggirono  dall’Istria, dalla Dalmazia e da  Zara, furono allestiti nella penisola 109 campi profughi.

Il Pescatore non è né un saggio storico, né un romanzo: è una storia vera, un viaggio nella memoria, la testimonianza della vita di una donna obbligata a lottare con tutte le sue forze per conquistare la sua  libertà, salvare la figlia che le era rimasta, e legittimare il suo diritto di esistere come Italiana e  come Dalmata.

Narra eventi drammatici come quando Marcella  da poco sfollata a Calci, sull’Appennino Pisano, fu costretta dalla guerra a ripartire di nuovo portando con sé Donatella, la figlia morta alla ricerca di una sepoltura,  come a noi racconterà con queste semplici parole:

 “(1944) partimmo da Calci con Ottavia viva e Donatella chiusa in una cassettina, così stette con  noi ancora un po’ e a chi mi chiedeva cosa avessi lì dentro, rispondevo, mia figlia…”

Credo non vi siano dubbi che in queste poche parole c’è  tutto il dramma che può causare la guerra a una madre ferita in ciò che ha di più prezioso, parole testimoniate  da  monsignor Lino Lombardi, Preposto e Vicario Foraneo di Barga, che da quanto ho accertato, sarebbe il nostro Arciprete, il quale nel suo libro, trovato  quasi per caso e che conservo come una reliquia, dal titolo “Barga sulla Linea Gotica”, racconta del suo incontro con Marcella e Tommaso:

“Il giorno 21 agosto fui invitato a recarmi presso il dottor Prever addetto all’Ospedale della Croce Rossa con il domicilio presso il signor Giuseppe Castelvecchi. Mentre lo ritenevo tedesco era invece italiano. Mi mise al corrente di una storia dolorosa. Sfollato a Calci nei Monti Pisani, il 1 agosto la sua signora dava alla luce due gemelle. Il giorno 3  egli veniva rastrellato, ma essendo medico fu tenuto a disposizione e trasferito con la moglie in quelle condizioni a Nozzano.

 Non valsero le premure a far desistere i tedeschi dal trasferirlo. Il giorno 20 agosto ebbe l’ordine di raggiungere Barga essendo assegnato all’ospedale della Croce Rossa. Il giorno stabilito era l’indomani, 21.

Contemporaneamente all’ordine gli moriva una gemellina, Donatella. Fu chiesta una  dilazione per seppellire la piccola: niente!

 E il dott. Prever con la sua signora, venne a Barga e con i bagagli portò la cassina con la creaturina morta”

Ma Il Pescatore non è solo la storia di Marcella, è l’incontro con Stefano, profugo della rivoluzione ungherese del 1956 che gli portò via madre e padre, è  il ricordo di un Papa che agli occhi di chi viveva al di là della Cortina di Ferro che divideva in due l’Europa, apparve eletto come un Liberatore e infatti contribuì a liberarli, è il ricordo  dei  ragazzi morti nel tentativo di oltrepassare il Muro di Berlino alla ricerca di una libertà che oggi troppe volte viene data per scontata, è contro tutte le frontiere, è, infine e soprattutto,  l’incontro con Il  Pescatore in carne ed ossa, uno che parlava  il croato come  Marcella  e  l’italiano come me, incontrato  quando,  in una sera qualsiasi dopo 35 anni  dal 1945,  capito per caso sul molo di Zara.

Non credo nel destino e nel fato, ma credo che fatti ed eventi siano sempre la conseguenza di qualcosa.

Per questo penso che un simile incontro sia avvenuto perché evidentemente, dopo 35 anni, a Zara  c’erano ancora vittime della guerra.

Non potrò mai dimenticare  le ultime parole di quell’uomo, quando con un gesto  che lì per lì mi sembrò retorico perché pur essendo lì  non avevo  capito niente, prese nelle sue le mani di Marcella e disse:

“Buona sera mia signora, non ne vedaremo mai più, ma la se ricorda de mi per favore”.

Mi strinse la mano, si voltò e scomparve nel buio.

Mi aveva  stretto la mano una vittima in carne ed ossa dell’altra parte della  guerra.

Ancora oggi faccio fatica a credere di essere stato davvero lì in quell’incontro incredibile, davanti a  un testimone croato bilingue della tragedia scatenata dalla follia della guerra. E dico croato bilingue non a caso, perché è la prova che le due comunità esistevano e convivevano.

Per il timore di perdere il ricordo di quell’incontro, ne scrissi in un appunto che è rimasto lì per anni ad aspettare la storia di Marcella, dove finalmente ha  trovato il suo posto così importante da dare  il nome a tutto il lavoro.

Ecco, se lo leggerete  mi piacerebbe sapere se siete d’accordo sul titolo, perché a me è sembrato l’unico modo per rendere omaggio a un uomo  al quale,  prima la guerra, e poi un regime, negandogli di essere ciò che era, gli hanno negato il diritto di essere un uomo.

Perché se Marcella ce l’ha fatta, anche se è rimasta segnata per tutta la vita dalla sua storia, il Pescatore no, con il suo abito grigio era un’ombra che cammina.

Credo che sia stato l’incontro con il Pescatore a cambiare molte cose, tra cui il mio modo di vedere e di pensare la storia.

Questo vorrebbe essere il senso del Pescatore: come è accaduto a me, provocare riflessioni e confronti su quei fatti, andando oltre questa ricorrenza, contro tutte le dittature vecchie e nuove, contro tutte le violenze, contro tutte le foibe, contro l’uso delle armi, perché le guerre non sono mai una soluzione, perché sono solo morte e disperazione.

Perché anche se tutti siamo d’accordo che le guerre le violenze e le persecuzioni sono cose brutte, esse ci circondano così tanto nella vita quotidiana, che non ci stupiamo molto quando poi accadono, come abbiamo dimenticato Srebrenica, e come nessuno parla dell’Ucraina altra guerra attuale, vicina e dimenticata.

Perché mi ha fatto riscoprire Barlassina che ci  ha accolti in uno dei momenti più difficili della vita senza fare domande, quando  sarebbe stato fin troppo facile farne, e mi ha accolto anche oggi, qui  a raccontarvi questa storia.

Grazie.