Informazione digitale, continua la crescita negli Usa

Informazione digitale, continua la crescita negli Usa

di Camilla Pelizzoli

Confermando la tendenza dello scorso annosempre più statunitensi cercano e consultano le notizie attraverso i social network. Tuttavia l’aumento, leggero in termini di popolazione generale, è portato dalla crescita notevole di alcuni segmenti in particolare della popolazione, come sottolineato dai dati rilevati dal Pew Reasearch Center.

Infatti si è sì passati dal 62% al 67% degli adulti americani che leggono notizie sui social (e di questi lo fanno «spesso» il 20%), ma le persone di più di 50 anni sono passate dal 45% al 55%; le persone non caucasiche dal 64% al 74%; e aumentano anche le persone senza un titolo di studio superiore, passando dal 60% al 69%. Una crescita importante, che da una parte sottolinea probabilmente un aumento di consapevolezza e di utilizzo da parte degli ultra-cinquantenni, dall’altra una possibilità, per categorie che spesso fanno parte di un discorso «minoritario», di seguire canali d’informazione non mainstream che riportano accadimenti e fatti magari ignorati dai player tradizionali, oppure inseriti in una «narrativa» in cui il fruitore non si rispecchia.

Social media news user profiles
I vari social differiscono profondamente, inoltre, nelle percentuali di utenti che li usano anche per informarsi. Se la palma d’oro degli «utenti informati» va a Twitter, utilizzato dal 75% dei suoi utenti per informarsi, vero è che in realtà questa alta percentuale non conta molto nel momento in cui si confrontano le dimensioni di questo social con gli altri; solo il 15% degli americani adulti utilizza Twitter (ovvero, sul totale degli statunitensi «solo» l’11% usa Twitter per informarsi). Certo, con la presidenza Trump questi numeri sono aumentati; tra gli utenti già registrati, la percentuale di chi usa il social per informarsi è cresciuta del 15%. Ma non sarà la passione del Presidente per i 140 caratteri a portare nuovi utenti a cinguettare.

Facebook, al contrario, ha percentuali leggermente più basse di lettori di news (il 68% dei propri utenti; +2% rispetto al 2016), ma grazie all’effettivo numero di utenti iscritti è in realtà il maggior canale di informazioni per gli utenti americani: il 66% degli adulti statunitensi è iscritto a Facebook, il che si traduce in un 45% che lo usa per informarsi. Ovvero, quasi la metà della popolazione americana si affida a Facebook, insieme ad altre fonti.

Twitter, YouTube and Snapchat have grown since 2016 in portion of users who get news on each site Social media sites as pathways to news

I social in cui si è rilevata una maggior percentuale di crescita tra gli utenti che cercano notizie sono stati, oltre a Twitter, YouTube e Snapchat. Per quanto riguarda il primo, gli «spettatori» che lo usano per informarsi sono aumentati dell’11%; rappresentano il 18% della popolazione, il che fa di YouTube il secondo canale informativo tra i social per dimensioni. Un aspetto che il social ha accolto e sviluppato, aggiungendo nella homepage la sezione Breaking News e avviando YouTube TV.
Snapchat ha visto un aumento del 12% (dal 17% al 29%); il che significa il 5% degli statunitensi lo usa per informarsi. Una crescita dovuta anche alle partnership con alcuni canali d’informazione tradizionali, come la CNN e il «New York Times», che sono entrati a far parte della sezione Discover dell’app.

Ovviamente questo utilizzo dei social non vuole dire, però, che non ci siano delle sovrapposizioni nella dieta informativa degli utenti, sia tra le diverse piattaforme, sia con i media tradizionali. Il 26% degli americani consulta le notizie su più di un social network; il 18% continua a rifornirsi in edicola e a leggere giornali; il 25% si informa ascoltando la radio e il 37% lo fa guardando la TV in chiaro.

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Notitiae quae non erant

Notitiae quae non erant

I romani non sparsero del sale su Cartagine, Archimede non salvò Siracusa con un sistema di specchi, e altre storie del mondo antico che citiamo a sproposito

Anche se a volte non lo sappiamo, diverse espressioni e modi di dire che usiamo oggi sono legate a episodi della storia romana o greca. Ma molti di questi in origine avevano un significato diverso, oppure sono legati a fatti di dubbia storicità: “mettere la mano sul fuoco”, ad esempio, non si riferisce a un episodio in cui qualcuno si dice sicuro di qualcosa. Non possiamo dare per certo nemmeno il famoso “tu quoque” (anzi), mentre siamo piuttosto sicuri del fatto che i romani non abbiano sparso del sale su Cartagine dopo averla distrutta, e che Archimede non salvò Siracusa da un assedio con l’aiuto di alcuni specchi.

Le statue greche e romane non erano bianche
Nonostante ora le vediamo così, in origine erano pitturate con colori anche piuttosto sgargianti: alcuni esemplari, come le sculture di un tempio dell’isola greca di Egina, hanno anche conservato delle tracce di colore ben visibili ai raggi ultravioletti. L’equivoco nasce dal fatto che le statue sono state ritrovate centinaia di anni dopo la loro produzione, quando la pittura era ormai svanita: i lavori degli scultori rinascimentali e neoclassici – non pitturati, così come le statue romane che avevano davanti a loro – hanno contribuito a rafforzare la falsa convinzione che anche gli originali fossero bianchi.

Archimede e gli specchi ustori
Film, aneddoti e storielle sull’antichità hanno raccontato più volte che nel 212 a.C. il matematico Archimede riuscì a difendere la città siciliana di Siracusa bruciando le navi romane con un elaborato sistema di specchi. Da secoli circola grande scetticismo su questa storia, sia perché con le conoscenze e i materiali dell’epoca sarebbe stato molto complicato, sia perché viene riportata solo da fonti tarde. Come avvenuto per altri aneddoti di questo tipo, la storia potrebbe essere nata dall’unione di racconti diversi: da fonti attendibili come gli storici Polibio e Tito Livio sappiamo che Archimede contribuì alla difesa della città costruendo delle macchine da guerra, mentre lo scrittore latino Apuleio nella sua Apologia racconta che Archimede aveva scritto degli specchi ustori «in un libro importante» sullo studio degli specchi (che però non possediamo).

Tu quoque, Brute, fili mi!
Sono le parole che comunemente vengono attribuite a Giulio Cesare mentre veniva ucciso da un gruppo di ribelli – fra cui il nobile romano Bruto – il 15 marzo del 44 a.C.. La frase probabilmente non fu mai pronunciata in questa forma. Il primo a parlare di una cosa simile fu Svetonio, uno storico latino con uno spiccato gusto per gli aneddoti, che scrivendo 150 anni dopo riportò che Cesare disse a Bruto, in greco: «καὶ σύ, τέκνον» (“anche tu, figlio”). Nessun’altra fonte più affidabile o antica di Svetonio ne parla. Inoltre, ci sono diverse cose che non quadrano: il fatto che Cesare avesse parlato in greco, e che avesse chiamato Bruto “figlio” (dato che secondo le fonti aveva un buon rapporto con lui, ma non era suo figlio naturale né lo aveva adottato). È ancora meno probabile che dopo l’omicidio di Cesare Bruto abbia detto “sic semper tyrannis” (“è così che succede sempre, ai tiranni”). E se anche prendessimo per buono tutto quanto, vorrebbe dire che Cesare non ha mai pronunciato le parole tu quoque.

Il sale su Cartagine
Secondo questa voce, i Romani cosparsero di sale il territorio della città africana di Cartagine dopo averla distrutta alla fine della Terza guerra punica, nel 146 a.C., per rendere infertile il terreno. La storia è quasi certamente falsa: non ne parla nessuna fonte antica – e ne abbiamo molte, sulla distruzione di Cartagine – ed è iniziata a circolare solo in età moderna. Nella storiografia romana non esistono altri casi di città rase al suolo e poi cosparse di sale.

La strage di Erode
È un episodio raccontato solamente nel Vangelo di Matteo, e in nessun’altra fonte storica o evangelica. Secondo Matteo poco dopo la nascita di Gesù Cristo l’allora re dei Giudei Erode il Grande ordinò di uccidere tutti i neonati di Betlemme perché aveva sentito che secondo una profezia in quella città era appena nato il nuovo re. Lo scetticismo degli studiosi su questo episodio è legato soprattutto al fatto che non se ne trova traccia in Flavio Giuseppe, uno storico romano di poco posteriore a Gesù Cristo che si occupò estesamente della storia della Giudea. La Chiesa Cattolica dà invece per certo l’episodio e ricorda i bambini morti nella presunta strage il 28 dicembre di ogni anno.

Muzio Scevola
In italiano, l’espressione “mettere la mano sul fuoco” significa essere certi di una cosa: è tratta da un episodio raccontato da Tito Livio, ma che in origine non era legato a quel significato. Il protagonista è Gaio Muzio Cordo, un giovane nobile romano che nel corso dell’assedio di Roma da parte degli Etruschi nel 508 a.C. propose al Senato romano di uccidere il comandante etrusco Porsenna con una missione segreta. L’incarico fu dato allo stesso Muzio, che però per errore uccise uno scriba etrusco. Catturato e portato davanti a Porsenna, Muzio minacciò Porsenna dicendogli che i Romani lo odiavano e che presto sarebbe stato ucciso da uno di loro. A quel punto, sempre secondo Livio, Scevola disse: «questo è il valore che dà al corpo chi aspira a una grande gloria». E si fece bruciare la sua mano destra in un braciere. Porsenna, impressionato dal coraggio e forse convinto che Muzio volesse punirsi, lo lasciò andare. Scevola fu il nome con cui venne chiamato dopo, da scaevus (mancino). L’episodio quindi è più legato all’autoflagellazione e al fanatismo che alla certezza.

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