Crepuscoli di luce

Crepuscoli di luce: La notte non può durare per sempre

Crepuscoli_di_luceCrepuscoli di luce è la nuova silloge poetica di Andrea Leonelli, un passaggio attraverso il quale si ricongiunge un passato doloroso e catartico con un presente in cui, cadute le maschere, il poeta ritrova lentamente se stesso e la propria identità. L’espressione del linguaggio accentua lo stile tagliente e mai scontato, utilizzando parole in cui il significato viene stravolto a favore di una nuova intensità emotiva. E sono proprio le emozioni a creare la poesia stessa, trasformando la negatività in quella lirica che si eleva al di sopra degli animi, portando i versi verso un’eternità costituita da sprazzi di luce oltre la tenebra. “La notte non può durare per sempre” (cit) ed è da questo punto fondamentale che l’uomo ricomincia a vivere, cedendo all’esistere con la stessa voluttà con cui si potrebbe cedere a un’amante. Lo spirito si rinnova calpestando le schegge del proprio passato, mentre l’anima si avvia verso una guarigione cercata e voluta.

Crepuscoli di luce offre ai lettori sia l’uomo che il poeta, sia la lirica che la realtà, senza compromessi né sotterfugi che potrebbero creare false illusioni. Questo è reale, questo è vivere. Al di là della concezione materiale dell’esistere quotidiano e delle false icone che l’ambiente propina. Messo a nudo, resta solo l’Essere, con i propri dubbi e le proprie speranze, un uomo che non accetta la sconfitta emotiva come un fattore prestabilito o come un retaggio dato dall’essere umano. Esiste, sempre e in ogni caso, l’alba che porta a nuova luce e a nuovi respiri. Così come esisterà sempre un crepuscolo nel quale rilassare le membra e trovare, all’interno del proprio intimo, la ragione di esistere.
Andrea Leonelli non delude mai e la sua lirica arriva a corteggiare direttamente l’anima. Tuttavia, diversamente dalle precedenti sillogi, Crepuscoli di luce apre le porte a una speranza inaspettata, senza mai rinunciare allo stile inusuale con cui il poeta ha sempre espresso i propri versi. Ed è da questa nuova combinazione che la poetica trae il massimo vantaggio, diventando emozione pura.

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Buone Feste dal blog EEE

Il blog EEE vi augura Buon Natale e un felice Anno Nuovo.

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Ho passato con voi sei mesi meravigliosi, condividendo i vostri libri, le vostre interviste, i vostri eventi, i sogni e le speranze. Ho avuto modo di conoscervi meglio scoprendo, dietro a degli autori talentuosi, anche delle persone in gamba, capaci di trasmettere umanità e calore. Per questo motivo non finirò mai di ringraziare Piera Rossotti per questa opportunità, per avermi aperto le porte dei vostri cuori, donandomi la possibilità di farvi conoscere meglio al pubblico e a tutti coloro che ci seguono. Sarò felice di portarvi nel nuovo anno, aiutandovi a realizzare i progetti che già fanno capolino dalle scrivanie e dalle memorie dei vostri computer, scoprendo, insieme a voi, nuovi titoli, nuove cover e nuove trame. Sono già ansiosa di leggere i manoscritti che so essere in preparazione e di poter gustare nuove storie, scritte con la perizia che vi caratterizza tutti.

Vi ringrazio autori EEE.

Vi ringrazio per avermi affiancata in questa avventura e di avermi aiutata a far crescere questo spazio, fornendomi tutte le notizie e il materiale che, di volta in volta, vi ho richiesto. Lo so di essere stata un tormento per voi, di avervi chiesto di tutto e di più ma spero di essere riuscita a ripagarvi, offrendovi un aiuto valido per potervi promuovere al meglio. Ringrazio ancora Piera, splendido e lungimirante Editore, che ha permesso la realizzazione di tutto questo e di tante altre mie fantasie. In fine, ringrazio tutti coloro che, pur non facendo parte di questa realtà, l’hanno sostenuta e hanno contribuito a farla crescere.

Detto questo, prima della fine dell’anno, avremo ancora una sorpresa da presentare al pubblico. Dunque, restate con noi. Il blog va in ferie, ma resta aperto per ogni vostra esigenza.

Buon Natale

e

Felice Anno Nuovo!

Intervista a Lory Cocconcelli

Intervista a Lory Cocconcelli

Il Continente Nero racchiude in sé le origini dell’umanità e della cultura, nonché le radici dei misteri che hanno costituito la base per il folclore che accomuna molti popoli. In questo saggio, Lory Cocconcelli affronta la magia africana con lo spirito neofita di chi approda in una terra ricca di colori, odori e suoni, e scopre come la tecnologia moderna possa serenamente convivere con rituali antichi come il tempo stesso. Ma non vi è contraddizione, solo la conservazione di superstizioni e pratiche che, a tutt’oggi, fanno parte della cultura quotidiana. L’autrice ha affrontato questo viaggio nella magia non solo da un punto di vista puramente folcloristico, ma anche ricercando, da vera studiosa, tutte quelle nozioni che avrebbero potuto avvalorare alcuni aspetti tipici delle credenze locali. Dunque, Africa è un libro in grado di avvicinare la mentalità europea a quella africana, offrendo punti di vista del tutto inaspettati.

  • Perché hai deciso di scrivere un saggio su questo argomento. Cosa ti ha spinta a farlo?

Ho deciso di scrivere questo saggio per portare alla luce alcuni aspetti poco conosciuti della cultura africana – anche se occorrerebbe parlare di culture dal momento che i popoli neri sono tanti e ognuno vanta le proprie tradizioni -. Aspetti che si possono scoprire soltanto vivendo sul territorio a stretto contatto con i locali e non come semplici turisti.
Noi occidentali vediamo l’Africa attraverso la lente distorta dei media che focalizza immancabilmente l’attenzione su malattie, arretratezza e povertà del continente. Ma c’è di più, molto di più. Mi riferisco a un universo culturale, etnico e religioso che vale la pena conoscere e approfondire perché l’uomo moderno – cioè noi – deve le sue origini proprio a questa area del mondo.
E’ stato durante il mio primo viaggio in Senegal che ho iniziato a raccogliere le testimonianze riportate nel libro, che focalizza sì l’attenzione sull’Africa occidentale, ma che rispecchia per i suoi contenuti quasi tutti i paesi del continente.
Il “la” mi è stato dato da un ragazzo burkinabé, conosciuto al Centro Culturale Francese di Dakar, assunto in seguito come body guard (figura della quale mi avvalgo ogni volta che soggiorno in Africa, quand il le faut…). Ebbene questo ragazzo, di fede animista, con i suoi racconti mirabolanti di streghe e stregoni, mi ha introdotta a poco a poco nel culto cardine, nelle tradizioni e nei costumi del continente nero.

  • In che modo sei venuta a conoscenza degli usi, costumi e tradizioni locali? E quali sono state le ricerche che hai fatto?

Vivo in Africa quattro mesi l’anno, buona parte dei quali trascorsi a contatto con gli africani.
Sono una persona curiosa per natura, mi piace immergermi nel contesto nel quale mi trovo. Credo che lo scambio sia molto importante. E’ grazie al dialogo con le persone che si possono instaurare rapporti, comprendere le diversità e arrivare a formulare considerazioni.
Nell’Africa occidentale ho sempre e soltanto vissuto nei “quartieri neri”, ciò significa niente asfalto, acqua e corrente che vanno e vengono, pasti cucinati da ristoratrici improvvisate e sabbia e galline e capre ovunque (nella parte orientale, in cui sono stata recentemente per evitare il virus ebola, mi sono concessa qualcosa in più).
Con gli africani ho anche lavorato, ho instaurato amicizie che durano a tutt’oggi. Senza quella condivisione, di spazio e di tempo, e senza la fiducia reciproca, non avrei raccolto le testimonianze che sono riportate nel libro perché certe cose, quelle di cui io parlo in alcuni passaggi, i neri non amano divulgarle. Diciamo pure che hanno un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di certi argomenti. Per questa ragione, il ragazzo burkinabé che mi ha introdotta nel mondo animista e aiutata a raccogliere testimonianze intervistando per mio conto marabouts e féticheurs, non ha voluto che il suo nome comparisse per esteso nel libro.
Per cultura, noi occidentali abbiamo la tendenza a razionalizzare, a incasellare le cose, i concetti e perfino le ideologie, laiche o religiose che siano. Io per prima, a un certo punto, mentre scrivevo la prima bozza del libro, non essendo un’accademica, ho sentito il bisogno di rapportarmi con le fonti cosiddette scientifiche. Ho trascorso vari mesi nella biblioteca universitaria di Dakar, cercando di dare un nome a ciò che mi veniva raccontato, di trovare riscontri, di comprendere come antropologi ed etnologi giustificassero le pratiche animiste e di come le avessero incasellate e classificate nel corso del tempo. Ne è uscito un quadro interessante che ha messo in risalto una certa dissonanza non soltanto tra il pensiero africano e quello europeo, ma anche tra gli stessi enunciati della scienza.

  • In che modo ti sei posta nei confronti delle tradizioni africane? Con l’occhio disilluso, cinico e disincantato degli occidentali o con un atteggiamento più aperto e più simile a quello naturale e quasi, se possiamo dirlo, più ingenuo delle popolazione con cui sei venuta a contatto?

 Ho cercato di liberarmi dei miei preconcetti – venendo da un’altra cultura era inevitabile che ne avessi -, di aprire la mente e di ascoltare. Penso di esserci riuscita. Quanto al cinismo e al disincanto, non ritengo siano atteggiamenti costruttivi quando ci si rapporta con le tradizioni di un popolo.
Devo dire, però, che certe convinzioni su cui fa perno l’animismo africano restano per me incondivisibili, pur avendone compreso i meccanismi. Comprendere non significa necessariamente aderire quanto piuttosto capire.
Ciò che sostengo con forza, qui e nel libro, è che il patrimonio culturale nero, non deve essere sminuito perché proprio di una parte del globo considerata arretrata. Esso racchiude in sé un universo di proporzioni strabilianti che, condivisibili o meno, sono espressione di tradizioni millenarie.
Dei popoli africani abbiamo una visione stereotipata che li vuole ignoranti, creduloni e arretrati. Se le classi dirigenti dei nostri paesi “evoluti” ci avessero deliberatamente privato dell’istruzione, saremmo certamente ignoranti anche noi, ma ciò non avrebbe influito sulla scelta della nostra appartenenza religiosa.

  • Quanto di quello che ti circondava ha influenzato il tuo modo di vivere e di vedere gli avvenimenti quotidiani?

Dagli africani ho imparato ad affrontare la vita con un pizzico di scioltezza in più, a cogliere il lato migliore delle cose, a vivere il tempo senza rincorrerlo. Il nero è pigro, si muove con i suoi tempi. Accogliente, vitale e ottimista, conserva una sorta di purezza che noi occidentali abbiamo perduto. Non è mai bene generalizzare quando si parla di un popolo – sarebbe come definire gli italiani una manica di mafiosi truffaldini o affermare che tra i neri non ci sono persone dinamiche, false o disoneste – ma qualche tratto comune, dopo vari anni trascorsi in diversi paesi dell’Africa, posso permettermi di delinearlo. Faccio riferimento, ovviamente, all’africano del popolo, non al politico o al businessman (che fanno parte di una categoria a sé).
Quanto all’animismo di cui ho scritto, non credo che abbia influenzato il mio modo di vivere o di vedere gli avvenimenti quotidiani. Non porto un amuleto, e quando sono in Africa e ho un problema di salute non consulto un guaritore ma un medico, non per sfiducia ma perché i nostri farmaci e i nostri metodi diagnostici (quasi sempre) sono più rapidi ed efficaci. Riguardo streghe e féticheurs, il loro operato è testimoniato dalla sentenze delle Corti Penali dei tribunali africani, ma io non sono mai stata interessata a testare di persona i loro cosiddetti poteri. Lascio all’Africa ciò che è dell’Africa. Se il mio compagno dovesse lasciarmi, non ricorrerei di certo a un sortilegio per farlo tornare da me.
Ciò in cui io credo, e in cui ho sempre creduto, non è mutato. Semmai, ora, ha confini più ampi.

  • Come vivi i tuoi periodici addii alle radici occidentali e a quelli delle nuove radici africane?

Un poeta scrisse “partire è un po’ morire”. Metafora un tantino drammatica.
Direi che mi si addice di più “Chi viaggia vive la sua vita due volte”.
Per quanto mi riguarda, parto per l’Africa ogni volta con entusiasmo pensando a ciò che mi attende e rientro felice, con il desiderio di riabbracciare i miei affetti.
In una vita precedente devo essere stata una nomade!
Scherzi a parte, quando lascio l’Italia mi allontano dai miei cari, mi privo delle mie abitudini e delle piccole cose che mi sono famigliari ma è per andare in un luogo che mi piace, che desta in me un vivo interesse, che mi sazia di sole, sorrisi, paesaggi, odori e colori.
Gli addii li vivo molto serenamente.

  • Tu soffri il famoso mal d’Africa divenuto popolare attraverso le pagine di Karen Blixen?

Tra tutti i paesi in cui sono stata, quelli africani sono quelli che mi hanno regalato le emozioni più forti. Forse è per questo che amo tanto l’Africa. Non manco di realismo, però, e non posso non sottolineare che nella sua immensa bellezza sa anche essere molto dura e mostrarsi, talvolta, un concentrato di molti mali (per dirla alla Thomas Sankara).
Ma veniamo a Karen Blixen. L’autrice ambientava il suo libro in un’area ben precisa del continente, l’altipiano del Ngong. Le descrizioni dei paesaggi, peraltro superbe, dei tramonti, degli animali selvaggi non rispecchiano l’Africa intera, come pensa chi non c’è mai stato, ma riguardano quei luoghi in particolare. Luoghi bellissimi, che io ho visitato, ma che non possono far insorgere un generico “mal d’Africa” quanto piuttosto uno specifico “mal di Kenya”. La Blixen, con la sua visione romantica, ammantava la “sua Africa” di pace e purezza; la realtà è un po’ meno dorata.
Gli africani che non arrivano a mangiare due volte al giorno o a pagarsi le cure mediche non soffrono il mal d’Africa. “Male” che insorge nelle persone mediamente agiate, nei turisti o nei viaggiatori che non sono costretti a subire ingiustizie e povertà, e che preferiscono il continente nero ad altri luoghi per una serie di motivi che io comprendo bene e condivido.

  • C’è qualche episodio particolare, fra tutte le esperienze che hai vissuto, che ti ha colpito maggiormente?

Gli episodi sono vari…
Un soldato dell’esercito che, dopo aver fatto inginocchiare un nero, colpevole di aver tentato una rapina ai danni di un Casinò, gli spara un proiettile in testa, alle cinque del pomeriggio, sul ciglio della strada di fronte al supermercato dal quale sto uscendo.
Un giardiniere (africano) che viene ferito nel corso di una rapina a mano armata nella villa di un facoltoso inglese per il quale lavora, che si rifugia, terrorizzato, nel Resort confinante scavalcando il muro di cinta, dove io ho appena finito di cenare. Il manager della struttura, un italiano, si rivolge a lui urlando: “Stai sanguinando cazzo! Mi sporchi il pavimento della reception, almeno vai sull’erba, stronzo!”
Gatti randagi coccolati da turisti di varie nazionalità, rimpinzati di biscotti sulla spiaggia, mentre bambini malnutriti osservano la scena.
Un bambino che, a distanza di tre anni, viene a stringermi la mano per ringraziarmi di un pallone che gli avevo regalato e di una letterina che gli avevo scritto, e che mi dice di conservarla ancora.
Un féticheur che vuole farmi bere una pozione magica come segno di benvenuto e si incaz.. di brutto quando rifiuto, e il mio body guard che sbianca letteralmente!

  • Come il folklore africano si inserisce nel contesto del terzo millennio?

Le nuove generazioni “urbanizzate” indossano t-shirt di Dolce e Gabbana (un must have), jeans e cappellini da rapper, ma sotto i loro abiti non è difficile veder spuntare un talismano.
L’Africa delle grandi città, ma anche quella degli agglomerati minori in cui i neri vivono a contatto con i bianchi, è un potpourri bizzarro; gli occidentali vogliono trovare tutto ciò che sta a casa loro, comfort, abbigliamento di tendenza, tecnologia, centri commerciali,… ed è fisiologico che i locali assimilino qualcosa di tutto ciò che si vedono passare sotto il naso. Mi è capitato di vedere musulmani in boubou che indossavano scarpe da ginnastica da cestista; Masai, con il loro abito tradizionale e la classica tanica di sangue tra le mani, fotografarsi a vicenda davanti al pupazzo di Babbo Natale; donne anziane a petto nudo (in Africa a una certa età è concesso e nessuno si scandalizza) offrire banane a turiste esterrefatte.
Diversa è invece la situazione nei villaggi remoti, meno (o per niente) contaminati dalla modernità e dal contatto con altre culture.
Il folklore è parte integrante della cultura di un popolo e ritengo che dovrebbe essere preservato. La globalizzazione mica si può divorare anche quello!

  • Quando Lory non scrive come occupa il suo tempo?

Se parliamo del mio tempo libero, quando non scrivo leggo (cosa, dipende dal mio stato d’animo o dall’interesse del momento), faccio attività fisica (se non mi muovo, sono come un leone in gabbia!) e ascolto musica (prevalentemente reggae e R&B). In cucina sono un disastro anche se mangiare mi piace molto… cibo italiano, africano, messicano, thai e indiano, soprattutto. Non sono molto mondana ma qualche seratona, in Italia come in Africa, me la concedo, adoro ballare!

  • Quali sono i tuoi progetti futuri sia in campo letterario che personale?

Per ciò che attiene al campo letterario, sto già lavorando a un secondo libro, sempre sull’Africa. Sono racconti brevi, di sapore naif, simili a quello della “Donna serpente” che apre il saggio. Vicende di stregoneria e storie macabre, sospese tra la leggenda e la realtà.
Per ciò che attiene al campo personale, ho un progetto ambizioso: trovare uno stregone potente che riporti in vita Bob Marley!

Jere jef (grazie)

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Intervista ad Andrea Tavernati

Intervista ad Andrea Tavernati.

l'intima essenzaUna forma d’arte antica, l’Haiku, che racchiude il cuore e l’anima di ogni istante, descrivendolo in poche sillabe. Un genere che potrebbe sembrare adatto ai nostri tempi moderni ma che, al contrario, incarna un invito alla riflessione e a considerare delle tempistiche che si discostano molto dalla frenesia odierna. Andrea Tavernati, autore del libro pluripremiato “L’intima Essenza”, espone in questa intervista i suoi punti di vista, in più parole di quelle che caratterizzano la stringente metrica dei suoi haiku, su argomenti che riguardano non solo la poesia.

  • Coma nasce la tua passione per questo tipo di composizioni?

In realtà molto lentamente. Mi sono imbattuto in questo genere poetico già durante l’adolescenza e mi ha incuriosito per la sua peculiarità. A quell’epoca risalgono i primi esperimenti. Poi mi sono progressivamente ritrovato a comporne in modo via via più sistematico, ma ancora oggi alterno momenti più “ispirati” a lunghi periodi durante i quali non scrivo neanche un haiku, o meglio non sono attraversato dal vento degli haiku, perché sono sempre più convinto che la volontà individuale in questo caso non conti davvero molto.

  • Quanto tempo ti richiede la stesura di uno dei tuoi haiku?

E’ molto variabile. Parto da un’intuizione, un’immagine, una sensazione o una sola parola. L’haiku si condensa intorno a questo nucleo iniziale. Talvolta in modo fulmineo. Altre volte l’idea mi naviga in testa per settimane o mesi senza prendere una direzione precisa; talvolta me ne dimentico e poi riaffiora da sola, senza una ragione precisa. Poi, quando la struttura dell’haiku è abbastanza ben definita, entra in gioco un lavorio più formale per ottenere il suono più adatto, i significati più precisi e l’andamento più consono all’emozione che cerco di esprimere. Ma in genere quest’ultima fase si sviluppa abbastanza rapidamente.

  • Che intervallo di tempo copre l’Intima Essenza, quanti anni di vita ci sono dentro?

Potrei dire tranquillamente che c’è dentro tutta la mia vita, anche perché non è una biografia esteriore, ma interiore. I fatti dell’animo hanno un tempo loro, campiture lente e improvvise accelerazioni che, in superficie, nella vita esteriore, a volte si rifrangono all’improvviso in avvenimenti irrazionali, che, agli occhi altrui, rimangono incomprensibili. Mentre nel sottosuolo dell’interiore vivono una realtà autonoma di cui la manifestazione poetica è una piccola spia, una presa di coscienza che chi scrive attua su se stesso con intento maieutico. Scrivere è, prima di tutto, un modo per interrogarsi e provare a capirsi.

  • Sei appassionato dell’oriente in genere o solo di questo tipo di forma espressiva?

Non sono un esperto di cultura orientale e non sono arrivato all’haiku per questo motivo. Al contrario, approfondendo le ragioni espressive e storiche dell’haiku ho scoperto un universo culturale diverso dal nostro e molto stimolante, che sto ancora imparando a conoscere, confrontandolo con le mie radici europee.

  • Fra le tue altre passioni c’è senz’altro l’arte, cosa ti affascina e ti spinge a cercare di capirla?

Provo da sempre uno straordinario interesse per tutte le forme di comunicazione che non hanno una finalità pratica, ma che si pongono come un tentativo di comprendere ed esprimere l’uomo e il suo rapporto con il mondo. Le arti figurative nel loro insieme e la musica sono esperienze complesse, al pari con le opere letterarie, e nelle loro manifestazioni più alte costituiscono la sintesi di un modo di essere e vivere. Mi interessano i grandi progetti, le visioni e le rivoluzioni che hanno cambiato e cambiano per sempre il modo in cui l’uomo pensa se stesso. Il Rinascimento artistico inventato da un manipolo di geniali artefici a Firenze, l’immenso edificio armonico di Bach, l’instancabile indagine sul percepire/sentire di Monet, la rivoluzione del vedere di Caravaggio, per esempio…

  • Tu che sei un pubblicitario, come vedi la possibilità, per un esordiente, di farsi conoscere a un pubblico abbastanza vasto?

La strada è tutta in salita! L’offerta di autori, anche di qualità, eccede notevolmente la domanda di un pubblico che legge sempre meno e sempre peggio. Quello da affrontare è un lavoro lento e continuo che l’autore non può più pensare di demandare completamente al ruolo dell’editore. Ogni occasione per incrementare la propria awareness, la propria notorietà, come dicono i pubblicitari, deve essere sfruttata. In questo senso il mondo digitale offre una costellazione quasi illimitata di opportunità a costo zero, o bassissimo, che l’autore può affrontare anche autonomamente. Non ci si deve aspettare però risultati fulminei o eclatanti. Anche il digitale è affollatissimo di voci e discernere la qualità vera non è facile. Occorre non perdere la pazienza e insistere essendo ben coscienti che non c’è nulla di scontato né di dovuto.

  • Qual è la tua opinione sul mondo editoriale attuale?

Prima di tutto, riallacciandomi alla domanda precedente, ritengo che il ruolo dell’editore sia ancora fondamentale, in quanto talent scout e promotore della conoscenza di un autore. Se può nascere qualcosa di buono, è dalla collaborazione tra autore ed editore. L’editore deve credere in quello che pubblica e l’autore non deve pretendere che il compito di promuoverlo sia solo affare dell’editore. Personalmente penso anche che l’editore debba svolgere un ruolo fondamentale come selettore all’ingresso: insomma deve poter dire di no su basi puramente qualitative, per quanto soggettive. Di conseguenza non credo nell’editoria a pagamento e nemmeno nel cosiddetto self publishing: una scorciatoia che ignora il vero problema, il quale non è come ritrovarsi tra le mani un prodotto stampato o stampabile on demand, bensì: cosa farne?
Quanto poi all’altra novità dei tempi, penso che la cosiddetta rivoluzione digitale sia inarrestabile, anche nel mondo dell’editoria. Il che non vuol dire che l’ebook sostituirà completamente il libro cartaceo, ma che le due forme convivranno, così come usiamo quotidianamente il computer, il tablet e la buona vecchia penna a sfera. Tuttavia i vantaggi pratici del digitale sono così evidenti che è ora che i legislatori e i grandi player nel mercato dell’editoria cavalchino il nuovo invece di contrastarlo.

  • Hai partecipato a diversi concorsi letterari sempre con ottimi risultati, cosa pensi del mondo dei concorsi e qual è, secondo te, la loro utilità per un poeta?

Per uno scrittore esordiente è un modo come un altro per farsi leggere e per capire se qualcuno nota del buono in quello che scrivi. Come è noto l’Italia è il paese dei concorsi e ce n’è veramente per tutti i gusti (letterari). Quelli davvero prestigiosi sono però pochissimi e in questi il ruolo delle grandi case editrici è importante. Il resto è un universo vario e a tratti pittoresco. Purtroppo i concorsi completamente gratuiti sono sempre meno, ma il contributo richiesto è per lo più minimo. Quanto agli esiti che si ottengono, penso che l’atteggiamento giusto sia quello di rallegrarsi per le vittorie e non farsi troppe domande per le sconfitte: i criteri decisionali delle giurie sono imponderabili ed imperscrutabili, oltre che inevitabilmente soggettivi.
Concludo che non bisogna neanche aspettarsi ricadute significative quando si vince: nessuno mi ha mai contattato per dar seguito al riconoscimento con qualche ulteriore iniziativa, fosse anche scrivere un articolo. Insomma, i concorsi possono far bene al morale e fanno curriculum.
Punto e a capo.

  • Cosa fa Andrea Tavernati quando non scrive?

Sarebbe più giusto chiedere quando riesco a trovare il tempo anche di scrivere! Come hai detto, di mestiere faccio il creativo pubblicitario e quindi passo buona parte della mia settimana sul posto di lavoro. Essendo copywriter per fortuna il mio lavoro ha sempre a che fare con la scrittura e la comunicazione: un ottimo esercizio quotidiano. Poi ho una famiglia, collaboro con la Casa della Poesia di Como e con altre due associazioni culturali locali. Infine, leggo. Occupazione non secondaria per chi ama scrivere.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il cantiere è sempre aperto: attualmente ho nel cassetto una raccolta di racconti inediti, che mi sono convinto, dopo lunghi ripensamenti, essere pronta per una eventuale pubblicazione. Poi sto mettendo a punto una raccolta di poesie più “classiche”, che mi pare a buon punto e nel 2015 vorrei continuare il progetto di un romanzo mainstream di ampio respiro rimasto a livello di abbozzo negli anni ’90 e che ho ripreso in mano solo l’anno scorso.

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Nessuna scelta

Con “Nessuna scelta” torna la spy story doc.

nessuna scelta

Non è così semplice scrivere una spy story all’italiana, senza cadere nei classici stereotipi imposti dalla narrazione anglosassone o, peggio ancora, da quella americana. Gli eroi nostrani parlano con cadenze dialettali, hanno modi di fare tipici e un percorso mentale logico che molti di noi comprenderanno bene. Tuttavia, spesso, si rischia di inciampare nei luoghi comuni e nell’intreccio scontato che portano una trama, basata sull’avventura, a seguire schemi da “spaghetti-western”. Ebbene, Nessuna scelta di Alessandro Cirillo propone un mix estremamente realistico di quanto il panorama italiano possa offrire a livello di azione, spionaggio e terrorismo. Fatti, opportunamente romanzati, che non si discostano troppo da quella che è una realtà effettiva, degna delle nostre pagine di cronaca. Certe verità sono sotto gli occhi di tutti e nella nostra quotidianità, certi intrecci internazionali non sono sicuramente così fantascientifici. Tutt’altro. Questo libro, virtualmente erede del precedente Attacco allo Stivale, prosegue l’azione oltre confine, restando comunque ancorato alla capacità dell’autore di coinvolgere il lettore in fatti di “casa propria”. Alessandro Cirillo scrive per riviste di stampo militare e le sue conoscenze sono piuttosto approfondite. Quindi, per gli amanti dell’azione e delle trame complesse, che si sviluppano a livello internazionale, Nessuna scelta, in promozione questa settimana,  è il libro più adatto.

La trama:

Un aeroplano si schianta su una nave da crociera americana al largo delle coste francesi.
Un sanguinoso attentato viene compiuto contro la nazionale di calcio statunitense in un lussuoso albergo di Roma.
Ancora una volta il terrorismo di matrice islamica torna a mietere vittime per mezzo dell’organizzazione più pericolosa al mondo, Justice of Allah (JOA).
I servizi segreti di mezzo mondo sono alla ricerca del suo leader, l’inafferrabile Omar Abdallah Hassan. L’agente dei servizi segreti italiani Nicholas Caruso si unirà alla ricerca, che lo porterà fino al lontano Pakistan.
Tra inseguimenti e sparatorie, Caruso si accorgerà presto che Hassan non è l’unico nemico da dover affrontare.
Dopo Attacco allo Stivale, Alessandro Cirillo torna con un nuovo emozionante thriller d’azione.

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Intervista a Franco Pulcini

Intervista a Franco Pulcini

il maltempo dell'amoreLa trama di “Il maltempo dell’amore” catapulta immediatamente il lettore all’interno della storia, catturandone l’attenzione al punto da costringerlo a proseguire fino alla fine. Lo stile fluido, scanzonato, semplicemente ricercato, crea la giusta atmosfera per porre dei personaggi su una barca e trascinarli per mare, in mezzo alle più disparate avventure e disastri. Fra un cambio di rotta e un approdo, la storia s’intreccia e s’infittisce portando i protagonisti a vivere una spy story indimenticabile, in cui la drammaticità è spesso stemperata dall’ironia e dalle caricature con cui Franco Pulcini dipinge determinati ruoli per gli avversari.

  • Come nasce l’idea di utilizzare il mondo marittimo per ambientare una storia?

La scrittura non è nuova alle storie di mare. Si sa che i comportamenti di marinai e capitani sono spesso sbrigativi, per non dire brutali. Per mare non c’è tempo per i complimenti, come in un salotto. Il mare è solitudine, sopravvivenza. Di qui l’idea di una resa dei conti fra due amanti in via di separazione, entrambi con un brutto carattere. Sono due che si amano e si detestano. Li ho imbarcati, e poi loro – tu sei una brava scrittrice, e lo sai meglio di me – han fatto tutto da soli…

  • Tenendo conto del linguaggio tecnico e ricercato, quanto Franco Pulcini è in realtà un amante del mare e della vela?

Sono velista e amante del mare, anche perché un po’ misantropo. Ho un amico editore che mi ha spiegato che i lettori hanno piacere di imparare cose leggendo una storia. Così, mentre i miei due innamorati-nemici si strapazzano, i lettori fanno anche un piccolo corso teorico di vela e navigazione, senza il pericolo di bagnarsi o di essere insultati dagli istruttori di Caprera o della Lega navale.

  • I tuoi personaggi si trovano sempre sopra le righe, non fanno mai quello che il lettore si aspetta e non si possono considerare come delle “normali” figure letterarie. Chi e che cosa ha ispirato questa scelta?

Beh, non mi piacciono le persone troppo normali… Loro sono due pazzi scriteriati in preda a una pericolosa esaltazione narcisistica. Però, proprio perché personaggi ‘estremi’, posti in una situazione ‘estrema’, se non letterari, divengono quanto meno cinematografici. So che un mondo di ricchi capricciosi, messi a confronto tra loro, può anche non piacere, ma per chi scrive cercare di rendere interessanti personaggi detestabili di primo acchito è una sfida che ti aguzza l’ingegno.

  • In uno dei commenti che ti sono stati rivolti vieni paragonato a Moravia o a Kundera, ti ritrovi con questi accostamenti o ti senti più affine a qualche altro scrittore?

Mi vergogno un po’ a dirlo, ma, sebbene abbia letto molto Kundera, non ho mai letto Moravia. Io non sono un grande lettore, e francamente non saprei dire a chi assomiglio. A me piacerebbe scrivere con la profondità di Jonathan Franzen. Una mezza pagina di Alice Munro mi fa venire voglia di lasciar perdere la scrittura. Ho adorato scrittori tosti e ossessivi come Elfriede Jelinek e Thomas Bernhard. Fra gli autori di EEE, ammiro molto Paolo Ferruccio Cuniberti. Ma non credo di assomigliare a nessuno dei citati. Mi scappa sempre qualche sarcasmo di troppo. Non prendo la vita abbastanza sul serio.

  • La passione veleggia per tutta la storia, portando venti di burrasca in ogni incontro/scontro fra René ed Ede. Una tematica romantica che ben si adatterebbe anche a una scrittura femminile. Come affronta il “rosa” uno scrittore di sesso maschile?

Gli uomini, sui sentimenti, sono spesso debolucci. Vanno appena un po’ meglio con le passioni. Ma anche qui, quelle secchione delle donne li sbaragliano. La mia storia d’amore è al limite con l’attrazione fatale. Il suo nucleo si fonda però su di un archetipo diverso: l’uomo arcaico che infuria per la difesa della donna, indipendentemente dal fatto che l’ami o la detesti. Inoltre la vuole strappare al rivale. Roba da uomini. Che però può piacere anche a donne stufe del rosa sospiroso e avide di mitologia.

  • Quale dei personaggi del tuo libro si avvicina di più allo scrittore? Ovvero, quale dei personaggi da te descritti, raccoglie in sé parte del tuo carattere e del tuo modo di vedere la vita?

Evidentemente il protagonista, in forma di proiezione di desideri. E non alludo al fatto che mi piacerebbe essere quel che non sono (giovane, bello, milionario, impavido velista), ma perché la finzione narrativa è l’unico luogo in cui puoi uccidere. Da bambino ho sognato molto spesso di uccidere per autodifesa. Poi ho smesso, ma qualcosa deve essere rimasto. Il versante saggio della mia natura è però incarnato dalla nonna di Ede, alla quale vanno anche le simpatie di diversi lettori, oltre che la mia.

  • Sappiamo che sei un grande appassionato di musica. E la musica, in quanto ritmica, fa parte di ogni cosa della vita, a partire dal battito del cuore per finire al nostro muoversi negli spazi. Quanto conta il giusto “ritmo” nella stesura della trama di un romanzo?

I suoni delle parole sono parte integrante del loro vero significato. La lunghezza dei periodi deve avere varietà. La ricchezza del linguaggio è simile a quella dei suoni e dei suoi impasti. La punteggiatura segue i respiri della lettura e gli ingombri nella mente. Gli spazi della narrativa devono essere precisi. Scrivere un periodo è come ammobiliare una stanza di frasi. Ci dobbiamo sempre dare una forma, magari per trasgredirla. Anche la prosa ha una sua metrica, come la poesia. Chiunque desideri scrivere bene usa metri e versi nascosti. Spesso irregolari, ma attentamente costruiti e ben rifiniti. La scrittura è poliritmica, perché con una mano battono il tempo i significati e con l’altra lo batte il suono delle parole.

  • Quali sono state le difficoltà che hai potuto riscontrare nello scrivere il tuo libro? E quali sono state le tue impressioni in merito all’odierno mondo editoriale?

Non credo di avere avuto difficoltà nello scrivere il mio libro, a parte il fatto che in origine aveva una continuazione diversa ed era molto più breve. Quando l’ho riscritto, ho tagliato alcune parti e una coda di una cinquantina di pagine, che avrei anche potuto lasciare con qualche aggiustatura. È curioso che alcuni lettori si chiedano cosa hanno fatto dopo i protagonisti: io lo so. Uno mi ha anche chiesto di leggere la continuazione tagliata, ma io non gliel’ho data perché non è del tutto coerente con la storia come è ora.

Penso che l’editoria attuale debba puntare sui long-seller, perché un e-book può restare in catalogo per anni finché qualcuno si accorga che è bello, se lo è… Spero che venga presto il momento in cui ci siano in giro meno instant-books, cartacei effimeri di televisivi, politici, giornalisti, persone famose, e più e-books molto meditati e ben rifiniti di aspiranti scrittori che se la giocano tra loro a chi è più bravo sulla distanza. Un collega che presentò un mio saggio esordì al Salone del libro di Torino del ’93 dicendo: “io non ce l’ho con i politici perché sono intriganti, bugiardi e disonesti, o perché mandano in rovina il paese, che tanto ci andrebbe comunque, MA PERCHE’ SCRIVONO LIBRI!!!!”

  • Quando Franco Pulcini non scrive, come occupa il proprio tempo?

Mi guadagno da vivere, tanto come insegnante al Conservatorio, quanto come esperto di storia della musica e drammaturgia alla Scala. Poi faccio il musicologo e vengo chiamato per scritti e conferenze su quegli autori di cui sono esperto, come Janacek e Sostakovic. Vado al mare e in montagna con mia moglie. Mi dedico alla casa. Viaggio poco. Potrei anche evitare di scrivere romanzi, ma per ora non mi riesce ancora.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Se alludi ai progetti letterari, è appena uscito per EEE il mio primo romanzo “Lei è una grande”, rimasto per anni inedito, con la storia di un diciassettenne degli anni sessanta che viene cazziato dalla madre perché a lui piacciono, come dice il titolo, le donne grandi d’età. Non è un noir-rosa-giallo come “Il maltempo dell’amore”, ma un romanzo normale (si fa per dire…). Ne sto scrivendo un terzo, ma sono solo a metà: questo è un ‘giallo con indagine’ di ambientazione musicale: diciamo che è un viaggio nell’inferno del teatro lirico dietro il sipario. Il mio mondo, ancor più della vela.

 

L’Intima Essenza

Questa settimana in promozione L’Intima Essenza di Andrea Tavernati.

l'intima essenza

L’Intima Essenza di Andrea Tavernati non è solo una silloge, ma una vero percorso fra la propria intimità e la natura del verbo. Le parole prendono il contorno dei valori essenziali, precludendo quegli addobbi che infestano il nostro stile di vita. I versi si fanno concreti, racchiusi nel rigole stilistico dato da un’arte orientale che non transige e non lascia spazio agli inutili fronzoli. Gli Haiku diventano il mezzo con cui il poeta esprime la concretezza del proprio essere e trova l’espressione ideale per dipingere una tela grezza, ma pregna dei valori basilari. L’Intima Essenza, libro pluripremiato, accompagna il lettore verso quell’avventura che riporta alla ribalta l’uomo, reale e vitale, su quel palcoscenico che è la vita stessa.

La trama:

Se togli tutto il superfluo, l’inutile e il secondario che occupa la tua vita. Se togli quello che hai, quello che fai e che devi fare, ciò che è legato alle abitudini e alle necessità sociali, ciò che ubbidisce alle leggi, ciò che hai ereditato dai padri, ciò che ti impone il gruppo, ciò in cui hai scelto di credere, ciò che dipende dagli affetti, ciò che ti fa piacere e che hai imparato ad amare o ad odiare, ciò che rifiuti e ciò che accetti. Se togli tutto questo, rimane qualcosa? Questo qualcosa si può esprimere in parole?
L’Intima Essenza è la disciplina e l’esito di questa ricerca. Non è un semplice agglomerato di haiku, ma un percorso conoscitivo attraverso la forma poetica più precisa: recuperare l’essenza della parola attraverso una scelta di asciuttezza e concentrazione. È stata una sfida e una battaglia. Alla fine il libro si è imposto sull’autore. La scoperta dell’intima essenza interiore l’ha sorpreso quanto lo sperimentare quella della parola.

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Mario Nejrotti a Torino

Mario Nejrotti presenta il suo ultimo libro a Torino

libreria A-zeta

 

Giovedì 18 dicembre, alle ore 21, presso la Libreria A-Zeta di Via Saluzzo 44 a Torino, Mario Nejrotti presenterà il suo ultimo libro: Il Piede sopra il cuore. Il romanzo, che ha vinto il Concorso “Romanzo Storico” indetto da Edizioni Esordienti Ebook, intreccia la Piccola Storia quotidiana, quella vissuta dalle persone comuni, con la Grande Storia, quella che fa riferimento alla Seconda Guerra Mondiale. All’evento interverrà l’Editore, Piera Rossotti Pogliano, la quale affiancherà il proprio autore nel corso della presentazione.

il piede sopra il cuoreLa trama:

Sicilia, 1943: mentre gli Alleati sbarcano in Sicilia, la mafia si prepara ad essere protagonista dei nuovi scenari politici del dopoguerra collaborando con gli americani e cercando di insediare i suoi uomini ai posti di potere, mentre cerca di trarre ancora tutti i guadagni possibili dalla borsa nera e dalle connivenze con il fascismo, che ormai sferra gli ultimi colpi di coda. Le persone integre, quelle che rifiutano la collusione, vengono eliminate senza pietà: è il caso del professor Di Salvo, che muore in un attentato in cui è sterminata anche la sua famiglia. Per un caso fortuito, si salverà soltanto il piccolo Santino, che resta solo al mondo. Ma un personaggio molto singolare entrerà in gioco per prendersi cura di lui. Questo romanzo, dove è protagonista la “piccola storia” quotidiana delle persone, che scorre a fianco della Grande Storia, conduce anche a una riflessione più intima e profonda sul significato della libertà, della responsabilità, della giustizia, della comprensione e, in definitiva, della difficoltà e della grandezza di essere uomini.

Biografia dell’autore:

nejrottiMario Nejrotti, nato a Torino il 27 febbraio 1950, è medico di famiglia, giornalista e direttore responsabile del giornale Torino Medica e del portale www.torinomedica.com

Ha scritto alcuni testi scientifici e alcuni racconti.

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Presentazione di Elena Moscardo

Presentazione di Elena Moscardo a Soave

i nostri scarponi sulla via Francigena A

Lo Spazio Culturale LaFogliaeilVento di Soave presenterà, mercoledì 10 dicembre alle ore 20.45, presso la Sala Convegni, Elena Moscardo e il suo libro I nostri scarponi sulla Via Francigena.

In breve:

In questo libro l’Autrice racconta il suo pellegrinaggio su un tratto della Via Francigena verso Roma, così come lo ha organizzato e vissuto insieme al marito Alessandro nei venti giorni delle loro ferie estive. Partiti da Modena l’8 Luglio 2000 hanno percorso a piedi circa 380 km. Nel diario del loro viaggio ci sono i luoghi pieni di storia, la bellezza dei paesaggi naturali che hanno attraversato e gli incontri con moltissime persone diverse. Un viaggio fuori e dentro se stessi…

Biografia dell’Autrice:

Nata a Verona il 30 Gennaio del 1970, Elena Moscardo, oggi è sposata con due figli e vive in un paesino San Briccio di Lavagno sulle colline Veronesi. Elena si è laureata in Scienze Biologiche con specializzazione in Etologia e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Imaging Multimodale in Biomedicina.  Appassionata per formazione alla natura, alla zoologia e, in particolare, al  comportamento degli animali e alla loro interazione con l’uomo, ha collaborato e tutt’oggi partecipa a progetti internazionali nell’ambito zoologico-naturalistico e delle neuroscienze cognitive. Numerose pubblicazioni scientifiche su varie riviste internazionali documentano la sua attività professionale.  Nel suo libro d’esordio “I Nostri scarponi sulla Via Francigena” Elena racconta l’esperienza del pellegrinaggio a piedi che ha vissuto con il marito Alessandro nell’anno Giubilare del 2000, testimonianza di un cammino di Fede, di ricerca e d’amore per la natura e l’uomo.

Il maltempo dell’amore

Il maltempo dell’amore: Ore 10 calma piatta… ma non in questo libro.

il maltempo dell'amore

Mentre nel famoso film, Ore 10: calma piatta, la trama prendeva corpo solo dopo determinati avvenimenti, in Il maltempo dell’amore il succedersi delle situazioni crea nel lettore un’immediata empatia verso la storia. E quando tutto pare risolto e il mistero svelato, l’autore con saggezza e maestria capovolge le realtà, portando a gonfie vele la trama verso intrecci decisamente inaspettati. Caratteristici i personaggi, estremamente vivi nei ruoli definiti, suscitano amore oppure odio, antipatia o simpatia, ma sicuramente non indifferenza. Franco Pulcini, scrittore dotato di una certa esperienza, non tralascia niente e la sua ironia traspare attraverso i dialoghi e il modo con cui dipinge i fatti, arrivando al pulp senza comunque eccedere. Un bel thriller da leggere non solo sotto l’ombrellone, ma in qualsiasi periodo dell’anno.

La trama: 

Due velisti spericolati, Ede e René, conducono da maestri la loro meravigliosa barca a vela – Skyla, in carbonio, tutta nera e blu cobalto – tra Liguria, Costa Azzurra e Sardegna, in un mare spesso burrascoso come il loro discontinuo rapporto sentimentale, in quella che dovrebbe essere la loro ultima traversata, una sorta di resa dei conti, prima che la ragazza vada sposa a un ricco libanese.
Impulsiva, passionale e anche un po’ viziata, la bella Ede si è però cacciata in un grosso guaio per debiti di gioco, e finisce nelle mani di un gruppo di criminali russi che si occupano, senza troppi scrupoli, di recupero crediti, coinvolgendo nella rocambolesca avventura anche René.
Tra passioni, gelosie, scelte estreme, questo noir poetico e psicologico trascina il lettore nell’ingorgo affettivo dei protagonisti, a zonzo su un mare calmo e azzurro sotto il sole o tra le onde incattivite e le raffiche di vento di una tempesta improvvisa, offrendo colpi di scena, ritmi veloci e una scrittura ironica e leggera.

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