Un classico è per sempre? Sì, ma…

Un classico è per sempre? Sì, ma…

di Irma Panova Maino

Un classico è per sempre. Il motto, buono per ogni stagione e in ogni accezione – si può applicare ad automobili, a vestiti, a cibi – è tornato, fortuna nostra, a griffare l’editoria nostrana. In tempi di vacche magre narrative – scrivono in troppi, troppi libri inutili – gli editori si danno all’usato sicuro, il ‘classico’, appunto, smaltandolo con nuova traduzione.

Questa affermazione è tratta da un articolo de Linkiesta.it, noto magazine online. Vuole essere provocatoria, sarcastica, ironica? Probabilmente no. In ogni caso, la pubblicazione dei classici della letteratura è una pratica assai comune ed è diventato il mezzo più comodo per assicurarsi un determinato introito, anche a discapito della letteratura moderna e del normale evolversi del panorama culturale nostrano.

Se da una parte è pur vero che il self publishing ha permesso a chiunque la pubblicazione e ha ridotto notevolmente la qualità dei libri posti in circolazione, dall’altra è anche vero che molti autori hanno potuto presentare al pubblico opere di qualità, senza passare attraverso i meccanismi stritolanti di un’editoria spesso truffaldina.

Puntare il dito solo sugli autori, oppure solo sugli editori, sarebbe comunque sbagliato, così come sarebbe inesatto pensare che la differenza la possa fare solo la grande editoria nostrana. Dal momento che è il nostro panorama culturale che ci interessa, il concorso di colpa, prodotto da atteggiamenti “sbagliati” di tutte e tre le categorie (autori, piccoli e medi editori, nonché grandi poli editoriali), ha creato una situazione stagnante ed allarmante.

Le poche menti illuminate, che ancora investono onestamente in scrittori esordienti ed emergenti, sono gli inconsapevoli baluardi di una cultura che potrebbe svanire, fagocitata da “classici” provenienti da altri tempi, da altri paesi e da radici culturali lontane anni luce dalla nostra quotidianità. Per carità, niente da ridire su Boris Pasternak o Marcel Proust ma, considerando la società e il momento storico in cui viviamo, come possono questi autori, peraltro defunti da tempo immemore (pace all’anima loro), rispecchiare sentimenti e idee appartenenti a questo secolo e al nostro modo di vivere?

I “piccoli” esordienti ed emergenti italiani sono i veri testimoni di un’epoca che appartiene a tutti noi, Sono i portatori di un verbo che è il nostro e ci calza addosso con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. I modi di dire, gli strafalcioni, persino gli intercalari dialettici, fanno parte di noi, del nostro bagaglio culturale e di tutto quello che abbiamo ereditato, nel bene e nel male, da altri che, prima di noi, hanno vissuto le gioie e i dolori del loro tempo.

Certo, sarebbe auspicabile una maggiore cura nella stesura dei testi, un editing fatto con cognizione di causa, l’appoggio di un editore che sappia fare il suo mestiere… ma tutto questo, alla fine, nulla toglie al ruolo indispensabile che rivestono gli autori del nostro tempo.

Purtroppo, la legge del mercato prevede comunque un bilancio a fine anno, stipendi da pagare, bollette da evadere, altri oneri di vario genere e, con quello che resta, un budget da investire per l’anno successivo. Questo pregiudica, per molti editori, la possibilità di credere nel “nuovo”, di puntare su cavalli che potrebbero non sembrare vincenti e che, senza la dovuta cura, hanno più l’aspetto del ronzino piuttosto che del purosangue da corsa.

Allora, lunga vita a tutte quelle Case Editrici che ancora credono nelle possibilità offerte dagli scrittori italiani, noti o sconosciuti che siano, che accolgono in catalogo titoli che, forse, un domani risplenderanno nel pantheon dei classici, e che tengono alta la bandiera di una cultura che ha ancora molto da offrire, nonostante tutti gli scetticismi e le polemiche.

In un mio futuro più roseo, negli scaffali di librerie virtuali e fisiche si potranno trovare, con pari diritto e dignità, sia opere prodotte da scrittori autorevoli sia libri scritti dai nuovi pionieri della letteratura.