Intervista ad Andrea Leonelli

Intervista ad Andrea LeonelliCrepuscoli_di_luce

La nuova silloge di Andrea Leonelli rappresenta quel passaggio fra stati d’animo oscuri e momenti più luminosi che segnano la vita del poeta. Attimi in cui, lasciate le tenebre, vi è un timido, quasi timoroso, affacciarsi alla luce della vita, di un nuovo inizio. Questa concezione diversa del vivere porta a interpretare i segnali quotidiani da punti di vista diversi, forse più consapevoli. Porta ad assaporare l’esistere, facendolo proprio, senza tralasciare alcun aspetto, nemmeno quelli che possono riportare fra le ombre. Tuttavia, la semi oscurità non è più sinonimo di malessere e di anima dolente, semmai diventa l’istante di riposo in cui la mente si rigenera e ritrova le energie per affrontare nuove situazioni e nuove avventure.

  • Spiegaci la motivazione di un titolo come Crepuscoli di luce. Cosa rappresenta?

Perché il crepuscolo è il momento del cambio, è quella zona di indefinito che separa due realtà diverse. Per me è anche sinonimo di mutamento e zona di potenzialità ancora non determinate né realizzate. È un confine senza bordi che separa, o unisce, due mondi diversi, dove si può decidere quale realtà, non ancora concretizzata, rendere vera. È un concetto affine alla meccanica quantistica, ma mi piace molto.

  • Quali sono le zone di ombra nella tua vita e quali quelle di luce?

Nella mia vita le zone d’ombra sono quelle che riguardano le cose che non sono riuscito a realizzare, o che non ho concretizzato al momento. La zona d’ombra più grande è sopraggiunta quando ho avuto l’infarto e lì, per quanto fossi immerso in un biancore abbagliante e totale, mi sono sentito in quella oscura terra di confine fra vita e morte, fra essere e non essere. Dopo quel momento ho visto le zone d’ombra diversamente. Le mie zone di luce sono i sorrisi, l’affetto e la serenità che riesco a scambiare e condividere con chi amo.

  • Il tuo stile di scrittura ha molta più affinità con le ombre. Come riesci a farle diventare luminose?

Probabilmente estremizzandole e rendendole così oscure da risplendere. Oppure rendendole luminose evidenziandole dalla massa in cui sono ed esponendole prendono consistenza e s’illuminano. Le metto in luce ponendole in un contesto diverso, per quanto sempre cupo, e dando loro risalto.

  • Da La selezione colpevole a Crepuscoli di luce cosa è cambiato nel tuo modo di essere poeta?

Ho imparato a essere più preciso, ho affinato lo stile e sono più accurato nel rifinire quello che scrivo. Ho ampliato i concetti guardando anche oltre quello che è esclusivamente il “me stesso” e, soprattutto nelle ultime composizioni ancora inedite, ho girato lo sguardo verso l’esterno e verso la società che ci circonda.

  • Vivi una realtà piuttosto frenetica. Le promozioni degli autori e altre attività collaterali ti portano via molto tempo. Quando riesci a scrivere?

Ultimamente per scrivere ho pochissimo tempo e ringrazio il destino di essere un autore di poesie brevi. Scrivo ogni volta che mi viene l’ispirazione, buttando giù le parole come vengono. E salvo gli scritti su computer o sul cellulare, per poi lavorarci quando il materiale è diventato sufficiente per una silloge. Praticamente faccio la parte più grossa del lavoro quando devo sistemare tutto quello che ho scritto in un unico file completo che, alla fine, diventerà il libro. Quando sono ispirato non mi è difficile scrivere, ma con il poco tempo disponibile, la stesura di un romanzo potrebbe diventare un lavoro di anni… Invece con le poesie e l’ispirazione giusta mi è possibile abbozzarne diverse in un tempo relativamente breve.

  • Come fa un animo sensibile come il tuo ad assorbire un’atmosfera pesante come quella che si vive in un reparto di rianimazione?

Da una parte c’è una sorta di assuefazione, ovvero ci si abitua a certi carichi emotivi, almeno apparentemente. Ma a volte, in situazioni pesanti ci vuole una “valvola di sfogo”. Da un’altra parte c’è quella che io chiamo sublimazione, ovvero il trasformare un carico emotivo in emozione espressa in altra forma. Nelle mie poesie spesso parlo di dolore e di attesa, proprio per sublimare gli stati d’animo che vivo al lavoro. Lo faccio per dirottare il dolore che permea l’aria del posto in cui vivo. Spesso non è solo il dolore fisico, ma il carico di emozioni che premono sulla pelle, come se potessero essere solide e se ne provasse il peso.

  • Quanta empatia provi per le persone di cui ti prendi cura al lavoro?

L’empatia è essenziale nel mio lavoro ma è anche un’arma a doppio taglio: impiegandone poca si può essere ugualmente bravissimi professionisti, anche se, mantenendo un atteggiamento freddo e distaccato, si rischia di non stabilire quel rapporto di fiducia necessario per il processo di cura. Se, per contro, se ne impiega troppa, si rischia di perdere di vista le priorità che sono necessarie per l’andamento corretto della globalità del lavoro, facendosi coinvolgere troppo in un’unica situazione e trascurando altre attività essenziali. Purtroppo il rapporto empatico, che consente di comprendere stati d’animo, che magari non sono chiaramente comunicati (e in rianimazione quello della comunicazione è un problema specifico, in quanto molti malati non hanno voce perché intubati o sedati), implica anche la trasmissione di quei carichi emotivi di cui si parlava nella domanda precedente.

  • Hai mai pensato di diventare un “angelo della morte”?

Non ci ho mai pensato seriamente anche se, spesso, ci si trova di fronte a situazioni in cui il mettercela tutta, fare tutto l’umanamente possibile, rischia di sconfinare nell’accanimento terapeutico. Il limite che contraddistingue queste due situazioni è una sfumatissima lama su cui camminiamo spesso. Anche questo fa parte dei carichi emotivi. Quando, salvare qualcuno può equivalere a condannare lui ad uno stato di vita apparente e i suoi cari a un altrettanto lungo calvario? Quanto a lungo è etico tenere forzatamente in vita qualcuno? Quanto lunga e travagliata deve essere la via crucis affrontata da pazienti e parenti, prima di giungere a una conclusione spesso inevitabile?

Anche semplicemente porsi queste domande, quotidianamente, è un carico emotivo di cui gli operatori sanitari sono costretti a farsi carico.

  • Quando Andrea non scrive come impiega il suo tempo?

Quale tempo? A volte ci sono giorni in cui ho giusto qualche minuto per mangiare e qualche ora per dormire, se non vengo colto dall’insonnia. Comunque, diciamo che i miei impegni si dividono fra il lavoro in ospedale e quello che svolgo per Il Mondo dello Scrittore Network, con le relative pubbliche relazioni. Nel tempo libero mi piace leggere, guardare qualche film (selezionato) e soprattutto alcune serie televisive.

  • Quali sono i tuoi progetti futuri?

Trovare il tempo per pianificare attività future 😉 Diciamo che, al momento, potrei avere materiale sufficiente per una nuova silloge e sto tentando, a tempo perso, di portare avanti un racconto lungo.

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DIECI DOMANDE AD ANDREA RAVEL

Dieci domande ad Andrea Ravel, a cura di Claudio Arnaudo

Il Longobardo è un libro scritto a 4 mani e si è classificato secondo nel concorso indetto da EEE per i romanzi storici. Questa l’intervista curata da Claudio Arnaudo ai due autori.

Il Longobardo

Siete padre e figlio, e scrivete in coppia, perché avete scelto di utilizzare uno pseudonimo invece dei vostri veri nomi?

Potremmo rispondere che i nostri nomi e cognome sono molto lunghi e occuperebbero una buona parte della copertina del libro. Questo è sicuramente vero, ma il motivo principale che ci ha spinti a scegliere uno pseudonimo è che Andrea Ravel è un elegante nom de plume, facile da ricordare e fa pensare subito a Ravello. Il nostro progetto, infatti, è quello di raccontare una saga familiare in più libri e ci piaceva l’idea che fosse proprio un membro della famiglia a scriverne la storia.

A questo proposito, non è irrealistico pensare ad una famiglia con una storia così lunga e ad una genealogia ininterrotta?

Non è frequente, ma è assolutamente possibile. Pensiamo ai Savoia o ai Capetingi. In Inghilterra molte famiglie nobiliari risalgono all’epoca della conquista normanna. Io stesso ho un amico i cui antenati sono entrati in Italia al seguito di Carlo Magno.

Perché avete scelto di scrivere un romanzo storico? E’ un genere che richiede molto lavoro di documentazione ed è facile commettere errori o anacronismi.

Siamo entrambi appassionati di romanzi storici e d’avventura e volevamo provare a scrivere una delle storie che ci sarebbe piaciuto leggere. Per quanto riguarda gli errori se ne possono commettere scrivendo qualsiasi opera di finzione. Siamo certi di averne commessi anche in “Terra di conquista” (speriamo pochissimi).

Potete fare qualche esempio di errori evitati?

Cominciamo da uno evitato per caso: nella prima stesura del romanzo uno dei personaggi dice che gli piace la minestra di zucca. In una revisione successiva abbiamo eliminato la frase perché non ci piaceva, ma solo successivamente ci siamo ricordati che zucca è originaria dell’America e fino al XVI secolo non era conosciuta in Europa.
In un altro caso, un amico a cui abbiamo fatto leggere la bozza del manoscritto ci fatto notare che l’espressione “a pochi pollici dal mio viso” non era possibile all’epoca perché il pollice è un’unità di misura anglosassone.
Per finire, l’editore ci ha segnalato che non era opportuno scrivere “nello spazio di un’ Ave Maria”, perché la preghiera con il saluto a Maria risalirebbe al XVI secolo. L’abbiamo sostituita con “nello spazio di un Pater.”

Perché avete deciso di pubblicare in formato e-book?

L’e-book non è solo un diverso supporto su cui leggere, ma è anche un modo diverso di approcciare il prodotto libro da parte di tutti: autore, editore, distributore e lettore.
Finora il mondo dell’e-book è stato esplorato solo molto parzialmente e non ne sono state sfruttate tutte le enormi potenzialità, soprattutto in Italia. Tuttavia presenta già oggi alcuni aspetti positivi: garantisce una distribuzione universale e immediata (basta un click), costi di pubblicazione contenuti e, di conseguenza, prezzi più bassi per i lettori. Alcuni editori più coraggiosi e lungimiranti lo hanno capito ed hanno puntato sull’editoria on-line; grazie a loro molti aspiranti scrittori hanno potuto diventare scrittori effettivi senza dover passare attraverso le forche caudine della stampa e della distribuzione fisica, operazioni che gravano sul prezzo di copertina di un libro senza fornire in cambio alcun vantaggio al lettore. Comunque “Terra di conquista” avrà anche il formato cartaceo, per chi proprio non può farne a meno.

Qual è, secondo voi, la giusta proporzione tra storia e finzione in un romanzo?

Non esiste un mix ideale. Chi scrive un romanzo storico non dovrebbe mai dimenticare di essere prima un intrattenitore, e poi uno storico. La cosiddetta “verità storica” deve scaturire dalla trama e dalle azioni dei personaggi. Inoltre la relazione tra storia e finzione dipende dal periodo storico: scrivendo dell’epoca dei Longobardi non esiste una grande quantità di storia documentata e il narratore ha a disposizione uno spazio più ampio per integrare con la sua fantasia o introdurre elementi avventurosi.

In “Terra di conquista” utilizzate la narrazione in prima persona. Non credete che un romanzo ambientato nel Medioevo possa risultare poco credibile se scritto in prima persona?

La vera difficoltà della narrazione in prima persona è che è difficile fornire al lettore informazioni che il protagonista non conosce e questo rende il lavoro dello scrittore più difficile. Ma la trama e la struttura del romanzo non ci lasciavano scelta. Solo Giulio Cesare scriveva di sé in terza persona!

Avete scritto una corposa nota storica. La ritenete indispensabile in un romanzo storico?

Non pensiamo sia obbligatorio, ma secondo noi è una buona pratica. Chi legge ha il diritto di sapere quale sia la storia reale e quale quella inventata, così come deve conoscere quali sono le libertà che l’autore si è preso. Un altro elemento importante è la bibliografia, nella quale il lettore può trovare ulteriori informazioni e approfondimenti.
C’è però un aspetto che vorremmo mettere in risalto: “Terra di conquista” ha richiesto tre anni di lavoro preliminare sulle fonti originali, visite a musei e siti archeologici e la lettura di decine di saggi. Alla fine tutto questo patrimonio di informazioni è stato filtrato dalla narrazione e quasi non si nota leggendo il romanzo. Ed è bene che sia così, perché riteniamo che un narratore scriva per raccontare una storia e non per fare sfoggio di cultura.

Quali scrittori vi hanno ispirato di più?

Oggi il romanzo, soprattutto quello storico e d’avventura, è anglosassone, e i modelli non possono che venire da lì. Tra i contemporanei metteremmo al primo posto Tolkien bravissimo nel creare un universo fantastico perfettamente plausibile. Poi due ladies, Dorothy Dunnet e Hilary Mantel: di loro ci piacerebbe possedere il rigore e la capacità di evocare con assoluta precisione epoche e situazioni. Patrick O’Bryan è un punto di partenza fisso per chi vuole scrivere di una coppia di protagonisti. A John Grisham ci siamo ispirati per lo stile, asciutto e semplice, ma con un vocabolario abbastanza ricco, e per la fluidità nella costruzione dei periodi. Tra i grandi del passato Dumas padre per il mix perfetto tra storia e avventura. Fuori dal mondo anglosassone e sopra a tutti Umberto Eco. Lui è il romanzo!

Quanto è difficile scrivere in due? Vi capita mai di essere in disaccordo o di litigare?

Molto spesso e quasi su ogni cosa, ma se non fosse così scrivere sarebbe veramente noioso!

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Crepuscoli di luce

Crepuscoli di luce: La notte non può durare per sempre

Crepuscoli_di_luceCrepuscoli di luce è la nuova silloge poetica di Andrea Leonelli, un passaggio attraverso il quale si ricongiunge un passato doloroso e catartico con un presente in cui, cadute le maschere, il poeta ritrova lentamente se stesso e la propria identità. L’espressione del linguaggio accentua lo stile tagliente e mai scontato, utilizzando parole in cui il significato viene stravolto a favore di una nuova intensità emotiva. E sono proprio le emozioni a creare la poesia stessa, trasformando la negatività in quella lirica che si eleva al di sopra degli animi, portando i versi verso un’eternità costituita da sprazzi di luce oltre la tenebra. “La notte non può durare per sempre” (cit) ed è da questo punto fondamentale che l’uomo ricomincia a vivere, cedendo all’esistere con la stessa voluttà con cui si potrebbe cedere a un’amante. Lo spirito si rinnova calpestando le schegge del proprio passato, mentre l’anima si avvia verso una guarigione cercata e voluta.

Crepuscoli di luce offre ai lettori sia l’uomo che il poeta, sia la lirica che la realtà, senza compromessi né sotterfugi che potrebbero creare false illusioni. Questo è reale, questo è vivere. Al di là della concezione materiale dell’esistere quotidiano e delle false icone che l’ambiente propina. Messo a nudo, resta solo l’Essere, con i propri dubbi e le proprie speranze, un uomo che non accetta la sconfitta emotiva come un fattore prestabilito o come un retaggio dato dall’essere umano. Esiste, sempre e in ogni caso, l’alba che porta a nuova luce e a nuovi respiri. Così come esisterà sempre un crepuscolo nel quale rilassare le membra e trovare, all’interno del proprio intimo, la ragione di esistere.
Andrea Leonelli non delude mai e la sua lirica arriva a corteggiare direttamente l’anima. Tuttavia, diversamente dalle precedenti sillogi, Crepuscoli di luce apre le porte a una speranza inaspettata, senza mai rinunciare allo stile inusuale con cui il poeta ha sempre espresso i propri versi. Ed è da questa nuova combinazione che la poetica trae il massimo vantaggio, diventando emozione pura.

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Intervista a Lory Cocconcelli

Intervista a Lory Cocconcelli

Il Continente Nero racchiude in sé le origini dell’umanità e della cultura, nonché le radici dei misteri che hanno costituito la base per il folclore che accomuna molti popoli. In questo saggio, Lory Cocconcelli affronta la magia africana con lo spirito neofita di chi approda in una terra ricca di colori, odori e suoni, e scopre come la tecnologia moderna possa serenamente convivere con rituali antichi come il tempo stesso. Ma non vi è contraddizione, solo la conservazione di superstizioni e pratiche che, a tutt’oggi, fanno parte della cultura quotidiana. L’autrice ha affrontato questo viaggio nella magia non solo da un punto di vista puramente folcloristico, ma anche ricercando, da vera studiosa, tutte quelle nozioni che avrebbero potuto avvalorare alcuni aspetti tipici delle credenze locali. Dunque, Africa è un libro in grado di avvicinare la mentalità europea a quella africana, offrendo punti di vista del tutto inaspettati.

  • Perché hai deciso di scrivere un saggio su questo argomento. Cosa ti ha spinta a farlo?

Ho deciso di scrivere questo saggio per portare alla luce alcuni aspetti poco conosciuti della cultura africana – anche se occorrerebbe parlare di culture dal momento che i popoli neri sono tanti e ognuno vanta le proprie tradizioni -. Aspetti che si possono scoprire soltanto vivendo sul territorio a stretto contatto con i locali e non come semplici turisti.
Noi occidentali vediamo l’Africa attraverso la lente distorta dei media che focalizza immancabilmente l’attenzione su malattie, arretratezza e povertà del continente. Ma c’è di più, molto di più. Mi riferisco a un universo culturale, etnico e religioso che vale la pena conoscere e approfondire perché l’uomo moderno – cioè noi – deve le sue origini proprio a questa area del mondo.
E’ stato durante il mio primo viaggio in Senegal che ho iniziato a raccogliere le testimonianze riportate nel libro, che focalizza sì l’attenzione sull’Africa occidentale, ma che rispecchia per i suoi contenuti quasi tutti i paesi del continente.
Il “la” mi è stato dato da un ragazzo burkinabé, conosciuto al Centro Culturale Francese di Dakar, assunto in seguito come body guard (figura della quale mi avvalgo ogni volta che soggiorno in Africa, quand il le faut…). Ebbene questo ragazzo, di fede animista, con i suoi racconti mirabolanti di streghe e stregoni, mi ha introdotta a poco a poco nel culto cardine, nelle tradizioni e nei costumi del continente nero.

  • In che modo sei venuta a conoscenza degli usi, costumi e tradizioni locali? E quali sono state le ricerche che hai fatto?

Vivo in Africa quattro mesi l’anno, buona parte dei quali trascorsi a contatto con gli africani.
Sono una persona curiosa per natura, mi piace immergermi nel contesto nel quale mi trovo. Credo che lo scambio sia molto importante. E’ grazie al dialogo con le persone che si possono instaurare rapporti, comprendere le diversità e arrivare a formulare considerazioni.
Nell’Africa occidentale ho sempre e soltanto vissuto nei “quartieri neri”, ciò significa niente asfalto, acqua e corrente che vanno e vengono, pasti cucinati da ristoratrici improvvisate e sabbia e galline e capre ovunque (nella parte orientale, in cui sono stata recentemente per evitare il virus ebola, mi sono concessa qualcosa in più).
Con gli africani ho anche lavorato, ho instaurato amicizie che durano a tutt’oggi. Senza quella condivisione, di spazio e di tempo, e senza la fiducia reciproca, non avrei raccolto le testimonianze che sono riportate nel libro perché certe cose, quelle di cui io parlo in alcuni passaggi, i neri non amano divulgarle. Diciamo pure che hanno un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di certi argomenti. Per questa ragione, il ragazzo burkinabé che mi ha introdotta nel mondo animista e aiutata a raccogliere testimonianze intervistando per mio conto marabouts e féticheurs, non ha voluto che il suo nome comparisse per esteso nel libro.
Per cultura, noi occidentali abbiamo la tendenza a razionalizzare, a incasellare le cose, i concetti e perfino le ideologie, laiche o religiose che siano. Io per prima, a un certo punto, mentre scrivevo la prima bozza del libro, non essendo un’accademica, ho sentito il bisogno di rapportarmi con le fonti cosiddette scientifiche. Ho trascorso vari mesi nella biblioteca universitaria di Dakar, cercando di dare un nome a ciò che mi veniva raccontato, di trovare riscontri, di comprendere come antropologi ed etnologi giustificassero le pratiche animiste e di come le avessero incasellate e classificate nel corso del tempo. Ne è uscito un quadro interessante che ha messo in risalto una certa dissonanza non soltanto tra il pensiero africano e quello europeo, ma anche tra gli stessi enunciati della scienza.

  • In che modo ti sei posta nei confronti delle tradizioni africane? Con l’occhio disilluso, cinico e disincantato degli occidentali o con un atteggiamento più aperto e più simile a quello naturale e quasi, se possiamo dirlo, più ingenuo delle popolazione con cui sei venuta a contatto?

 Ho cercato di liberarmi dei miei preconcetti – venendo da un’altra cultura era inevitabile che ne avessi -, di aprire la mente e di ascoltare. Penso di esserci riuscita. Quanto al cinismo e al disincanto, non ritengo siano atteggiamenti costruttivi quando ci si rapporta con le tradizioni di un popolo.
Devo dire, però, che certe convinzioni su cui fa perno l’animismo africano restano per me incondivisibili, pur avendone compreso i meccanismi. Comprendere non significa necessariamente aderire quanto piuttosto capire.
Ciò che sostengo con forza, qui e nel libro, è che il patrimonio culturale nero, non deve essere sminuito perché proprio di una parte del globo considerata arretrata. Esso racchiude in sé un universo di proporzioni strabilianti che, condivisibili o meno, sono espressione di tradizioni millenarie.
Dei popoli africani abbiamo una visione stereotipata che li vuole ignoranti, creduloni e arretrati. Se le classi dirigenti dei nostri paesi “evoluti” ci avessero deliberatamente privato dell’istruzione, saremmo certamente ignoranti anche noi, ma ciò non avrebbe influito sulla scelta della nostra appartenenza religiosa.

  • Quanto di quello che ti circondava ha influenzato il tuo modo di vivere e di vedere gli avvenimenti quotidiani?

Dagli africani ho imparato ad affrontare la vita con un pizzico di scioltezza in più, a cogliere il lato migliore delle cose, a vivere il tempo senza rincorrerlo. Il nero è pigro, si muove con i suoi tempi. Accogliente, vitale e ottimista, conserva una sorta di purezza che noi occidentali abbiamo perduto. Non è mai bene generalizzare quando si parla di un popolo – sarebbe come definire gli italiani una manica di mafiosi truffaldini o affermare che tra i neri non ci sono persone dinamiche, false o disoneste – ma qualche tratto comune, dopo vari anni trascorsi in diversi paesi dell’Africa, posso permettermi di delinearlo. Faccio riferimento, ovviamente, all’africano del popolo, non al politico o al businessman (che fanno parte di una categoria a sé).
Quanto all’animismo di cui ho scritto, non credo che abbia influenzato il mio modo di vivere o di vedere gli avvenimenti quotidiani. Non porto un amuleto, e quando sono in Africa e ho un problema di salute non consulto un guaritore ma un medico, non per sfiducia ma perché i nostri farmaci e i nostri metodi diagnostici (quasi sempre) sono più rapidi ed efficaci. Riguardo streghe e féticheurs, il loro operato è testimoniato dalla sentenze delle Corti Penali dei tribunali africani, ma io non sono mai stata interessata a testare di persona i loro cosiddetti poteri. Lascio all’Africa ciò che è dell’Africa. Se il mio compagno dovesse lasciarmi, non ricorrerei di certo a un sortilegio per farlo tornare da me.
Ciò in cui io credo, e in cui ho sempre creduto, non è mutato. Semmai, ora, ha confini più ampi.

  • Come vivi i tuoi periodici addii alle radici occidentali e a quelli delle nuove radici africane?

Un poeta scrisse “partire è un po’ morire”. Metafora un tantino drammatica.
Direi che mi si addice di più “Chi viaggia vive la sua vita due volte”.
Per quanto mi riguarda, parto per l’Africa ogni volta con entusiasmo pensando a ciò che mi attende e rientro felice, con il desiderio di riabbracciare i miei affetti.
In una vita precedente devo essere stata una nomade!
Scherzi a parte, quando lascio l’Italia mi allontano dai miei cari, mi privo delle mie abitudini e delle piccole cose che mi sono famigliari ma è per andare in un luogo che mi piace, che desta in me un vivo interesse, che mi sazia di sole, sorrisi, paesaggi, odori e colori.
Gli addii li vivo molto serenamente.

  • Tu soffri il famoso mal d’Africa divenuto popolare attraverso le pagine di Karen Blixen?

Tra tutti i paesi in cui sono stata, quelli africani sono quelli che mi hanno regalato le emozioni più forti. Forse è per questo che amo tanto l’Africa. Non manco di realismo, però, e non posso non sottolineare che nella sua immensa bellezza sa anche essere molto dura e mostrarsi, talvolta, un concentrato di molti mali (per dirla alla Thomas Sankara).
Ma veniamo a Karen Blixen. L’autrice ambientava il suo libro in un’area ben precisa del continente, l’altipiano del Ngong. Le descrizioni dei paesaggi, peraltro superbe, dei tramonti, degli animali selvaggi non rispecchiano l’Africa intera, come pensa chi non c’è mai stato, ma riguardano quei luoghi in particolare. Luoghi bellissimi, che io ho visitato, ma che non possono far insorgere un generico “mal d’Africa” quanto piuttosto uno specifico “mal di Kenya”. La Blixen, con la sua visione romantica, ammantava la “sua Africa” di pace e purezza; la realtà è un po’ meno dorata.
Gli africani che non arrivano a mangiare due volte al giorno o a pagarsi le cure mediche non soffrono il mal d’Africa. “Male” che insorge nelle persone mediamente agiate, nei turisti o nei viaggiatori che non sono costretti a subire ingiustizie e povertà, e che preferiscono il continente nero ad altri luoghi per una serie di motivi che io comprendo bene e condivido.

  • C’è qualche episodio particolare, fra tutte le esperienze che hai vissuto, che ti ha colpito maggiormente?

Gli episodi sono vari…
Un soldato dell’esercito che, dopo aver fatto inginocchiare un nero, colpevole di aver tentato una rapina ai danni di un Casinò, gli spara un proiettile in testa, alle cinque del pomeriggio, sul ciglio della strada di fronte al supermercato dal quale sto uscendo.
Un giardiniere (africano) che viene ferito nel corso di una rapina a mano armata nella villa di un facoltoso inglese per il quale lavora, che si rifugia, terrorizzato, nel Resort confinante scavalcando il muro di cinta, dove io ho appena finito di cenare. Il manager della struttura, un italiano, si rivolge a lui urlando: “Stai sanguinando cazzo! Mi sporchi il pavimento della reception, almeno vai sull’erba, stronzo!”
Gatti randagi coccolati da turisti di varie nazionalità, rimpinzati di biscotti sulla spiaggia, mentre bambini malnutriti osservano la scena.
Un bambino che, a distanza di tre anni, viene a stringermi la mano per ringraziarmi di un pallone che gli avevo regalato e di una letterina che gli avevo scritto, e che mi dice di conservarla ancora.
Un féticheur che vuole farmi bere una pozione magica come segno di benvenuto e si incaz.. di brutto quando rifiuto, e il mio body guard che sbianca letteralmente!

  • Come il folklore africano si inserisce nel contesto del terzo millennio?

Le nuove generazioni “urbanizzate” indossano t-shirt di Dolce e Gabbana (un must have), jeans e cappellini da rapper, ma sotto i loro abiti non è difficile veder spuntare un talismano.
L’Africa delle grandi città, ma anche quella degli agglomerati minori in cui i neri vivono a contatto con i bianchi, è un potpourri bizzarro; gli occidentali vogliono trovare tutto ciò che sta a casa loro, comfort, abbigliamento di tendenza, tecnologia, centri commerciali,… ed è fisiologico che i locali assimilino qualcosa di tutto ciò che si vedono passare sotto il naso. Mi è capitato di vedere musulmani in boubou che indossavano scarpe da ginnastica da cestista; Masai, con il loro abito tradizionale e la classica tanica di sangue tra le mani, fotografarsi a vicenda davanti al pupazzo di Babbo Natale; donne anziane a petto nudo (in Africa a una certa età è concesso e nessuno si scandalizza) offrire banane a turiste esterrefatte.
Diversa è invece la situazione nei villaggi remoti, meno (o per niente) contaminati dalla modernità e dal contatto con altre culture.
Il folklore è parte integrante della cultura di un popolo e ritengo che dovrebbe essere preservato. La globalizzazione mica si può divorare anche quello!

  • Quando Lory non scrive come occupa il suo tempo?

Se parliamo del mio tempo libero, quando non scrivo leggo (cosa, dipende dal mio stato d’animo o dall’interesse del momento), faccio attività fisica (se non mi muovo, sono come un leone in gabbia!) e ascolto musica (prevalentemente reggae e R&B). In cucina sono un disastro anche se mangiare mi piace molto… cibo italiano, africano, messicano, thai e indiano, soprattutto. Non sono molto mondana ma qualche seratona, in Italia come in Africa, me la concedo, adoro ballare!

  • Quali sono i tuoi progetti futuri sia in campo letterario che personale?

Per ciò che attiene al campo letterario, sto già lavorando a un secondo libro, sempre sull’Africa. Sono racconti brevi, di sapore naif, simili a quello della “Donna serpente” che apre il saggio. Vicende di stregoneria e storie macabre, sospese tra la leggenda e la realtà.
Per ciò che attiene al campo personale, ho un progetto ambizioso: trovare uno stregone potente che riporti in vita Bob Marley!

Jere jef (grazie)

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Intervista ad Andrea Tavernati

Intervista ad Andrea Tavernati.

l'intima essenzaUna forma d’arte antica, l’Haiku, che racchiude il cuore e l’anima di ogni istante, descrivendolo in poche sillabe. Un genere che potrebbe sembrare adatto ai nostri tempi moderni ma che, al contrario, incarna un invito alla riflessione e a considerare delle tempistiche che si discostano molto dalla frenesia odierna. Andrea Tavernati, autore del libro pluripremiato “L’intima Essenza”, espone in questa intervista i suoi punti di vista, in più parole di quelle che caratterizzano la stringente metrica dei suoi haiku, su argomenti che riguardano non solo la poesia.

  • Coma nasce la tua passione per questo tipo di composizioni?

In realtà molto lentamente. Mi sono imbattuto in questo genere poetico già durante l’adolescenza e mi ha incuriosito per la sua peculiarità. A quell’epoca risalgono i primi esperimenti. Poi mi sono progressivamente ritrovato a comporne in modo via via più sistematico, ma ancora oggi alterno momenti più “ispirati” a lunghi periodi durante i quali non scrivo neanche un haiku, o meglio non sono attraversato dal vento degli haiku, perché sono sempre più convinto che la volontà individuale in questo caso non conti davvero molto.

  • Quanto tempo ti richiede la stesura di uno dei tuoi haiku?

E’ molto variabile. Parto da un’intuizione, un’immagine, una sensazione o una sola parola. L’haiku si condensa intorno a questo nucleo iniziale. Talvolta in modo fulmineo. Altre volte l’idea mi naviga in testa per settimane o mesi senza prendere una direzione precisa; talvolta me ne dimentico e poi riaffiora da sola, senza una ragione precisa. Poi, quando la struttura dell’haiku è abbastanza ben definita, entra in gioco un lavorio più formale per ottenere il suono più adatto, i significati più precisi e l’andamento più consono all’emozione che cerco di esprimere. Ma in genere quest’ultima fase si sviluppa abbastanza rapidamente.

  • Che intervallo di tempo copre l’Intima Essenza, quanti anni di vita ci sono dentro?

Potrei dire tranquillamente che c’è dentro tutta la mia vita, anche perché non è una biografia esteriore, ma interiore. I fatti dell’animo hanno un tempo loro, campiture lente e improvvise accelerazioni che, in superficie, nella vita esteriore, a volte si rifrangono all’improvviso in avvenimenti irrazionali, che, agli occhi altrui, rimangono incomprensibili. Mentre nel sottosuolo dell’interiore vivono una realtà autonoma di cui la manifestazione poetica è una piccola spia, una presa di coscienza che chi scrive attua su se stesso con intento maieutico. Scrivere è, prima di tutto, un modo per interrogarsi e provare a capirsi.

  • Sei appassionato dell’oriente in genere o solo di questo tipo di forma espressiva?

Non sono un esperto di cultura orientale e non sono arrivato all’haiku per questo motivo. Al contrario, approfondendo le ragioni espressive e storiche dell’haiku ho scoperto un universo culturale diverso dal nostro e molto stimolante, che sto ancora imparando a conoscere, confrontandolo con le mie radici europee.

  • Fra le tue altre passioni c’è senz’altro l’arte, cosa ti affascina e ti spinge a cercare di capirla?

Provo da sempre uno straordinario interesse per tutte le forme di comunicazione che non hanno una finalità pratica, ma che si pongono come un tentativo di comprendere ed esprimere l’uomo e il suo rapporto con il mondo. Le arti figurative nel loro insieme e la musica sono esperienze complesse, al pari con le opere letterarie, e nelle loro manifestazioni più alte costituiscono la sintesi di un modo di essere e vivere. Mi interessano i grandi progetti, le visioni e le rivoluzioni che hanno cambiato e cambiano per sempre il modo in cui l’uomo pensa se stesso. Il Rinascimento artistico inventato da un manipolo di geniali artefici a Firenze, l’immenso edificio armonico di Bach, l’instancabile indagine sul percepire/sentire di Monet, la rivoluzione del vedere di Caravaggio, per esempio…

  • Tu che sei un pubblicitario, come vedi la possibilità, per un esordiente, di farsi conoscere a un pubblico abbastanza vasto?

La strada è tutta in salita! L’offerta di autori, anche di qualità, eccede notevolmente la domanda di un pubblico che legge sempre meno e sempre peggio. Quello da affrontare è un lavoro lento e continuo che l’autore non può più pensare di demandare completamente al ruolo dell’editore. Ogni occasione per incrementare la propria awareness, la propria notorietà, come dicono i pubblicitari, deve essere sfruttata. In questo senso il mondo digitale offre una costellazione quasi illimitata di opportunità a costo zero, o bassissimo, che l’autore può affrontare anche autonomamente. Non ci si deve aspettare però risultati fulminei o eclatanti. Anche il digitale è affollatissimo di voci e discernere la qualità vera non è facile. Occorre non perdere la pazienza e insistere essendo ben coscienti che non c’è nulla di scontato né di dovuto.

  • Qual è la tua opinione sul mondo editoriale attuale?

Prima di tutto, riallacciandomi alla domanda precedente, ritengo che il ruolo dell’editore sia ancora fondamentale, in quanto talent scout e promotore della conoscenza di un autore. Se può nascere qualcosa di buono, è dalla collaborazione tra autore ed editore. L’editore deve credere in quello che pubblica e l’autore non deve pretendere che il compito di promuoverlo sia solo affare dell’editore. Personalmente penso anche che l’editore debba svolgere un ruolo fondamentale come selettore all’ingresso: insomma deve poter dire di no su basi puramente qualitative, per quanto soggettive. Di conseguenza non credo nell’editoria a pagamento e nemmeno nel cosiddetto self publishing: una scorciatoia che ignora il vero problema, il quale non è come ritrovarsi tra le mani un prodotto stampato o stampabile on demand, bensì: cosa farne?
Quanto poi all’altra novità dei tempi, penso che la cosiddetta rivoluzione digitale sia inarrestabile, anche nel mondo dell’editoria. Il che non vuol dire che l’ebook sostituirà completamente il libro cartaceo, ma che le due forme convivranno, così come usiamo quotidianamente il computer, il tablet e la buona vecchia penna a sfera. Tuttavia i vantaggi pratici del digitale sono così evidenti che è ora che i legislatori e i grandi player nel mercato dell’editoria cavalchino il nuovo invece di contrastarlo.

  • Hai partecipato a diversi concorsi letterari sempre con ottimi risultati, cosa pensi del mondo dei concorsi e qual è, secondo te, la loro utilità per un poeta?

Per uno scrittore esordiente è un modo come un altro per farsi leggere e per capire se qualcuno nota del buono in quello che scrivi. Come è noto l’Italia è il paese dei concorsi e ce n’è veramente per tutti i gusti (letterari). Quelli davvero prestigiosi sono però pochissimi e in questi il ruolo delle grandi case editrici è importante. Il resto è un universo vario e a tratti pittoresco. Purtroppo i concorsi completamente gratuiti sono sempre meno, ma il contributo richiesto è per lo più minimo. Quanto agli esiti che si ottengono, penso che l’atteggiamento giusto sia quello di rallegrarsi per le vittorie e non farsi troppe domande per le sconfitte: i criteri decisionali delle giurie sono imponderabili ed imperscrutabili, oltre che inevitabilmente soggettivi.
Concludo che non bisogna neanche aspettarsi ricadute significative quando si vince: nessuno mi ha mai contattato per dar seguito al riconoscimento con qualche ulteriore iniziativa, fosse anche scrivere un articolo. Insomma, i concorsi possono far bene al morale e fanno curriculum.
Punto e a capo.

  • Cosa fa Andrea Tavernati quando non scrive?

Sarebbe più giusto chiedere quando riesco a trovare il tempo anche di scrivere! Come hai detto, di mestiere faccio il creativo pubblicitario e quindi passo buona parte della mia settimana sul posto di lavoro. Essendo copywriter per fortuna il mio lavoro ha sempre a che fare con la scrittura e la comunicazione: un ottimo esercizio quotidiano. Poi ho una famiglia, collaboro con la Casa della Poesia di Como e con altre due associazioni culturali locali. Infine, leggo. Occupazione non secondaria per chi ama scrivere.

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il cantiere è sempre aperto: attualmente ho nel cassetto una raccolta di racconti inediti, che mi sono convinto, dopo lunghi ripensamenti, essere pronta per una eventuale pubblicazione. Poi sto mettendo a punto una raccolta di poesie più “classiche”, che mi pare a buon punto e nel 2015 vorrei continuare il progetto di un romanzo mainstream di ampio respiro rimasto a livello di abbozzo negli anni ’90 e che ho ripreso in mano solo l’anno scorso.

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Premio Polverini: seconda parte

Cronaca di un viaggio verso il Premio Polverini

Premio Polverini 2

Giungo sul posto. Di fronte al mare. 20° C ed è il 30 novembre.
Entro e mi guardo intorno. Ancora poche persone in giro, ma tutte particolari. Si vede che sono tutti artisti. Tutti poeti giunti per l’occasione. Li distingui dallo sguardo, dall’atteggiamento. Lo senti dalle loro parole. Ce ne sono alcuni che sembrano persone normali, che incarnano, ognuno a loro modo, quello sdoppiamento dell’anima in cui una parte vive sulla terra e l’altra parla con i sogni.
Mi prendo un caffè. Osservo, ascolto, sento quel che aleggia nell’aria assieme agli aromi del caffè e dell’aria salmastra. Esco di nuovo. È ancora presto. Continuo a osservare.
I poeti li riconosci da come camminano. Muovono i passi in modo diverso, come poggiassero i piedi su due mondi diversi. Fumano alcuni, attraversando, accompagnati dai miraggi e dai sogni, le volute che salgono, per perdersi chissà dove.
Poi, come sempre usa fare, il tempo scorre e giunge l’ora della cerimonia. Alla spicciolata, tutti ci avviamo in fila, come i minuti, come i grani di un rosario, verso la grande sala allestita per le occasioni. Sono fra i primi e posso godermi la vista di una sala ancora vuota. Sedie. File di sedie piene dei fantasmi potenziali dei poeti che le occuperanno di lì a poco, con i loro familiari, amici e altre persone che vivono in zona.
Parlando con alcuni residenti della zona, non poeti, si sente nelle loro parole che lì, ad Anzio, questo premio è molto sentito. Leandro Polverini è stato fra i personaggi fulcro della crescita di tutto il circondario, sia a livello materiale che culturale.
Inizia la cerimonia con i discorsi introduttivi.
Poi si susseguono le chiamate ai premiati e le consegne di riconoscimenti e diplomi. In ordine alfabetico. “Ho tempo”, penso, mentre ascolto i colleghi che esprimono ognuno il loro punto di vista, chi sulla poesia, chi sul proprio libro e cerco un qualcosa di originale da dire. Ho argomenti. Poi mi chiamano e passo a stringere le mani alla giuria. Salgo al leggio e tutto quello che avevo pensato sfuma. Parlo, dunque, di un qualcosa che conosco bene: il valore terapeutico della poesia. Ma l’emozione sta lì, apposta per fregarmi, anche se sono abituato, per motivi diversi, a stare davanti a persone che ascoltano. Riesco sempre a farmi cogliere da questa atmosfera di attesa che, dagli occhi degli altri, ti si punta addosso. Per cui esprimo poche parole, stringendo il discorso al suo nocciolo essenziale: riconoscere gli stati d’animo universali e sentirsi accomunati, meno soli.
Ho deciso che il discorso appena abbozzato lo affronterò per iscritto presto.

Leggo “Foglie nel vento”, traendola dal libro in questione, “La selezione colpevole”.

Foglie nel vento

Nudo, spellato, scorticato
esposto
vivo sui nervi
gli strappi dell’anima
rovesciata dagli eventi
aperta come una tenda
da una folata improvvisa
scucita dall’usura
consunta dal tempo
che ci ha girato sopra.
Nudo mi troverai
come mi cercavi un tempo
chiedendomi sogni di noi
ma la veglia anziché i sogni
ci ha slabbrato come fossimo una ferita
ci ha infettato come peste
ci ha allontanato
come foglie nel vento.

Colpisce, almeno alcuni. Comunica le sensazioni che volevo esprimere e lo sento che è piaciuta. Si percepisce nel battito delle mani, che applaudono sincere. Ripeto, almeno alcune lo erano. Sembra strano, ma in particolari occasioni, si avvertono le sensazioni che ti arrivano da chi hai di fronte con inaspettata chiarezza. Ma il tempo stringe e siamo in tanti. Scendo dalla pedana e, lasciando il leggio, perdo quasi l’equilibrio sullo scalino, stringo ancora le mani alla giuria, raccolgo sorrisi e diplomi e torno a sedere. Ascolto gli altri, i loro discorsi. Applaudo, a volte con più sincerità, a volte solo con cortesia, ai colleghi. Anche loro lo percepiranno come l’ho percepito io? Credo di sì.
Poi si arriva alla fine della cerimonia. Tutti usciamo dalla sala, lasciando in essa un qualcosa di nostro. Piano piano svanirà nel tempo, evaporerà, ma mai del tutto. Ci sarà sempre una parte di ricordo, nostro, legata a quella sala, che ci riporterà lì. Sarà sia ricordo sia seme che nuovamente germoglia. Invisibile ma presente. Un respiro di poesia che nel tempo si fonderà alla materia. E sarà nuova materia per nuova poesia.
I poeti si salutano, si dividono. Riprendono ognuno la propria strada. Passeggiando con i piedi in mondi diversi e ritrovando la strada di casa, sempre uguale e sempre diversa. Come ogni giorno. Come ogni vita che si intreccia in questo flusso. Come ogni sogno che accompagna la notte.

Andrea Leonelli

Intervista a Massimo Licari

Intervista a Massimo Licari

quando gli dei tornerannoPartendo dalle teorie di Sitchin, Massimo Licari ricostruisce un passato che si affaccia su un presente in cui nulla pare cambiato. In cui la storia, con il suo ciclico ripetersi, riflette le miserie e le follie di un’umanità restia a trarre un insegnamento dai propri errori. Potere, corruzione e fanatismo sono ancora alla base di una possibile distruzione del genere umano e, forse, questa volta non vi sarà l’amorevole mano di un Dio a salvarci.

  • Da dove hai preso spunto per una trama così particolare?

Caspita, che bella introduzione!
Potresti fare una recensione al mio libro, che ne pensi?
Dai, faccio il serio.
L’idea di “Quando gli dei torneranno” è partita da uno spunto che mi ha dato un caro amico. Mi stava raccontando di un gruppo di persone che ha deciso di vivere al di fuori della nostra società. Queste persone hanno creato una sorta di comune all’interno della quale sono liberi di professare la loro fede cercando nel contempo di vivere in armonia con la natura. C’è un tempio e, come tutte le forme di religiosità poco conosciute, si racconta che i propri membri pratichino alcuni riti misteriosi. Inizialmente, infatti, il titolo del libro al quale avevo pensato era “La congregazione”.
Poi, quando l’ho fatto leggere al gruppo di Lettura Incrociata (servizio preziosissimo, di grande aiuto per me. Grazie ragazzi!) mi hanno fatto notare che nel libro il termine “la congregazione” non era mai stato usato. A quel punto è cominciata la parte più difficile: trovare il titolo del libro.

  • I personaggi sono lontani dai classici stereotipi dell’eroe, perché questa scelta di stile?

Perché gli eroi mi annoiano.
Io credo che sia più facile immedesimarsi nella persona comune piuttosto che nel personaggio che, senza paura, è capace di affrontare e sbaragliare i “nemici”. La domanda che spesso mi sono fatto è: ma cosa farei io se mi trovassi in quella situazione?
Certo, l’eroe ci esalta, ci emoziona, ma trovo che sia molto lontano dal nostro modo di affrontare le situazioni. Quindi, com’era successo per “Paralleli”, il mio primo libro, ho disegnato un protagonista decisamente “normale”.

  • Quanto studio o ricerca hai dovuto svolgere per documentarti?

Grandi ricerche e notti intere senza riuscire a chiudere occhio.
Forte, vero?
Non è vero…
Ho letto diversi libri di Sitchin e per tanti anni sono stato uno studioso dei testi biblici. Diciamo che ho attinto molto dal bagaglio che mi porto dietro. Poi, ovviamente, ho fatto anche delle ricerche puntuali su alcuni aspetti specifici. Quando nel libro ho affrontato il racconto del diluvio universale, ho cercato di renderlo verosimile, facendo delle ricerche sui luoghi e sulle loro caratteristiche.
Ma sono stato anche aiutato.
Pensavo che la fascia di asteroidi che c’è tra Marte e Giove fosse un luogo difficilissimo da attraversare per il rischio di colpirne qualcuno. E così l’avevo descritto. Ma poi qualcuno (grazie Gianluca Santeramo) mi ha fatto notare che nella realtà si potrebbe attraversare la fascia senza incontrarne nemmeno uno!
Così mi sono documentato e ho dovuto riscrivere quel capitolo.

  • Quale delle tre teorie “creazionistiche” (biblica, evoluzionistica, genetica) pensi sia quella che più si avvicina al tuo modo di vedere sia l’oggi che il domani?

Nessuna delle tre. O forse tutte e tre.
Insomma, è un discorso molto, forse troppo, profondo per essere affrontato così. Se un giorno scriverò la mia autobiografia…
Scherzi a parte, la mia visione della vita si avvicina molto (anche se non è molto aderente) alla filosofia buddista. Amo definirmi un “libero pensatore”, perché sono un sincretista convinto.

  • Le teorie di Sitchin sono rivoluzionarie e sono abbracciate da molti perché spiegano quesiti a cui altre teorie lasciano delle lacune. Quanto di questa filosofia di Sitchin si avvicina al tuo modo di pensare? Quanto il tuo modo di intendere la vita traspare dal tuo scritto?

In realtà sono affascinato come molti da ciò che ha raccontato Sitchin, ma non posso dire di essere un convinto sostenitore delle sue teorie. Onestamente non posso dire che la sua filosofia influisca in modo significativo sul mio modo di pensare. Riguardo alla seconda domanda, nei miei scritti c’è sempre un “pezzo” di me. A volte ci sono io, a volte c’è qualcuno che mi somiglia parecchio, e altre volte c’è qualcuno che vorrei essere o che sono stato.

  • Chi è il reale antagonista del tuo protagonista? Lo stesso essere umano con i suoi limiti e le sue incertezze? O piuttosto la natura o qualche altra entità (dio, alieno, altro)?

Ah, c’è un antagonista?
Ehm… ho una domanda di riserva?
Va bene, rispondo.
Apparentemente gli antagonisti sono i membri della setta “I servi di Cristo”, o meglio, i cosiddetti “capi” della setta. Quando però il protagonista riesce a parlare con il fondatore della setta che gli spiega il perché del suo folle progetto, cominciano a venire i dubbi. Certo, il suo è un folle progetto, ma ha un senso logico e preciso. E allora ci si rende conto che il vero nemico dell’umanità, e quindi, in ultima analisi, del protagonista, è l’umanità stessa, con il suo insensato modo di vivere.

  • Quando gli dei torneranno cosa accadrà realmente?

Beh, bisogna aspettare che scriva il seguito del libro…
Ok, ok. Rispondo.
Secondo me se gli Anunnaki tornassero davvero, sarebbe un bel problema. Sitchin dice che siamo stati creati per essere usati come uomini di fatica. Di base, quindi, per loro siamo dei veri e propri schiavi. Ci potrebbero considerare loro pari?

Non credo. Abbiamo fatto fatica a considerare nostri pari altri esseri umani, la cui unica differenza era il colore della pelle. In questo caso noi siamo davvero una razza diversa, anche se abbiamo in noi una parte del loro patrimonio genetico.
Ma gli dei torneranno?

  • È cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere, a tuo parere, rispetto al tuo primo libro “Paralleli”?

Sono probabilmente più naturale, meno teso. Mi diverto di più. È stato divertente scrivere “Paralleli”. Ma con questo secondo libro mi sono divertito molto di più.
Qualcuno mi ha detto che si percepisce una maggiore sicurezza nel mio modo di scrivere.
Grazie Sauro Nieddu.
Ma sono consapevole di dover fare ancora molta strada. Entrare nel mondo degli scrittori mi ha portato a leggere molto di più, soprattutto a leggere esordienti come me, cosa che capitava molto di rado.
Quando leggi un autore famoso, un nome a caso: Stephen King, il maestro, dentro di te dici: caspita, come scrive bene. Ma lui è Stephen King e io sono Massimo Licari. Quando invece leggi un esordiente come te e ti rendi conto di come scrive bene, beh, la cosa cambia. Io sono Massimo Licari, ossia un perfetto sconosciuto esordiente, e lui è Mario Rossi, un altro perfetto sconosciuto esordiente. Ma come scrive bene!
Così mi sono reso conto di aver fatto il primo gradino di una scala enorme.
Bravo! Hai fatto il primo gradino! Ma quanta strada devi fare ancora?
Spero che il mio modo di scrivere cambi ancora e poi ancora.

  • Quando Massimo Licari non scrive, come occupa il proprio tempo?

Purtroppo una gran parte del tempo è occupata dal mio lavoro. Anche se devo ammettere che il mio lavoro mi piace molto (dovrei dire che mi diverte, ma ho già detto che mi diverto a scrivere. Poi sembra che passo il mio tempo da un divertimento all’altro…).
Il lavoro occupa una gran parte del mio tempo e non sono ancora riuscito a trovare la formula per allungare le giornate a cinquanta ore.
Poi c’è la mia numerosa famiglia, la mia compagna, il bimbo che da meno di un anno monopolizza il nostro tempo e le nostre attenzioni, e per loro c’è una parte cospicua del tempo che rimane, e che non è mai abbastanza.
Rimane la notte. Quando Noah, l’ultimo arrivato ma il più esigente e rumoroso bambino che ho la fortuna di avere, comincerà a dormire tutta la notte, probabilmente tornerò a scrivere regolarmente.

  • Quali sono i progetti futuri?

Prima di tutto sopravvivere.
Un bimbo o ti ringiovanisce o ti ammazza. Sto facendo di tutto per far pendere la bilancia sulla prima opzione. Non è facile e non è detto che ci riesca. Ammesso che sia ancora tra voi a lungo, mi piacerebbe scrivere la continuazione de “Quando gli dei torneranno”.
L’ho immaginata come trilogia. Ma il numero due e il numero tre della serie sono ancora tra le sinapsi. Mi sono anche avventurato nel genere noir, e spero di riuscire a completare quello che ho iniziato. Intanto, riuscire a rispondere a questa intervista è stato un buon successo.
Si comincia dalle piccole cose, no?

Quando gli dei torneranno

Quando gli dei torneranno, cosa accadrà?

quando gli dei torneranno

Massimo Licari prende spunto dalle teorie rivoluzionarie di Sitchin per tratteggiare un romanzo decisamente inusuale. Diversi sono i generi che si avvicendano, offrendo al lettore una trama articolata ma, al contempo, semplice nel messaggio insito fra le righe. Al centro di tutto vi è l’essere umano con i suoi pregi e difetti e con tutte quelle peculiarità che lo rendono sordo a ciò che la storia potrebbe insegnare. In tutto questo, lo zampino degli Dei, veri o presunti che siano, aleggia fra le pagine di un passato che potrebbe diventare un probabile futuro. Quando gli dei torneranno è un romanzo che saprà soddisfare diversi palati.

La trama:

Quando gli dei torneranno si ispira agli scritti di Sitchin e alle sue teorie sull’origine della civiltà sumera e la storia si dipana su un doppio piano temporale: trentamila anni fa ed oggi.
Trentamila anni fa, il mitico popolo degli Anunnaki, abitante del pianeta Nibiru, arriva sulla Terra alla ricerca di oro, indispensabile per stabilizzare l’atmosfera del loro pianeta. Uno di loro, Enki, rivela in un diario le motivazioni che li hanno spinti a stimolare l’evoluzione di scimmie terrestri, e ad agire quasi come “Dei”, creando l’Homo Erectus prima e l’Homo Sapiens poi.
A causa dell’indole violenta dell’uomo, gli Anunnaki decidono però di eliminare la razza che hanno creato, inondando il bacino naturale in cui vive, corrispondente all’odierno Mar Nero. Enki, convinto che nell’uomo ci sia comunque del buono, salva l’umanità dall’inondazione spiegando a Noè che cosa deve fare. Il suo obiettivo è aiutare l’umanità perché riesca a vivere pacificamente e in armonia con il pianeta fino al prossimo passaggio di Nibiru all’interno del sistema solare. Quando gli Dei torneranno, secondo Enki, troveranno una società umana giusta e armonica.
Nel presente, un finanziere italiano appassionato di archeologia, Luca Terenzi, è entrato in possesso di un antico manoscritto, proprio il diario di Enki.
Terenzi è convinto che, quando gli Anunnaki torneranno nei pressi della Terra, tra circa duecento anni, completeranno la distruzione dell’uomo. Decide così di dare una “speranza” all’umanità costringendola a un nuovo inizio e, con la collaborazione di una setta religiosa, i “Servi di Cristo”, progetta la distruzione della quasi totalità degli esseri umani. A contrastarlo, soltanto un giovane giornalista freelance, con l’aiuto dell’amica e compagna Elisabetta. Poche forze, di fronte alla determinazione (e ai fiumi di denaro) di cui dispone la setta.
Ma l’umanità merita davvero di essere salvata?
Che cosa accadrà se gli “Dei” Anunnaki torneranno davvero?
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Ritorno a El Alamein: mistero fra le dune

La promozione di questa settimana.

ritorno a el alamein

Ritorno a El Alamein non è un romanzo di guerra, diversamente da quello che si può pensare, leggendo il titolo, è un libro ricco di avvenimenti, che ripercorrono un lasso di tempo in cui il passato si mescola, portando alla luce una realtà particolare e strabiliante. L’elemento sovrannaturale, filo conduttore nella trama, accompagna i protagonisti verso quella che sarà l’avventura di tutta una vita. Enea De Alberti conduce il lettore attraverso le fasi che porteranno Franz a scoprire come e perché è diventato Mario…

La trama:

Mario, un ragazzo di Arona, classe 1920, muore a vent’anni tra le sabbie di El Alamein, condividendo il destino di tanti altri giovani ai quali una guerra – una qualsiasi guerra – ha sottratto il diritto alla vita.
Trent’anni dopo, inspiegabilmente, un giovane tedesco, Franz, scopre a poco a poco che dentro di lui rivive il Mario, del quale non aveva mai neppure sentito parlare, e questa “reincarnazione” negli anni Settanta è talmente ben riuscita da convincere davvero tutti – ex fidanzata, ex commilitoni superstiti… – perché il ragazzo è a conoscenza di dettagli e avvenimenti che soltanto il vero Mario potrebbe ricordare.
Così, Mario-Franz ritrova amici e conoscenti, ed anche la ragazza di cui era innamorato, Pinuccia, che, messa alla porta dalla famiglia, ha dovuto prostituirsi per vivere e mantenere il figlio che Mario non sapeva di aver generato. A poco a poco, il reduce redivivo ricostruisce la sua vita e quella della donna amata, ma il richiamo di El Alamein e il desiderio di ritornare là dove è morto è troppo forte. Questa volta, però, non sarà solo, ma accompagnato dalla sua donna.
L’elemento fantastico che caratterizza e rende intrigante tutta la storia è il motivo conduttore che permette una ricostruzione cruda ma convincente dell’epoca fascista prima, di alcuni scenari della seconda guerra mondiale e della lotta partigiana poi, per finire con uno scorcio dell’Italia degli anni ’70.
Un romanzo a tinte forti, ben ritmato, denso e ricco, con personaggi a tutto tondo “di carne e di sangue”, capaci volta a volta di amore o violenza, vendetta o perdono.

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Intervista a Irma Panova Maino

Intervista a Irma Panova Maino

la resa degli innocentiIl libro scritto da Irma Panova Maino affronta temi attuali e scottanti, offrendo al lettore una visione alternativa per quel che riguarda il risolvere determinati avvenimenti. Tuttavia, tutta la produzione letteraria dell’autrice ha un’impronta ben precisa, ovvero quella sfumatura sovrannaturale che sfiora il mondo del fantastico pur rimanendo ancorata al reale.

In La resa degli innocenti viene descritto un mondo molto realistico, duro e a tinte decisamente noir. A cosa è dovuta questa svolta rispetto alla precedente produzione Urban Fantasy?

Il genere noir, in realtà, non si discosta troppo dalla categoria Urban Fantasy. Difficilmente s’incontrano vampiri e mostri vari alla luce del sole (a meno che non debbano luccicare), dunque, di solito, in entrambi i casi le atmosfere sono piuttosto fosche e offrono quell’ambiguità necessaria per la creazione di trame cupe, in cui ciò che si cela nell’ombra dovrebbe suscitare paura. La resa degli innocenti è un libro che trae spunto da fatti quotidiani, da avvenimenti reali e il quotidiano spesso diventata ben più terribile di qualsiasi intreccio fantasioso che un autore possa elaborare nella propria mente.

Nella tua biografia dici di voler sostenere la crociata pro mostri, denunciando la crudezza del mondo reale rispetto a quella del fantastico. Trovi che ci sia bisogno di più concretezza e consapevolezza in questo periodo difficile?

Come dicevo prima, la realtà è decisamente più crudele e meno pietosa del mondo fantastico. Persino il più sanguinario dei mostri può suscitare la giusta pena, un pedofilo no. Mai. Al mondo d’oggi molte barriere morali sono venute meno, molti tabù sono stati sradicati al punto da far diventare “normale” ciò che non lo è. La violenza ci circonda, ne assorbiamo gli effluivi malefici in ogni momento, sia attraverso i media che nel corso delle interazioni con gli altri. Ci dimentichiamo che la violenza verbale non è affatto dissimile da quella fisica e gli effetti prodotti, purtroppo, sono alquanto simili. Quindi, più che concretezza punterei sulla consapevolezza, quanto meno la capacità di comprendere che le nostre azioni si riflettono sempre sugli altri. Dunque, se manca la tolleranza e la pacatezza, nessun dialogo può essere affrontato serenamente e le conseguenze possono diventare irreversibili.

Il personaggio di Barbara/Rian descrive una donna “normale” a cui gli eventi non hanno lasciato più nessuna ancora per legarla alla vita comune e socialmente accettata di tutti i giorni. Quando non si ha più nulla da perdere, pensi che ci si possa davvero trasformare fino a diventare un essere in preda a degli istinti primordiali?

Sì, ne sono convinta. Esiste sempre una soglia oltre la quale l’essere umano perde la propria umanità. Questo limite è diverso per ognuno di noi, ma reale e concreto. Nessuno può sopportare all’infinito. Inoltre, in un periodo come questo, in cui viene a mancare la certezza della pena, le persone tendono a delimitare i propri confini in modo ancora più drastico. Se questo fatto sottolinea lo stato d’insicurezza in cui viviamo, pone anche l’accento sulle problematiche sociali che portano a reazioni impensabili.

Quanto dell’autrice risiede in Rian? E quali altre parti di te hai utilizzato per gli altri personaggi? Sono comunque “tuoi” o hai preso ispirazione da altri per costruirli?

Rian riflette molto del mio carattere, del mio modo di pensare e di agire. Forse, fra tutti i personaggi che ho descritto fino ad ora, lei è quella che mi assomiglia di più. Persino nella fase depressiva. Qualcuno ha scritto: “la depressione non è altro che rabbia inespressa”. Per mia esperienza personale trovo che sia decisamente vero. Il non poter esprimere, anche con i dovuti modi, ciò che agita il nostro animo, porta a quella compressione che, prima o poi, è destinata comunque a esplodere. In quanto agli altri miei personaggi, in ognuno di loro c’è quasi sempre qualcosa di me, a parte qualche rara eccezione.

Metti molta cura nella descrizione dei dettagli delle scene. Cosa ti aiuta a farlo così bene?

Osservo spesso il mondo che mi circonda, con questo non penso di essere un profondo conoscitore dell’animo umano ma l’età, e l’esperienza, mi hanno spesso condotto per vie impervie, portandomi ad affrontare diverse branche dell’umanità stessa. Credo che la sensibilità, che consente di cogliere le varie sfumature, sia uno strumento utile in mano a qualcuno che voglia scrivere. Non voglio prendermi il merito per un qualcosa che la natura ha così generosamente deciso di darmi, tuttavia, cerco di usare questo “dono” al meglio che posso.

Quando scrivi, lo fai di getto o preferisci rivedere di volta in volta ogni singolo capitolo? Quanto lavoro ti richiede ogni libro?

Di solito scrivo di getto le trame, la prima stesura scaturisce in breve tempo. I problemi nascono con le riletture successive. Molte scene d’azione vanno lette e rilette diverse volte, soprattutto per cercare di dare un senso all’azione stessa. I personaggi, nel muoversi in modo convulso, devono sempre trovare una giusta collocazione e i giusti tempi per dare il ritmo. Inoltre, non ci devono essere incongruenze e stonature “tecniche”. Nella realtà, molto di quello che vediamo passare sugli schermi, non è così facilmente realizzabile e certe situazioni non si risolvono così semplicemente come vogliono farci credere. Quindi, per me un libro non è finito fino a quando la trama non sia più che coerente e gli errori corretti.

Dopo aver già pubblicato 4 romanzi, cosa ha significato per te arrivare alla selezione nel concorso EEE, con il tuo inedito, visto soprattutto il genere diverso di libro?

Una profonda emozione. Mentre scorreva il video, in cui l’Editore Piera Rossotti nominava i vincitori e i segnalati, aspettavo con trepidazione, come se fossi al mio primo libro e non mi vergogno di dire che ho esultato come una liceale quando ho sentito fare il mio nome. La resa degli innocenti è un progetto in cui ho creduto fin dall’inizio e comprendere che è stato apprezzato mi ha reso decisamente felice.

Questa storia è anche un percorso interiore nell’abbrutimento di una persona reale. In questo senso, pensi che muoversi nello spazio possa aiutare a immergersi all’interno della propria persona? C’è un collegamento?

Penso che a volte il muoversi porti a credere, in modo del tutto illusorio, che si possa scappare dai problemi. Tuttavia la fuga non è mai una soluzione. Al contrario, muoversi fisicamente spesso porta a delle riflessioni che, stando seduti a casa, non si avrebbe il coraggio di poter affrontare. Il famoso stato di depressione porta alla chiusura, anche interiore della persona, quindi, quando questa è costretta a uscire dal proprio guscio, il processo rigenerativo trova nuovi spunti verso la guarigione. È evidente che tale guarigione, a volte, non percorre le vie più consone e quelle che la logica potrebbe volere.

Quando Irma Panova Maino non scrive, come occupa il proprio tempo?

Continuando a scrivere. Curare il network de Il Mondo dello Scrittore è un impegno che giornalmente mi porta immancabilmente verso lo scrivere. Inoltre, anche curare il blog EEE incrementa l’esercizio, facendo diventare la scrittura una parte quotidiana del mio vivere. Tutto sommato, in questo momento della mia esistenza non cambierei assolutamente nulla. Non c’è niente di più soddisfacente che fare giornalmente qualcosa che si ama. A parte la passione letteraria, esistono poi gli aspetti più realistici del convivere con una figlia adolescente (che adoro e che è spesso fonte d’ispirazione), di un cane innamorato di una gatta e di una gatta che è diventata ormai il tiranno di casa.

Quali sono i progetti futuri?

A parte sopravvivere a BOOKCITY MILANO? Scherzi a parte, molti dei miei impegni hanno già occupato il mio calendario fino alla fine del prossimo anno. Nel frattempo, mi sto dedicando anche ai nuovi libri che mi piacerebbe poter pubblicare con il mio Editore e, per finire (ma non so se mi avanzerà del tempo), dedicarmi a dei nuovi progetti per la promozione degli autori esordienti ed emergenti.

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